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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

27 giugno 2008

Libri

Dalla Chiesa N. , Il giudice ragazzino, Torino, 1992.
Dolci, D. Poema umano, Torino, 1974
Langer A., Il viaggiatore leggero, Palermo, 1996

Levi P. , I sommersi e i salvati, Torino, 1986
Wiesel E. , La città della fortuna, Firenze, 1990

26 giugno 2008

1938 - Discriminazioni - 2008

Alessandra Longo intervista Amos Luzzatto
"La Repubblica", 26 giugno 2008
L’ex presidente dell´Ucei: "È un processo di schedatura costituzionalmente scorretto"Luzzatto: "C´è un segno razzista timbrati ed esclusi come noi ebrei" . Inaccettabile prendere le impronte ai bimbi di un gruppo etnico, significa considerarli ladri congenitiLa norma di Maroni mi ricorda quando da piccolo non potevo andare a scuola e mi indicavano per strada.
ROMA - «Sono stato bambino e non potevo andare a scuola con gli altri. Ricordo che mi indicavano con il dito: "Mamma, guarda, quello è un giudeo!". Sono cose successe 70 anni fa, cose che mi hanno segnato la carne e la memoria. Cose che non dimenticherò mai per quel che ancora mi resta da vivere. Prendere le impronte ai bambini Rom, come vorrebbe Maroni, significa compiere una schedatura etnica. E questo è totalmente inaccettabile». Amos Luzzatto è a Firenze, a presentare il libro dei suoi 80 anni: «Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra». L´Italia che lo circonda gli piace sempre meno e quest´ultima notizia lo turba profondamente.Luzzatto, che cosa sta succedendo al nostro Paese? Anni fa sarebbe venuta in mente ad un governo una proposta del genere?«C´è un razzismo latente nella cultura italiana, dovuto purtroppo ad un´insufficienza culturale. Ciclicamente si manifesta. Ricordo di essere stato a Palazzo Chigi quando, durante un precedente governo Berlusconi, venne fuori l´idea di schedare tutti gli immigrati. Ero presidente dell´Unione delle Comunità ebraiche e dissi che, se le prendevano a loro, avrebbero dovuto prenderle anche a noi. Mi spiegarono che non era un´iniziativa mirata ma solo l´inizio di un processo di identificazione generalizzato. Forse fiutarono l´aria. Alla fine, non ne fecero nulla. Io sono rimasto a quell´episodio».Adesso non sembra che ci sia alcun imbarazzo. Si evoca esplicitamente la schedatura di bambini.«Infatti quest´ipotesi è di gran lunga peggiore. Prendere i polpastrelli dei piccoli di un certo gruppo etnico significa considerarli ladri congeniti, prevedere che diventeranno dei delinquenti e commetteranno dei reati. E´ evidente e inaccettabile il segno razziale di questa iniziativa».Immagino le ricordi qualcosa.«Sì, mi ricorda il mio essere bambino, bollato, timbrato, come giudeo di cui non fidarsi».Come finirà?«Non credo che sia costituzionalmente corretto un processo di schedatura su queste basi chiaramente discriminatorie».Le armi della legge e quelle della parola...«Sì, da ebreo esprimo tutta la mia riprovazione».Si può parlare di nuovo fascismo?«Direi piuttosto di razzismo. La Lega è una destra populista».Dove porta la strada della schedatura ai piccoli rom?«Si comincia così e poi si va avanti con l´allontanamento dalle scuole, le classi differenziate, le discriminazioni diffuse. Questo pesa terribilmente sul vissuto di un bambino che si sente trattato diversamente dai suoi coetanei, vive come un appestato, carico di ossessioni e nevrosi. E´ una ferita che dura una vita».L´Italia di oggi, quella che si sente rappresentata dal governo Berlusconi, sembra aver preso questa direzione.«Esattamente la direzione contraria agli obiettivi di integrazione che vogliono dire soprattutto rispetto delle tradizioni e delle culture altrui».Luzzatto, la gente che non condivide che cosa deve fare? Chiedere, provocatoriamente, come fece lei a suo tempo, che vengano prese le impronte a tutti?«Noi allora reagimmo così. Certo, in questo caso, sarebbe fuori luogo coinvolgere nella protesta i bambini ebrei. I bambini, tutti i bambini, sono, fino a prova contraria, innocenti e devono essere protetti dalla crudeltà degli adulti».Com´è quest´Italia?«Un Paese che ha perso la memoria».
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Percorsi di lettura
Amos Luzzatto, Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra, Milano, Mursia, 2008.

