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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

31 maggio 2008

Futuro semplice

Più lenti,
più profondi,
più dolci.
Alexander Langer

Sguardi di futuro - 2007

Ogni qual volta rifletto sui problemi del mondo contemporaneo, che riguardino l’economia, la società, la cultura, la sicurezza, l’ecologia o la civiltà in generale, finisco sempre per pormi un interrogativo morale: quale azione è responsabile o accettabile? L’ordine morale, la nostra coscienza e i diritti umani: questi sono i temi più importanti all’inizio del terzo millennio. Dobbiamo tornare e tornare ancora alle radici dell’esistenza umana e valutare le nostre prospettive nei secoli a venire. Dobbiamo analizzare tutto con mente aperta, lucidamente, senza ideologie e senza ossessioni e tradurre il nostro sapere in politiche pratiche.
Vaclav Havel, "l`Unità" 30 settembre 2007

Passeggiata con Amos Oz

Lungo le mura esterne di Gerusalemme
dove prima del ’67 passava il confine
e le armi da fuoco cercavano corpi da abbattere,
andiamo e mi accenna le pietre che pesano piombo.
È un limpido mattino di febbraio,

non si parla di sangue, invece di acqua.
Racconto il pozzo scavato sul mio campo

la felicità del primo getto sparso sul terreno,
acqua divisa tra gli alberi e l’uso di casa,
poca, dosata e resa, non fare che si sciupi.
Lui ricorda quella per lavarsi i denti,

dopo l’uso raccolta dentro un secchio
serviva per pulire il pavimento
e poi strizzata dallo strofinaccio
si versava sul solco piantato a cipolle.
E così ci fermiamo per fare un sorriso.
Siamo due persone che hanno tenuto da conto le gocce.

Erri De Luca

Voglia di futuro

"Per una di quelle ironie in cui la storia è maestra, l'ingresso nel Duemila e l'allungamento della vita hanno estirpato, almeno in questa fetta di mappamondo, il desiderio di futuro. Gli individui, le famiglie, le aziende e gli Stati pattinano su un eterno presente, attraversato da torcicolli nostalgici per un passato ingigantito dai ricordi e un avvenire che si pone come orizzonte estremo la fine del mese. L'idea che un raccolto copioso abbia bisogno di semine lunghe e un progetto ambizioso di investimenti non immediatamente remunerativi sembra essere diventata il ghiribizzo di qualche sognatore, mentre per millenni è stato il propellente del progresso. Questa superficialità isterica ci ha ridotti allo stremo: depressi, infelici, colmi di rabbia senza orgoglio, in crisi di identità, poveri dentro e ormai pure fuori. Prima che un verdetto economico, il declino occidentale è anzitutto un'atrofia del cuore e della mente, incapaci di progettare il mondo che non abiteranno solo i nostri figli ma anche noi, la generazione più longeva dell'avventura umana. L'anno che verrà può rappresentare il punto di rottura, quindi di svolta. Ed è un'altra ironia della storia che esso coincida con il quarantennale dell'ultima utopia di massa: il Sessantotto. Quel desiderio di portare l'immaginazione al potere da parte di chi al potere ha poi finito per portarvi soprattutto l'immagine: la propria. L'immaginazione ci serve adesso. Per progettare nuove forme di convivenza, rilucidare valori etici, studiare strategie economiche che tengano conto del cambiamento vorticoso introdotto dall'irruzione di oltre un miliardo e mezzo di indiani e cinesi nel cortile del consumismo. C'è un bisogno gigantesco di futuro, da queste parti. E poiché ogni bisogno, prima o poi, genera una voglia, il miglior augurio che possiamo farci per il 2008, come singoli e come comunità, è che sia l'anno giusto per ricominciare a sfidare la vita con l'animo dei pionieri. Consapevoli che dietro ogni porta che si chiude ce n'è sempre un'altra che si apre. Basta volerla cercare".
Massimo Gramellini
"La Stampa", 31.12.07)

30 maggio 2008

Notizie verificate

Giuseppe Caruso
Immigrati: delinquenti alla pari degli italiani. Tra quelli regolari (tre milioni e mezzo) il «tasso di devianza» è solo del 2 per cento”
"l’Unità”, 29 maggio 2008