24 giugno 2008

Donne di ieri, donne di oggi

Resistenza, perché le donne la scelsero
"l’Unità! 23 giugno 2008
A Gattatico di Reggio Emilia alla Festa nazionale dell’Anpi partigiane di ieri e «nuove partigiane» di oggi hanno ricordato il contributo femminile alla Lotta di Liberazione: 35mila combattenti, 7mila staffette e altre migliaia in retroviaTrentacinquemila combattenti nelle formazioni partigiane, ventimila staffette, settantamila organizzate in gruppi di difesa. E poi diverse centinaia cadute in combattimento o fucilate, molte altre migliaia ferite, arrestate, torturate, condannate dai tribunali fascisti, deportate in Germania.I numeri dicono già quali dimensioni abbia avuto la partecipazione delle donne alla Resistenza. Ma per restituirne appieno il senso, la passione, l'importanza, bisogna ascoltare di persona le voci di quelle che sono ancora oggi sulla breccia. A testimoniare, a trasmettere la memoria alle nuove generazioni, a proseguire l'impegno per i valori di libertà, di democrazia, di uguaglianza che - giovanissime ragazze - seppero far vincere oltre sessant'anni fa.Donne di ieri e di oggi. Il coraggio della scelta è il titolo del convegno che ieri - nell’ambito della prima festa nazionale dell’Anpi, alla casa-museo Cervi di Gattatico, luogo simbolo dell’antifascismo - ha offerto l'occasione per ascoltare queste voci e per presentare i progetti volti a promuovere la conoscenza di quanto le donne italiano hanno fatto prima, durante e dopo la Liberazione.Ad organizzarlo hanno lavorato insieme anziane partigiane e «nuove resistenti» entrate nell’Anpi in questi ultimissimi anni. Non è stata una celebrazione rituale, né una esercitazione accademica, ma una riflessione sulla storia di ieri con un occhio esplicitamente rivolto alle vicende dei giorni nostri.Non solo perché - con i tempi che corrono, con i revisionismi strumentali che vanno di moda - ricordare la realtà autentica del fascismo e della Resistenza è già mettere i piedi nel piatto della più stretta attualità politica. Ma anche perché - come avverte esplicitamente la Marisa Rodano, partigiana e fondatrice dell’Unione Donne Italiane - «certo l'Italia di oggi è molto diversa da quella fascista, però di fronte alle violazioni di diritti e di libertà fondamentali è necessario essere vigili, reagire. Purtroppo, i segnali non mancano».E dunque, quale fu il momento in cui tante donne capirono da che parte bisognava stare? In molti casi, non si trattò di una scelta dettata da ideologie politiche, bensì di una reazione spontanea alle condizioni di vita proprie e delle proprie famiglie, alle ingiustizie e alle prepotenze del regime, poi alle sofferenze e ai lutti della guerra. «Mia madre era vedova - racconta Giacomina Castagnetti- - il regime la premiò perche aveva otto figli. Ma poi le rubò perfino l'anello nuziale, con la campagna per l’oro alla patria: lei consegnò piangendo, lo fece per proteggere noi figli da possibili rappresaglie. Ma nel 1938, vennero di notte ad arrestare uno dei miei fratelli. E nel 1941 vennero di nuovo, a portarci un telegramma con l’avviso che un altro fratello era morto in guerra, al confine tra Grecia e Albania. Dopo l’8 settembre, per me è stato un fatto naturale andare con i partigiani».Anita Malavasi, nome di battaglia Laila, subì il primo sopruso a 10 anni: «A scuola ero arrivata prima al concorso di disegno. Mi dissero che, non avendo io la tessera di piccola fascista, il premio non me lo avrebbero dato. Tempo dopo, un mio caro amico fu picchiato pesantemente per aver raccontato una barzelletta sul duce. A un altro diedero l’olio di ricino perché si lamentava della difficoltà di trovar lavoro». Luciana Romoli iniziò a ribellarsi ad 8 anni, contro la maestra che perseguitava una compagna di classe ebrea: «Voleva che noi bambine scrivessimo frasi contro gli ebrei, invece ce la siamo presa con lei, l’abbiamo aggredita. Poi io e mia sorella Adriana, che aveva due anni in più di me, siamo state espulse dalla scuola perché avevamo portato volantini contro le leggi razziali. Ma io dopo la guerra ho ripreso a studiare, mi sono diplomata a 30 anni e laureata a 45». Tante storie di ragazze semplici, che vissero prestissimo sulla loro pelle le angherie della dittatura. E videro poi brutalità sempre più orrende.Dianella Gagliani, docente universitaria di storia, cita un libro di Tina Anselmi, la quale comprese che «doveva esserci», quando vide 31 giovani impiccati ad altrettanti alberi dai nazisti, a Bassano del Grappa. «Oggi sentiamo parlare molto di crimini dei partigiani - commenta con amarezza la prof. Gagliani - Ma forse noi stessi non abbiamo mai spiegato abbastanza in quali forme terrificanti si esercitò la violenza nazifascista».Allora, è importante conservare la memoria, trovare i mezzi per comunicarla alle nuove generazioni. L’archivio audiovisivo che la giornalista Gabriella Gallozzi e il regista Guido Albonetti hanno cominciato a mettere insieme - per l'Acab (associazione culturale Antonello Branca), con il sostegno dell'Anpi, del nostro giornale e della Regione Lazio - si propone appunto di raccogliere i racconti delle donne partigiane di tutta Italia.A Gattatico ne hanno presentato «provino», facendo passare, insieme a belle immagini storiche realizzate da Liliana Cavani, alcune brevi testimonianze. In una, che risale al 1964, Germana Boldrini racconta da protagonista la battaglia di Porta Lame, a Bologna, contro i nazisti. In un’altra, Marisa Rodano ricorda le sue prime attività antifasciste: «Non sono discese da una tradizione familiare, anzi mio padre aveva fatto la marcia su Roma. Ho cominciato all’università, dopo aver visto cacciare due studenti colpevoli di essere ebrei. Con alcuni compagni abbiamo costituito un piccolo gruppo, nel 1943 sono stata arrestata per la pubblicazione di un foglio comunista, si chiamava Pugno Chiuso, era il primo numero e sarebbe rimasto l'unico. Il 25 luglio sono uscita dal carcere e di lì a poco sono entrata nella Resistenza».Un’altra «voce» che già fa parte dell'archivio è quella di Lina Fibbi: «Nell’aprile 1945 ero incinta, il mio compagno era appena stato ammazzato dai fascisti. Luigi Longo mi incaricò di smistare a Milano l'ordine di insurrezione generale del Cln. Io andai: in bicicletta, con il pancione e con molta paura». Poi c'è quella di Walchiria Terradura, comandante della «Brigata Garibaldi-Pesaro», una formazione di sette uomini conosciuta come «Settebello». E quella di Teresa Vergalli, che diventò partigiana «per amore dei genitori, contadini poverissimi, che hanno cresciuto i figli a radicchio di campo e antifascismo».Teresa Vergalli, pure presente al convegno, tiene molto a ribadire una cosa: «Ora si guarda con una certa qual comprensione ai ragazzi di Salò, perché anche loro sarebbero stati in buona fede. Ma anche noi partigiani eravamo ragazzi, e stavamo dalla parte giusta! È una differenza che non bisogna mai dimenticare». E lancia un appello ai ragazzi di oggi: «Attenzione, stiamo vivendo un momento grave, nel quale si cerca di svuotare la Costituzione dall'interno. Dovete colmare il silenzio che è calato tra voi e le generazioni che vi hanno preceduto. Tocca voi, adesso, arrabbiarvi e dare battaglia».