SITUAZIONE Sono in costante crescita, dalle fabbriche ai banchi di scuola, risiedono soprattutto al nord e delinquono come gli italiani. Sono gli immigrati regolari residenti nel Belpaese, secondo il rapporto Istat presentato ieri e che offre un quadro certamente migliore, sul piano dell’integrazione, di quello dipinto da molti politici.
Al primo gennaio 2008 gli immigrati residenti su territorio italiano sono 3,5 milioni, pari al 5,8% del totale della popolazione italiana. Le comunità più numerose sono quelle romena (circa 640 mila), seguita dall’albanese (oltre 400 mila), da quella marocchina (circa 370 mila) e cinese (circa 160 mila). Nel 2007 il maggior numero di arrivi si è registrato dalla Romania (con oltre 300mila ingressi), su totale di 450mila nuovi ingressi. Le regolarizzazioni massicce hanno sortito effettivi positivi. L’Istat ha studiato la condizione di vita delle 650mila persone che dal 2002 hanno usufruito di regolarizzazioni: al 1 gennaio 2007 risultava stabilizzato in Italia ben il 78% di quegli immigrati, cioè 505 mila persone. Queste non solo hanno mantenuto un lavoro ma hanno anche messo radici, con circa 88mila stranieri che si sono sposati nel corso del triennio, abbassando la quota dei celibi e nubili dal 60% iniziale al 39% attuale.
Gli effetti si vedono soprattutto nelle scuole. Durante la stagione 2006-2007 gli studenti stranieri hanno superato quota 500 mila, pari al 5,6% del totale. La presenza straniera è più elevata nei primi ordini scolastici, con 5,7 alunni non italiani ogni 100 iscritti nelle scuole dell'infanzia, quasi 7% nelle primarie e 6,5% nelle secondarie di primo grado. L'incidenza degli immigrati nelle scuole secondarie di secondo grado, seppure contenuta (3,8%) è comunque in forte crescita, essendo triplicata negli ultimi cinque anni.
Del resto le donne straniere fanno molti più figli delle italiane: nel 2006 ne hanno avuto in media 2,5, il doppio di quelli avuti dalle donne del Belpaese (1,26). I nati da genitori stranieri sono stati durante quei dodici mesi 58mila, il 10,3% del totale dei nati residenti. un bimbo su dieci, insomma, si porta dentro cromosomi stranieri, percentuale che arriva al 14,3 considerando anche i 22mila venuti al mondo all'interno di convivenze o matrimoni misti.
Sorprese, vista la propaganda sugli stranieri, per quanto riguarda la criminalità. Il tasso di devianza dei non italiani regolari è pari al 2 per cento, un valore uguale a quello fatto registrare dai cittadini italiani. L’Istat sottolinea come nel 2006 gli stranieri denunciati sono stati oltre 100 mila. La quota di stranieri sul totale dei denunciati varia molto in base al tipo di reato commesso ed è maggiore per borseggi, furti e contrabbando.La maggior parte dei denunciati stranieri risulta non essere in regola con il permesso di soggiorno e, verosimilmente, non l'ha neppure richiesto. Ad esempio è in condizione di irregolarità 1'80 per cento dei denunciati stranieri per reati contro la proprietà (soprattutto borseggio, furto di automobile o in appartamento).

Per rompere stereotipi e pregiudizi

Per rompere gli stereotipi e i pregiudizi che squassano la nostra contemporaneità è urgente sapere; è urgente conoscere quello che non ci siamo mai proccupati di conoscere.


Predrag Matvejevic
Una storia complicata. Rom, che cos'è il pane per il popolo senza terra
”Il Corriere della Sera”, 30 maggio 2008

In alcune regioni i rom formano la maggioranza dei mendicanti ma non godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle cosiddette maggioranze. Faticano a dichiararsi rom per non esporsi ai sospetti, all'avversione dell'ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni. La parola zingaro è diventata offensiva; per questa ragione essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Un volta non lo era... Intanto per molti europei, e italiani — come Claudio Magris ha ricordato sul Corriere lunedì 26 maggio — fanno più paura della mafia o della camorra, benché in confronto a quel tumore sociale i disagi che recano possano paragonarsi tutt'al più a un raffreddore.I rom hanno vissuto la loro Shoah. Spesso si dimentica che furono uccisi a decine di migliaia nei campi di sterminio nazisti, insieme agli ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretti controlli. Questo capita in varie epoche storiche, in diversi Paesi. Non si sa con esattezza quanti siano i rom residenti in ciascuno Stato. Sappiamo però che in alcuni sono numerosi, soprattutto nei Balcani orientali. Ma un numero ancora più consistente di essi è «sempre in cammino ». Chissà da dove vengono o dove vanno; ignoriamo se partano o tornino.In Europa ce ne sono più di dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio né un proprio governo. Hanno tutti un Paese natale, ma non una patria. Sono parte del popolo in mezzo al quale vivono, ma non di una nazione. Non sono neppure una minoranza nazionale: sono transnazionali.
Arrivarono dall'Asia, sono discendenti di popolazioni dell'India settentrionale. Fin dai remoti tempi dell'esodo, si distinguevano per tribù. Attraverso la Persia, l'Armenia, l'Asia Minore, videro e impararono come si fa il pane. Questo cibo elementare, peraltro, non era sconosciuto ai loro lontani antenati.Hanno portato con sé dall'antica terra natia alcuni nomi propri, fra cui quello di rom. Altri gli sono stati attribuiti da gente a loro estranea. Il termine zingaro deriva del greco athinganos. Gli slavi del Sud li indicano con il termine ciganin, tsigan, tsigo; in Gran Bretagna li chiamano gipsy daegytios, anche in Spagna, «per il colore bruno della loro pelle ». Sono detti anche maneschi, sinti, gitani, boemi. Un poeta croato di Dubrovnik, intitolò «Jeupka» — vale a dire «Egiziana» — un suo poema che ha per protagonista una bella rom.
Gli uomini si dedicavano spesso all'arte del fabbro, lavorando i metalli, costruendo attrezzi agricoli, coltelli e spade, ferrando i cavalli; all'allevamento e al commercio degli equini; alla musica suonando chitarre o violini per rallegrare o consolare gli innamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le «belle zingare» cantavano, danzavano e seducevano (in alcune regioni lo fanno ancora). E fanno le indovine, senza dimenticare l'«arte» antichissima dell'accattonaggio, tirandosi dietro per mano, attaccati alla gonna, o portati in braccio i loro bambini.
Nella mia terra natale i rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli «zingari» mi rapissero portandomi via chissà dove (correvano voci di rapimenti). Ma nessuno mi ha mai fatto del male; invece, ho imparato dai rom molte cose utili. Essi apprendono facilmente le lingue, forse più degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescano a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici. Essi mi hanno aiutato ad ascoltare e annotare parte del racconto che qui espongo.I rom hanno diversi termini per indicare il pane; il più frequente è marno che diventa poi manro, maro e mahno nelle varianti. La farina è arho, un nome che nella romanichila,la lingua dei rom, non ha il plurale. E la cosa, forse, non è casuale. Il lievito si dice humer,la fame è bok, essere affamato è bokhalo: queste ultime due parole, sono di uso abbastanza comune. Ch'alo (si pronuncia: cialo) è sazio, panif è l'acqua, jag è il fuoco, lonm è il sale; mangiare si dice hav che è infinito e presente insieme. Conoscendo la povertà, la penuria e la ristrettezza, circondati da tante cose ma privati quasi di tutto, i rom sanno ben distinguere ciò che è pulito ( vujo) e quel che è sporco ( mariame) non soltanto nel cibo, ma anche negli usi e costumi.Non si servono di ricette scritte su come si fa il pane o come si prepara qualsiasi altro cibo, ma conservano e si tramandano una lunga tradizione orale che passa di madre in figlia, di generazione in generazione. Il loro modo di vivere non gi permette di servirsi di forni per il pane, ma una focaccia si può cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pitha (una specie di pizza) su una piastra di semplice latta. Sapeste come sono saporite le pagnotte e le focacce dei rom!Nei loro proverbi sul pane c'è molta saggezza. Ne ho annotati alcuni nella lingua originale e li riporto perché se ne senta il suono; li ho poi tradotti per renderli più comprensibili.
Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi lengo vast ciumidela: «Se il povero venisse bastonato con il pane, egli bacerebbe la mano di chi lo colpisce ».
O marno sciai so o Develni kamel thai so a thagar nasc'tisarel: «Il pane può fare quello che Iddio non vuole e che l'imperatore non riesce a fare».
Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce bi ovena vi e khanghira vi e krisa: «Se vi fosse pane sufficiente per tutti in questo mondo, le chiese e i tribunali sarebbero deserti ».
Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe: «Se ci fosse il pane e non ci fossero i furbi, le preghiere sarebbero inutili ».
O bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo dikhel suno pe sune: «L'affamato sogna il pane, il ricco sogna i propri sogni ».
Una giovane zingara, allattando il proprio bimbo al seno, mi recitò quanto trascrivo di seguito, nella sua lingua: una breve canzone dedicata al pane. Me la tradusse persino. Il titolo è « Marno », semplicemente: «Pane».
I voghi e iag giuvdarel,
i pani o arko bairarel.
O humer i dai longiarel
thai peske ilesa gudgliarel, gudlo thai baro te ovel,
pire c'havoren te ciagliarel.