23 giugno 2008

Per un "Manifesto Antisciatteria"


Paola Mastracola
L'epoca del "fai come ti pare"
"La Stampa", 23 giugno 2008

Mia madre, se mi vedeva la giacca senza un bottone, non mi faceva uscire di casa. Non ti puoi presentare da nessuna parte se ti manca un bottone, mi diceva. Oggi il grande Armani passeggia per Milano e si dice inorridito da come ci vestiamo. Credo che sui bottoni la pensi come mia madre, e non so come dargli torto.Basta andare al mare una domenica. Vediamo uomini a torso nudo che trascinano i piedi dentro zoccoloni di plastica e zampettano al ristorante senza nemmeno pulirsi dalla sabbia; e donne fasciate alla bell’e meglio da tendaggi umidicci e stinti che chiamiamo esoticamente pareo. Prendiamo a pretesto il sole, il caldo, la vacanza; per giustificare tutti gli zoccoli e i pareo che ci pare, usiamo come armi affilate le parole: comodo, informale, pratico. In realtà è che non abbiamo più voglia di impegnarci, di fare fatica, di mettere energia nemmeno a scegliere un vestito elegante con i sandali in pelle. Abbiamo barattato l’eleganza con una pseudo libertà, che invece ci abbrutisce e ci degrada.Siamo ineleganti perché abbiamo perso la precisione e l’accuratezza. Esisteva la calligrafia ovvero la bella scrittura, per esempio, perché qualcuno si metteva lì a disegnare parola dopo parola, con precisione da miniaturista. D’altronde, un tempo facevamo mosaici e costruivamo piramidi… Impiegavamo un tempo infinito a cuocere una statua, a pennellare un ritratto, a scrivere un libro: a volte ci mettevamo una vita e non bastava, il libro usciva postumo (ed era una gloria imperitura, ma sarebbe un altro discorso, lasciamo perdere). Così, viviamo alla giornata, nel tripudio di un carpe diem travisato per sempre: qui non afferriamo nessun tempo, lo sprechiamo a essere fintamente liberi, cioè sciatti, guadagnando un tempo che poi ri-sprechiamo in altro, non si sa bene cosa. Almeno coltivassimo il filosofico otium degli antichi, ma neanche quello. Coltiviamo l’ozio del «fare il meno possibile, che tanto è uguale». Qualcuno deve averci detto che non importa più che ci danniamo l’anima a far bene una cosa, basta farla e il risultato è uguale. La presunta uguaglianza dei risultati!E così, il mondo tira a campare saturando l'aria di approssimazioni e inesattezze.I giornalisti non fanno più inchieste sul campo, ma telefonano agli esperti elemosinando opinioni al volo. I magistrati non fanno indagini e pedinamenti, ma preferiscono intercettare. I servizi segreti hanno difficoltà a infiltrare i gruppi terroristici, e quindi monitorano le comunicazioni internet e telefoniche. Gli ispettori ministeriali non leggono i libri, non consultano enciclopedie, non controllano i testi, ma si danno - peggio che i nostri giovani - a uno sfrenato copia-incolla. Povero Montale, che tanto si affannava a dedicar poesie! D’altronde, potremmo dire: c’è così tanta differenza tra un ballerino russo e una donna amata? Ecco, è questo credere che non ci sia poi così tanta differenza che non va. E torniamo ai vestiti: una volta c’era differenza tra soprabito e cappotto, perché si faceva attenzione a che fosse inverno o primavera. Adesso vale il «fa’ come ti pare», mettiti come vuoi, basta che tu ti senta libero. E così, gli studiosi non vanno più in biblioteca, aprono internet e si perdono a navigare nei suoi flutti. E forse nessuno studierà più niente, perché tanto, che differenza fa? Se ti serve qualcosa, peschi in rete e fai la tua bella figura. I politici non fanno più comizi nelle piazze, non studiano i problemi, non vanno in sezione: si limitano ad apparire in tivù, a concionare alla radio. Gettano parole sul mondo, come viene viene. Parole approssimative, rumorose, non pensate, non amate. Parole dove si sente che non alberga più un pizzico di passione ed esattezza. Sì, perché anche la passione è esatta; anche l’amore esige impegno e precisione. Come scrivere bene, come indossare un bel vestito, cuocere il tempo giusto un dolce, come amare la persona a cui abbiamo promesso amore. Invece oggi, come ci infiliamo al volo gli zoccoli di plastica per scendere in strada, così una sera diciamo al nostro coniuge che basta, non lo amiamo più, e non sappiamo proprio cosa dirgli se non lo amiamo più: ce ne andiamo, lasciando dietro di noi i cocci sparsi di una casa, dei figli, dei parenti vecchi e malati. Cosa importa? Gira il vento e noi, anime libere e irresponsabili, seguiamo il vento. E il vento ci porterà via, e non resterà nulla di noi. Sciatterie del sentimento.Dovremmo smetterla. Dovremmo scrivere un manifesto dell’Antisciatto. Senza tante pretese, con un’unica regola: l’umiltà di fare bene quel poco o tanto che sappiamo fare, con il pensiero però che quel nostro umile fare, almeno un po’, concorrerà a migliorare il mondo.