Ed ecco la traduzione, purtroppo senza la fisarmonica e il tamburello:
«Il soffio ravviva il fuoco,
con l'acqua si gonfia la farina.
La mamma versa il sale nella pasta,
la insapora con l'anima sua
perché il pane sia dolce e abbondante
e nutra i suoi bambini».
L'uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto per volontà propria. L'accattonaggio è l'ammonimento agli uomini veri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare il pane a ciascuno, a coloro che non dovrebbero dimenticare la carità. Le armi e le guerre costano molto di più del pane. Gli antichi profeti consigliarono, invano, di sostituire la lancia con il vomere. I rom non possiedono terre da arare. Ed oggi è per loro più facile mendicare, e talvolta, anche un po' rubare. Domani, forse, non sarà più così. «Non dovrebbero essere così» dice il vecchio zingo,come una volta lo chiamavano nei Balcani, usando termini vezzeggiativi.
(Traduzione di Giacomo Scotti)

27 maggio 2008

Cinema italiano

Il cinema italiano ha sempre trovato la propria eccellenza con i film di "denuncia civile". Per questo Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino hanno meritato la ribalta internazionale al Festival del cinema di Cannes.


Antonio Scurati
Miseria e nobiltà
"La Stampa", 27 maggio 2008

Da ragazzo trascorsi un anno in una famiglia americana. Un giorno trovai in un videonoleggio una copia di C’era una volta in America, il mio film preferito. Subito, con grande fierezza, lo feci vedere a tutta la famiglia. Nemmeno a metà della visione, il padre si alzò indignato e sbalordito: non si spiegava come io potessi esser fiero di mostrare quell’epopea sanguinaria dei miei connazionali mafiosi. La forza ottusa degli stereotipi e l’indignazione gli impedirono di accorgersi che i gangster del film sono ebrei originari dell’Est Europa non italoamericani, e che l’epopea criminale racconta la storia degli Stati Uniti d’America non dell’Italia. L’unica cosa italiana in quel capolavoro è, infatti, l’arte di Sergio Leone e dei tanti che lavorarono con lui. Ciò che quel film testimonia nel mondo è che siamo un Paese capace di grande arte, oltre che di grandi crimini. La medesima situazione si ripropone ora con il successo a Cannes degli splendidi film di Matteo Garrone sul dramma di Napoli e di Paolo Sorrentino sul fondo oscuro della politica italiana. Non è mancato chi ha riproposto l’adagio cinico dei «panni sporchi che si lavano in casa», chi ha accusato Roberto Saviano di speculare sul dramma della propria gente, chi ha imputato ai nostri artisti di contribuire a diffondere nel mondo un’immagine dell’Italia come Paese corrotto, Paese delle mafie, Paese dalla storia politica tragica. Quest’accusa la si è sempre mossa ai nostri migliori artisti, dal dopoguerra fino a oggi. A pronunciarla è sempre la stessa voce meschina, sempre intonata alle miserie d’Italia e mai alla nobiltà dell’Italia capace anche di strappare la grande arte alle proprie miserie. È vero che nel resto del mondo ci immaginano - e forse perfino ci vogliono - mafiosi, camorristi, immersi nella «munnezza», reale e simbolica, fino al collo; è vero che spesso guardano a noi con quel misto di attrazione e repulsione che suscita l’esotico, il primitivo, il barbarico; è anche vero che è molto più facile interessare il resto d’Europa con un film o un libro sul Sud della mafia o della camorra, sulla Sardegna degli arcaismi barbaricini, che non sul Nord del capitalismo molecolare e della fabbrica diffusa; è vero che per l’Europa che si appassiona al nostro Paese l’Italia è Napoli, come è vero che l’affascina meno Milano perché Milano è già Europa. Ma è anche vero che Napoli è l’Italia, che l’Italia è un Paese corrotto, un Paese delle mafie, un Paese dalla storia politica tragica. Siamo anche tutti pronti a riconoscere che troppo a lungo un certo Meridione d’Italia si è crogiolato nel piagnisteo sugli «eterni, inguaribili mali del nostro tragico Sud», e che pletore di intellettuali, artisti e scrittori hanno sguazzato in questa retorica. Ma la chiave per discernere tra un modo complice e un modo vindice di raccontare i mali del Sud d’Italia sta proprio in questa parola: tragedia. La tragedia non è mai nelle cose. È solo nell’occhio di chi le guarda. Ma attenzione: la tragedia non è il male. Al contrario, la tragedia è la più alta forma di resistenza umana al male. La forma tragica è quel tipo di sguardo artistico sul mondo che non si rassegna al mondo, che si oppone al suo dolore, che lotta contro la sua malvagità. Un bosco di lecci incenerito da un incendio, uno sciame di mosche falcidiato da un’improvvisa gelata non sono tragici. C’è tragedia soltanto dove c’è l’umano che lotta contro il destino avverso. E proprio questo fa la grande arte tragica: lotta. Fa attrito, fa resistenza, fa dello sterco concime per la semina dei campi. L’arte tragica di cineasti come Garrone e Sorrentino oppone alle brutture d’Italia la propria bellezza. Loro non sono parte del problema, sono già una risposta a esso. È anche grazie a loro che l’Italia non sarà solo camorra o oscura politica. La distanza tra le loro opere cinematografiche e la materia brutale che portano sullo schermo è la stessa che separa la lamentela dalla lamentazione. La lamentela è un inveterato vizio italiano. In essa risuona quell’inerte piagnucolio che ha da tempo rinunciato a ogni responsabilità e a ogni reazione. La lamentela si limita a pietire un piccolo risarcimento per sé. Al suo opposto, nella lamentazione tragica, l’umanità afflitta risponde al male che è nelle cose innalzando un magnifico canto di comprensione, conforto e protesta. Un canto, al tempo stesso, di consolazione e di lotta. Quest’antico canto ci ricorda che l’enorme capacità umana di produrre il male trova un analogo solo nell’enorme capacità umana di creare l’arte dal male.

26 maggio 2008

Diagnosi -1985

"Sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze."
(Italo Calvino, Lezioni americane, 1985)

Percorsi di lettura per svegliare l'indifferenza

La inconsapevole connivenza

Quando i nazisti sono venuti a prelevare i comunisti,
non ho detto niente, non ero comunista.
Quando sono venuti a prelevare i sindacalisti,
non ho detto niente, non ero sindacalista.
Quando sono venuti a prelevare gli ebrei,
non ho detto niente, non ero ebreo.
Quando sono venuti a prelevare i cattolici,
non ho detto niente, non ero cattolico.
Poi sono venuti a prelevare me.
Ma non rimaneva più nessuno per dire qualche cosa.