C'é bisogno di grandezza

"Le persone non possono vivere in un'eterna immobile mediocrità, mortificando ciò che appartiene ad ogni essere umano come diritto naturale: il diritto ad una vita vasta, colma della grandezza propria e degli altri. Governati da grandi statisti, illuminati da grandi intelletti, confortati da grandi amori, giustificati dalle grandi cose che sanno fare le nostre mani quando ci proponiamo di mettere a punto un impianto elettrico, scrivere un romanzo, insegnare le divisioni con la virgola, costruire una casa fino al tetto".

Maurizio Maggiani, "Il Secolo XIX", 22 giugno 2008

Sguardi di futuro

“Per costruire il futuro bisogna
in qualche modo presagirlo.”
Vittorio Foa

22 giugno 2008

Diagnosi - 1910

" Un più alto concetto della vita e della moralità individuale, ci spinge a disprezzare tutta questa caterva di uomini posti in alto o in basso, che non sentendo in alcun grado la terribile serietà di ogni atto individuale, ogni scelta, giocano spensieratamente con la vita - si che l'inerzia, il deficiente senso di responsabilità, la scarsa energia fattiva, e costruttiva, e l'indecorosa e disonesta condotta, ci appariscono (sic) come conseguenze già incluse in un male ben più profondo, ch'è la fiacca ed arretrata vita morale dell'individuo. Un più alto concetto dei fini propri della convivenza sociale in genere che si chiama l'Italia, ci fa disprezzare e compiangere vari decenni di vita politica ed amministrativa del Regno, che hanno tradotto in fatti, talora irrimediabili di vita pubblica, la pochezza morale, la povertà fattiva ed intellettuale della classe dirigente. E constatiamo con impazienza e con sdegno quale immane peso poi dovremmo poi rimuovere dal nostro cammino di popolo, prima di poter intraprendere una vita nazionale corrispondente all'attuale realtà dei nostri ideali e dei nostri bisogni".

Giovanni Amendola, Firenze 1910

21 giugno 2008

Cittadinanza qualificata

"L’onestà intellettuale è di chi sa coltivare per sé un pensiero aperto e libero, capace di un costante confronto con la realtà e con le realtà degli altri pensieri; un pensiero di forti ragioni e coraggiose umiltà. Chi è intellettualmente onesto non solo non ruba ma non tollera il furto in sé, e sa costruire dal suo pensiero una realtà dove il furto sia intollerabile per tutti. L’onestà intellettuale è dunque qualcosa di più del semplice dovere di essere ligi alle leggi dello Stato, richiede di aderire alle leggi interiori, agli imperativi che vengono posti allo spirito; è una virtù non solo una buona condotta. E abbiamo bisogno di masse di uomini non solo incensurati e incensurabili, ma anche virtuosi."

Maurizio Maggiani, “Il Secolo XIX”, 29 maggio 2008

Emergenza democratica


Adriano Sansa
Fino a quando applicar tacendo
"La Stampa", 21 giugno 2008

Se domani una legge dicesse che prima dell’udienza l’imputato va tenuto in ginocchio sul sale, non la applicheremmo. Chiederemmo alla Corte Costituzionale di dichiararne l’illegittimità, ma intanto non obbediremmo. Si sta avvicinando il momento, che mai avremmo immaginato, di questa drammatica frattura delle coscienze, dei cittadini e degli stessi giudici. Fino a che punto si deve prestare obbedienza alla legge? Antico quesito, peraltro sorprendentemente attuale.La norma che sospende i processi per i reati puniti fino a dieci anni è stata introdotta surrettiziamente nel testo del decreto sulla sicurezza, dopo l’autorizzazione del Presidente della Repubblica. Essa viola il principio della separazione dei poteri, quello della ragionevole durata del processo e quello dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. È escluso che sia rivolta a disciplinare con indicazioni di massima la «precedenza» tra processi al fine di migliorare il rendimento della giustizia, perché sospende la maggior parte dei procedimenti pendenti e quasi tutti quelli per gli episodi di criminalità quotidiana che allarmano i cittadini. Non solo, ma la lettera del premier al presidente del Senato nella quale egli insolentisce e dileggia i magistrati di fronte ai quali è imputato, contestuale alla presentazione del decreto in Senato, conferma inequivocabilmente il nesso tra la sospensione generalizzata e la posizione personale del Berlusconi. Nel complesso ci si trova di fronte a una lesione ripetuta e grave delle regole fondamentali della Repubblica. Una sorta di padrone tiene il posto del primo ministro, piega il Parlamento al proprio volere e si libera della giustizia nello stesso momento in cui si propone di imbavagliare la stampa impedendole di riportare notizie sulle inchieste pur dopo la cessazione del segreto sulle intercettazioni. Per educazione, consuetudine civile, diritto e dovere personale e, nel mio caso, per lealtà al giuramento di fedeltà alla Costituzione, non possiamo obbedire a leggi fatte per elevare al rango di padrone dei concittadini un solo cittadino e la sua corte di servitori. Dunque sta avvicinandosi il tempo in cui dovremo chiederci se obbedire o no alla legge, nel mio stesso tribunale come in tutti gli altri del Paese. Solo pronunciando queste parole, ne tremo, e capisco a quale punto difficile e ormai drammatico siamo arrivati. Non so se darò istruzioni di sospendere i processi piegando la testa all’abuso, non so se potrò obbedire.
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*Adriano Sansa è Presidente del Tribunale per i minorenni di Genova.

19 giugno 2008

Sguardi di futuro - 1942

"Se non sapremo offrire al mondo impoverito dal dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo _ e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione _ allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato… Allora forse, sulla base di una ricerca comune e onesta di chiarezza su questi avvenimenti oscuri, la vita tratta fuori dai suoi cardini potrà di nuovo spostarsi in avanti, di un piccolo passo timido".

Etty Hillesum, dicembre 1942

Stampa e Migranti

Il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana hanno stilato un Codice deontologico per la trattazione delle notizie che riguardano in mondo migrante, nel pieno rispetto dei diritti della Persona.


CARTA DI ROMA

PROTOCOLLO DEONTOLOGICO CONCERNENTE RICHIEDENTI ASILO, RIFUGIATI, VITTIME DELLA TRATTA E MIGRANTI

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, condividendo le preoccupazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) circa l’informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, richiamandosi ai dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista - con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche - ed ai princìpi contenuti nelle norme nazionali ed internazionali sul tema; riconfermando la particolare tutela nei confronti dei minori così come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dai dettati deontologici della Carta di Treviso e del Vademecum aggiuntivo, invitano, in base al criterio deontologico fondamentale ‘del rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati’ contenuto nell’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine, i giornalisti italiani a:

osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti nel territorio della Repubblica Italiana ed altrove e in particolare a:

a. Adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri;

b. Evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. CNOG e FNSI richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti;

c. Tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze in merito all’identità ed all’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni contro la stessa e i familiari, tanto da parte di autorità del paese di origine, che di entità non statali o di organizzazioni criminali. Inoltre, va tenuto presente che chi proviene da contesti socioculturali diversi, nei quali il ruolo dei mezzi di informazione è limitato e circoscritto, può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze dell’esposizione attraverso i media;

d. Interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni.

IMPEGNI DEI TRE SOGGETTI PROMOTORI

i. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, in collaborazione con i Consigli regionali dell’Ordine, le Associazioni regionali di Stampa e tutti gli altri organismi promotori della Carta, si propongono di inserire le problematiche relative a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti tra gli argomenti trattati nelle attività di formazione dei giornalisti, dalle scuole di giornalismo ai seminari per i praticanti. Il CNOG e la FNSI si impegnano altresì a promuovere periodicamente seminari di studio sulla rappresentazione di richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta e migranti nell’informazione, sia stampata che radiofonica e televisiva.

ii. Il CNOG e la FNSI, d’intesa con l’UNHCR, promuovono l’istituzione di un Osservatorio autonomo ed indipendente che, insieme con istituti universitari e di ricerca e con altri possibili soggetti titolari di responsabilità pubbliche e private in materia, monitorizzi periodicamente l’evoluzione del modo di fare informazione su richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta, migranti e minoranze con lo scopo di:

a) fornire analisi qualitative e quantitative dell’immagine di richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti nei mezzi d’informazione italiani ad enti di ricerca ed istituti universitari italiani ed europei nonché alle agenzie dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa che si occupano di discriminazione, xenofobia ed intolleranza;

b) offrire materiale di riflessione e di confronto ai Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti, ai responsabili ed agli operatori della comunicazione e dell’informazione ed agli esperti del settore sullo stato delle cose e sulle tendenze in atto.

iii. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana si adopereranno per l’istituzione di premi speciali dedicati all’informazione sui richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime di tratta ed i migranti, sulla scorta della positiva esperienza rappresentata da analoghe iniziative a livello europeo ed internazionale.

Il documento è stato elaborato recependo i suggerimenti dei membri del Comitato scientifico, composto da rappresentanti di: Ministero dell’Interno, Ministero della Solidarietà sociale, UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) / Presidenza del Consiglio – Dipartimento per le Pari Opportunità, Università La Sapienza e Roma III, giornalisti italiani e stranieri.

ALLEGATO: GLOSSARIO

- Un richiedente asilo è colui che è fuori dal proprio paese e presenta, in un altro stato, domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, o per ottenere altre forme di protezione internazionale. Fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti, egli è un richiedente asilo ed ha diritto di soggiorno regolare nel paese di destinazione. Il richiedente asilo non è quindi assimilabile al migrante irregolare, anche se può giungere nel paese d’asilo senza documenti d’identità o in maniera irregolare, attraverso i cosiddetti ‘flussi migratori misti’, composti, cioè, sia da migranti irregolari che da potenziali rifugiati.

- Un rifugiato è colui al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, alla quale l’Italia ha aderito insieme ad altri 143 Paesi. Nell’articolo 1 della Convenzione il rifugiato viene definito come una persona che: ‘temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese’. Lo status di rifugiato viene riconosciuto a chi può dimostrare una persecuzione individuale.

- Un beneficiario di protezione umanitaria è colui che - pur non rientrando nella definizione di ‘rifugiato’ ai sensi della Convenzione del 1951 poiché non sussiste una persecuzione individuale - necessita comunque di una forma di protezione in quanto, in caso di rimpatrio nel paese di origine, sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenze generalizzate e/o massicce violazioni dei diritti umani. In base alle direttive europee questo tipo di protezione viene definita ‘sussidiaria’. La maggior parte delle persone che sono riconosciute bisognose di protezione in Italia (oltre l’80% nel 2007) riceve un permesso di soggiorno per motivi umanitari anziché lo status di rifugiato.