Martin Niemöller - 1942



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Libri da (ri)leggere
Günther Anders, Noi figli di Eichmann, Firenze, Giuntina, 1995.
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986
Elie Wiesel, La città della fortuna, Firenze, Giuntina, 1990

Migranti

"Migrante é tuo padre e tua madre e altri ed altre prima di loro. Siamo tutti migranti, ma solo alcuni vengono costretti ad essere clandestini: quando verrà il tempo in cui uomini e donne saranno liberi cittadini e la nostra patria il mondo intero?”
Primo Levi

Svegliare l'indifferenza

Da molti mesi in Italia é esplosa una campagna di inaudito allarmismo contro gli immigrati, i clandestini e le comunità Rom residenti in Italia; episodi di violenza sono sempre più frequenti e ottengono il consenso pubblico. Con il pretesto della “sicurezza” si insinuano messaggi pervasi di razzismo e di xenofobia. Le istituzioni assecondano e sollecitano misure sempre più repressive. Il nuovo Governo preannuncia provvedimenti “eccezionali” in evidente contraddizione con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e con le più recenti direttive dell’Europa comunitaria. Per questo propongo di utilizzare la posta elettronica e Internet per diffondere la Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione dei Rom nell'Unione europea del 31 gennaio 2008 che definisce in modo limpido le linee guida di una politica fondata sull’accoglienza e l’integrazione. Non a caso la Risoluzione invita a ricordare con determinazione che nell’Olocausto dobbiamo anche comprendere il Porajmos, il genocidio dei Rom. Decine di migliaia di PERSONE, uomini, donne, vecchi e bambini, mandati nei campi di sterminio perché Rom. Perché con le parole di Primo Levi dobbiamo ricordare che anche “questo é stato”
Proviamo almeno a svegliare l''indifferenza con un'informazione ben ancorata ai fatti, ai documenti, alla storia.

Per saperne di più:documenti
Libri
Il caso Zingari, a cura di Marco Impagliazzo, Milano, Leonardo International, 2008.
G.Lewy, La persecuzione nazista degli zingari, Torino, Einaudi, 2002.
L. Narciso, La maschera e il pregiudizio. Storia degli zingari, Roma, Melusina, 1990.
link

Cercando il giornalismo riflessivo


L'amico di Falcone
di Massimo Gramellini
"La Stampa", 24 maggio 2008 (rubrica "Buongiorno" )

"Dov’eravate il 23 maggio 1992, un sabato pomeriggio, quando la mafia fece saltare in aria Giovanni Falcone con moglie e scorta, fissando per sempre quella data nella memoria degli italiani come il loro 11 settembre? Io mi trovavo a Roma nella redazione de La Stampa e avevo voglia di un gelato. La tv accesa ronzava boiate e mi alzai dal computer per proporre a Ciccio La Licata un raid alla gelateria siciliana sotto il giornale. Lo trovai curvo su un foglietto di carta: lo rigirava fra le mani come se cercasse il verso giusto per leggerlo. Era il dispaccio d’agenzia che annunciava l’Attentatuni. Palermitano e principe del giornalismo di mafia, Ciccio era amico personale di Falcone, uno dei pochi. Quando me lo aveva presentato al giornale (Falcone scriveva per noi), ero andato in cerca di una frase memorabile, ma dalla gola non mi era uscito che uno stupido «Pia-ce-re!». Ciccio posò il foglietto e rispose al telefono. Il direttore, da Torino, gli chiedeva un ritratto del magistrato ucciso. Lui non disse nulla. Accese il computer e cominciò a battere piano sulla tastiera. Lo osservavo come in un incantesimo: intorno a noi i televisori strepitavano la notizia, sui volti dei redattori e dei fattorini montava la rabbia, ma Ciccio niente, scriveva e perdeva acqua dagli occhi in silenzio. Le lacrime gli scendevano lungo la scanalatura del naso e andavano a inzuppare la barba senza che lui facesse un solo movimento per fermarle. Ancora oggi lo rivedo mentre scrive quelle parole asciutte con gli occhi bagnati. E penso che Falcone doveva essere davvero un grand’uomo per meritarsi un giornalista così. "

25 maggio 2008

Cherùt - Libertà

Il titolo di questo blog è ancorato ad un articolo di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001.