- Una vittima della tratta è una persona che, a differenza dei migranti irregolari che si affidano di propria volontà ai trafficanti, non ha mai acconsentito ad essere condotta in un altro paese o, se lo ha fatto, l’aver dato il proprio consenso è stato reso nullo dalle azioni coercitive e/o ingannevoli dei trafficanti o dai maltrattamenti praticati o minacciati ai danni della vittima. Scopo della tratta è ottenere il controllo su di un’altra persona ai fini dello sfruttamento. Per ‘sfruttamento’ s’intendono lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo degli organi.

- Un migrante/immigrato è colui che sceglie di lasciare volontariamente il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e migliori condizioni economiche altrove. Contrariamente al rifugiato può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza.

- Un migrante irregolare, comunemente definito come ‘clandestino’, è colui che a) ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; b) è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto ‘overstayer’); o c) non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento.





17 giugno 2008

Mario Rigoni Stern

"Spero di vivere tanto fino a vedere il mondo rinsavire un po', con la fine degli sprechi e delle cose inutili, del chiasso, delle luci artificiali che non ci lasciano vedere le stelle."
Mario Rigoni Stern
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Mario Rigoni Stern è morto ad Asiago, lunedì 16 giugno 2008.

Genova

Maurizio Maggiani
La bellezza di Genova, un bene di tutti
"Il Secolo XIX", 4 maggio 2006

Sa, signor Bellantuoni, sarebbe stato assai più civile e conforme a onesta parola di verità, se lei avesse fatto nome e cognome dell’uomo, o degli uomini, pubblici - e dunque pubblicamente responsabili - che da lei interpellato/i sul bene pubblico avrebbero risposto con la delirante affermazione da lei riportata. Io, sinceramente,
non oso credere che ci sia un amministratore della città di Genova che possa aver detto quelle cose. Anzi, sono portato a credere che lei si sia risparmiato di chiedere, avendo già la sua risposta confezionata dalla sua personale attrezzatura ideologica. Se è così, non va mica tanto bene, caro Bellantuoni.
La diuturna fatica dei probi cittadini per estorcere parole di verità ai politici è la più bella prova di viva democrazia; se ci si mettono i cittadini a inventare discorsi da mettere loro in bocca, allora siamo definitivamente fregati.
Nel contesto da lei enunciato, poi, le dirò che non sono affatto d’accordo. La bellezza è un bene di tutti e da tutti agognato. Dai borghesi e dai proletari, dai lumen borghesi e dai lumen proletari, dai principi e dai contadini. La bellezza della città è la bellezza
di tutti i cittadini, e tutti ne vanno fieri appena la intravedono.
Non credo che fosse causata dalla greve ignoranza e dall’intrinseca sporcizia degli operai dell’Ansaldo se, per quarant’anni, via San Lorenzo è stata lo schifo che è stata, e il giorno dopo la sua nuova vita di bellezza c’era tutta Genova - operaia e principesca, mercantile e bottegaia, impiegatizia e studentesca, nulla facente e nulla tenente - con il naso all’insù a godersela, come fosse stata la neonata figlia sua, figlia di tutti. Io vivo a Genova non perché ci sono nato, ma perché l’ho scelta. E l’ho scelta per la sua bellezza che non mi pare sia deturpata, così come a lei sembra. Forse mi accontento di poco, forse, essendo nato da volgari contadini, non vedo la sporcizia. Non ne vedo abbastanza, almeno, da sentirmene sommerso. Genova non è Copenaghen, lo so e lo vedo, ma mi pare che si erga ancora viva dalle sue sporcizie. E non dispero che chi la amministra, e chi la amministrerà, sappia lavorare per qualche milione di piccole cose in nome della bellezza diritto di tutti.

16 giugno 2008

Razzismo

Alessandro Dal Lago
Il razzismo «de noantri»
"Il Manifesto", 13 giugno 2008


Dall'entrata in carica del governo Berlusconi, la persecuzione degli stranieri, dei migranti, dei rom e dei cittadini italiani sinti è divenuta capillare e ossessiva. Si direbbe inoltre che il razzismo di strada sia in qualche modo coordinato o in sintonia con l'attivismo istituzionale: controlli della polizia sugli autobus, sgomberi dei nomadi, rastrellamenti di prostitute e transessuali, schedatura dei sinti, decreti che attuano principi discriminatori e incostituzionali come l'aggravante dei reati per clandestinità.La risposta politica a questa tenaglia xenofoba è inesistente. La sinistra radicale ex parlamentare sembra ancora frastornata dalla batosta elettorale, mentre l'opposizione di sua maestà, a parte dichiarazioni rituali, collabora con il governo. Fa impressione vedere un Veltroni negoziare qualsiasi cosa con Berlusconi, magari i suoi spazi tv mentre la polizia rastrella i rom. La magistratura, a cui pure si devono le poche critiche argomentate al pacchetto sicurezza, sembra attestata su una difesa dei propri spazi e prerogative. Ma ciò che appare inaudito, in una cosiddetta democrazia liberale, è l'atteggiamento della stampa (sulla tv meglio sorvolare). A parte la campagna xenofoba di Libero o del Giornale, i cosiddetti giornali indipendenti insistono sull'«insicurezza dei cittadini», mentre a essere minacciati e umiliati, giorno per giorno, sono esseri umani, cittadini italiani e no, discriminati in base all'origine. I quotidiani riportano gli episodi di razzismo istituzionale, quando si degnano di riportarli, con un tono indifferente o sbarazzino. Non si può definire quello che sta avvenendo in Italia se non come fascistoide. In primo luogo, per l'impunità di cui sembrano godere gli aggressori (Napoli) o anche per la vera e propria simpatia (il vendicatore del Pigneto, che sarebbe uno di sinistra, de noantri, secondo la Repubblica). Ma anche per l'evidente copertura istituzionale, come nelle incredibili dichiarazioni di Bossi dopo i roghi di Napoli, al solito accolte dai media come simpatiche manifestazioni di goliardia. Quando definisco fascistoide la svolta italiana mi riferisco al fatto banale che è promossa dalle istituzioni in un quadro formalmente democratico, e che forse resterà tale. Ma in questo non vedo alcuna consolazione. A parte il fatto ben noto che la storia si ripresenta sempre in forma di farsa, che le istituzioni perseguitino nomadi e «diversi» (compresi cittadini italiani) con l'appoggio dell'opinione pubblica o magari della maggioranza degli elettori è un'aggravante e anche un motivo di angoscia. Tutto diviene possibile. Se e quando il governo deciderà di smettere di suonare la grancassa, la persecuzione continuerà in forme meno appariscenti ma comunque disumane: nomadi in fuga non si sa dove, con i loro bambini cacciati dalle scuole, gente costretta a stare almeno un anno e mezzo nei Cpt, donne perseguitate sui marciapiedi, annegamenti di migranti. Il dramma è che all'estero, al di là degli interventi di qualche parlamentare europeo e di organizzazioni come Amnesty, sembra che la gente non sappia o non ci creda. Ah, les italiens! L'anomalia italiana, il malato d'Europa, si dice alzando le spalle. Ma il problema non sono i nostri conti, cari burocrati europei. Se davvero si pensasse a questa svolta come a un'eccezione folcloristica si commetterebbe un errore di valutazione mortale. Che la persecuzione avvenga contro le minoranze e i marginali significa che le maggioranze, anche quelle non apertamente razziste e magari riformiste, possono continuare a bearsi ottusamente delle loro libertà e dei loro privilegi. Basta che non guardino e non vogliano sapere Come avrebbero dovuto insegnarci i casi olandese, austriaco e danese, l'Europa non è affatto protetta dalla xenofobia. Sugli stranieri e sui nomadi si possono scaricare l'insicurezza economica o esistenziale, la paura del futuro, la fine delle illusioni europee. Dovunque, un ceto politico cinico e avventurista può sfruttare, come avviene in Italia, l'insoddisfazione generale a fini di consenso. Non costa nulla. E qui si misura la miopia di chi, da noi, nella cosiddetta sinistra moderata, ha gettato benzina sul fuoco, corrodendo le basi antifasciste della prima repubblica, piagnucolando sui caduti di Salò, come se non fossero morti rastrellando i partigiani e collaborando con i nazisti, e quindi facilitando lo sterminio di ebrei, antifascisti, omosessuali e nomadi. Questo revisionismo straccione e mortuario per fortuna non è ancora passato in Europa, almeno ufficialmente. Nessuno si sognerebbe di resuscitare Pétain, Mosley, Quisling o altri emuli di un Giorgio Almirante, che oggi vogliono far passare per un padre della patria. Ma proprio perché gran parte dell'Europa è meno accecata che da noi (o resta legata a parole alle sue origini antifasciste), è necessario che la xenofobia italiana sia registrata, documentata e fatta conoscere all'esterno. Essere più o meno globalizzati, competere economicamente con il resto del mondo, e magari godere di una moneta forte, per far contenti quattro banchieri di Francoforte o gli esportatori americani, non è affatto incompatibile con forme più o meno larvate di fascismo. Anzi. Non sono solo i ceffi della Lega a governarci all'interno, ma anche l'erre moscia di Tremonti e il fanatismo burocratico del giovane Frattini a rappresentarci nel mondo. Attenti, europei con un minimo senso di decenza. Oggi, i pogrom cominciano nel pittoresco stivale mediterraneo, ma domani...

Fattoidi

Mimmo Candito
Quante bugie e disinformazione per militarizzare la quotidianità
Quando si dà una notizia ma si dice il "non vero"

“La Stampa”, 15 giugno 2008

Quanto sta accadendo sul piano delle decisioni governative merita alcune segnalazioni, in relazione ai problemi della comunicazione. La prima segnalazione fa riferimenti ai numeri che il ministro della Giustizia aveva fornito per accreditare la necessità di un provvedimento urgente sulle intercettazioni. Erano numeri FALSI. Si diceva che ci sono un milione di intercettazioni, che siamo TUTTI intercettati; le intercettazioni sono in realtà su circa 80mila utenze (per ogni indagato ci sono spesso più utenze, dunque circa 30 mila intercettati) e l'80 per cento di queste riguarda casi di sospetta mafia e criminalità organizzata. Il numero reso pubblico dal ministro era basato sulla presunzione di circa 30 connessioni per utenza e di circa 100.000 utenze, arrivando così a 3 milioni di intercettati. Bell'esempio di disinfornazione. La seconda segnalazione fa riferimento alla percezione della insicurezza nel nostro paese provocata dalla natura criminale degli immigrati. Si dice che questa percezione è basata sulla realtà e dunque si approntano misure drammatiche e si mobilita l'esercito; poi si scopre che delle 16910 rapine compiute lo scorso anno in Italia ben 12527 sono state compiute da italiani e che i furti in casa sono in Italia ben inferiori (143.000) alla Gran Bretagna (209.000) e alla Francia (177.000). E infine, si mobilitano 2500 soldati per fare la ronda notturna con poliziotti e carabinieri, quando poliziotti carabinieri e finanziari sono circa 300.000, e davvero non si capisce cosa voglia dire quello scarno numero di soldat prestati alle operazioni di polizia, se non attivare e radicare il convicincimento che siamo davvero in una condizione di insicurezza totale, più o meno come la Colombia (nelle frasi del sindaco Chiamparino). Insomma si gioca sulle notizie, dandole in modo falso o parziale per giustificare una militarizzazione della vita del nostro paese. Che mi pare un passo gravissimo, compiuto appunto con la strumentalizzazione dei massmedia e dei processi della comunicazione.