Amos Luzzatto
Il valore della Libertà il rispetto della Legge
"La Repubblica", 15 aprile 2001


Credo di interpretare i sentimenti di tutti gli ebrei italiani facendo giungere il mio augurio personale e quello della Comunità che rappresento pro tempore a tutti gli italiani, a tutti i nostri concittadini che condividono con noi ansie e preoccupazioni ma anche intenzioni e speranze. La Pasqua cristiana, che giunge quest'anno a conclusione degli otto giorni delle festività pasquali ebraiche, ci spinge a fare alcune brevi considerazioni. Esse sono centrate su due parole chiave ebraiche: la prima è la parola cherùt, che vuol dire “libertà”. È certo che la festività ebraica commemora ed esalta la liberazione di un popolo intero dal giogo della schiavitù. Non si tratta certamente di un evento secondario nella storia dell'umanità, se ancora ai nostri giorni esso si rivela a tal punto attuale da essere in grado di mobilitare le coscienze e di indurre a sacrifici tutti coloro che vogliono ottenere la libertà quando viene loro negata e difenderla ardentemente quando viene minacciata. Ma la tradizione ebraica non fa della libertà, di qualunque forma di libertà, un valore assoluto. La liberazione dall'Egitto è seguita immediatamente (si potrebbe anche dire che essa ha lo scopo preciso) dalla tappa del Monte Sinai, che rappresenta l'accettazione della legge, di una disciplina, la sottomissione a determinati vincoli, a obblighi sia positivi che negativi. Non vi è contraddizione in tutto questo? La libertà non parrebbe in contrasto con il concetto stesso di vincoli? Non si tratta forse di una libertà che nega se stessa nel momento stesso in cui si afferma? Anche questa domanda pare essere di scottante attualità, tanto da farsi spesso, più che un problema di storia, un frammento di cronaca dei nostri tempi. I Maestri ebrei dell'antichità citavano il versetto del libro del Levitico (32, 16) che suonava: “E lo scritto era scritto di Dio, inciso sulle Tavole”. Si parla evidentemente delle Tavole della Legge e dei Dieci Comandamenti, pilastro e avvio di una legislazione nella quale i “vincoli” non mancano davvero. Ma la parola “inciso” suona in ebraico charùt, termine che si distingue per una sola vocale da cherùt, che abbiamo già detto significare “libertà”. E in una lingua dalla scrittura solo consonantica come quella ebraica, le due vocali possono essere facilmente interscambiate. “Non si deve leggere -dicono pertanto i Maestri - inciso sulle Tavole, bensì “la libertà è sulle Tavole”. In altre parole: è proprio la legge quella che dà la libertà. A pensarci bene, sembra una banalità: una società è libera se tutti i suoi membri godono della stessa libertà; e a garanzia di questi “tutti” c'è, appunto, la legge (che vale, egualmente per tutti). Ma è tanto poco banale che ne discutiamo ancora, dopo millenni. La seconda parola chiave ci spiegherà meglio il concetto. Essa è ger, che significa approssimativamente “un forestiero che risiede per un tempo più o meno lungo nel territorio, che non possiede terre ma che vive del proprio lavoro”. In tutta la Bibbia, ger rappresenta (come le vedove e gli orfani cui è parificato) una categoria debole, che sarebbe alla mercé dei più forti, dei “liberi” cittadini, che dovrebbe subire umiliazioni e discriminazioni se non intervenisse la Legge per proteggerlo, vista la sua inferiorità obiettiva. “Il ger sia per voi come uno dei vostri cittadini. Tu lo amerai come te stesso, poiché anche voi siete stati gerim in Terra d'Egitto” (Levitico 19, 34). Troppe volte la libertà non è stata intesa come libertà per sé e per il proprio prossimo. Troppe volte è stata trattata come se fosse un bene da acquisire per colui che dispone dei mezzi per farlo. Allora la libertà si trasforma nel diritto di esercitare il potere; e in questo caso è sempre il diritto dei pochi nei confronti dei molti. Viviamo dunque questa ricorrenza festiva con serena consapevolezza. Dai tempi più antichi, essa ci ricorda che cosa sia o debba essere una società umana matura; una società che difende la libertà nel rispetto e nel sostegno dei più deboli. E che accetta e riconosce dei doveri, che spetta alla legge sancire, delle regole che il nostro senso morale c'impone di accettare.

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