13 giugno 2008

L'inconsapevole connivenza

"Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l’illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta"

Primo Levi

Sguardi di futuro

"E' difficile vivere senza fede alcuna; ogni giorno una notizia d'un massacro. E negli incastri quotidiani, scorgiamo il cupo segno del destino. Anche le guglie sembrano tetti bassi, ma una nota un guizzo inaspettato tra i rampicanti, o un ignoto battitore che rilancia la palla e la partita ricomincia. E' la battaglia della sopravvivenza".

Eugenio Montale

Manette mentali



"Il telefonino si chiama così per convenzione ma non è propriamente un telefono. Cellulare, facendo pensare al furgone carcerario, è più preciso, perché qui si tratta di manette mentali. Chi è nella morsa di queste manette mentali è lucido, alla guida, quanto può esserlo un ubriaco".


Guido Ceronetti

12 giugno 2008

Pregiudizi e stereotipi


Gian Antonio Stella
Quando il nord è amaro
"Il Corriere della sera", 12 giugno 2008

Sarebbe ingiusto se i giornali di Bucarest scatenassero una campagna anti-italiana cavalcando la notizia di Verona, dove marito e moglie hanno ammazzato e bruciato un dipendente rumeno per i soldi dell'assicurazione. Tanto più se la collegassero col caso di Ion Cazacu, l'ingegnere rumeno che faceva il muratore a Gallarate e fu bruciato vivo dal datore di lavoro, che aveva venti operai, tutti in nero.
E a maggior ragione se sottolineassero la sproporzione tra lo spazio riservato a questi due delitti brutali e quello assai più vistoso dato alla tragedia di Vanessa Russo, la ragazza uccisa con una ombrellata in un occhio nella metro di Roma da una rumena che ha preso 16 anni di carcere. Quanti l'imprenditore che bruciò Cazacu. Non si può fare di ogni erba un fascio. Vale per i rumeni, vale per gli italiani. Lo spaventoso episodio veronese lascia però sgomenti. Anche perché si va ad aggiungere ad altre storie che in questi giorni hanno sfregiato l'immagine del Nord. O meglio: di quel Nord dipinto a volte in tinte pastello come una mitica terra serena, laboriosa, giusta. Esente (o quasi) dalle piaghe morali patite dal resto del Paese, soprattutto dal Mezzogiorno.
E dunque pronto, se solo potesse affrancarsi dal fardello, a spiccare lucente tra i lucenti. Non è così. Lo dice la selvaggia violenza sessuale commessa alle porte di Milano da un italiano su una bambina immigrata di 13 anni, violenza condannata dai cultori della «tolleranza doppio zero» con voce assai flebile. Lo dicono le inchieste sulle responsabilità di tanti imprenditori settentrionali nel criminale smaltimento di rifiuti tossici nelle discariche campane. Responsabilità respinte con sdegno, dopo il monito di Napolitano, dai guardiani dell'onore padano. Ma precise, accertate, sanzionate. E tali da spingere il direttore di Avvenire, Dino Boffo, a scrivere: «Sì, il mio Nord l'ha combinata grossa. Ha scaricato su altri quello che non vuole per sé e i propri figli. Ha accettato proposte infami di mediatori infami». Lo sfregio più doloroso a quell'immagine del Nord «guida morale del Paese», però, lo stanno facendo le indiscrezioni che emergono dalle indagini sulla «Santa Rita».
Certo, sono anni che certi ospedali sgarrupati del Sud offrono cronache da incubo: sale operatorie senza acqua corrente, topi, zecche, pazienti ammucchiati come nei lazzaretti medievali. Per non dire di scandali della sanità privata siciliana, in larga parte direttamente in mano ai politici, e su tutti quello di «Villa Santa Teresa» (povere sante...) dove la Regione pagava ad esempio la terapia per il tumore al seno 46.480 euro contro i 3.314 del tariffario piemontese. Mai, però, si era scoperta una clinica degli orrori come questa. Che col suo ossessivo obiettivo di fare soldi, soldi, soldi sulla pelle delle persone rischia di infangare irrimediabilmente quel sistema misto pubblico-privato lombardo fino a ieri sventolato come un modello da imitare. Per carità, alla larga dall' auto-flagellazione.
Ma se gli stessi meridionali più accorti trovano insopportabile un certo meridionalismo piagnone, sarebbe un peccato se il legittimo orgoglio di chi crede nelle virtù del nostro Nord cercasse di rimuovere i traumi di questi giorni come si scacciano le mosche fastidiose. Se è accaduto, vuol dire che poteva accadere. E val la pena di pensarci su.

10 giugno 2008

1987 - Assalti ai campi Rom - 2008

Enzo Forcella
Capitale in tilt
"La Repubblica", 18 novembre 1987
Gli zingari ci ricordano gli storici sono un popolo di grandi e antiche tradizioni. Sono portatori di una specifica cultura, con alle spalle una storia lunga e travagliata. La loro storia, in fondo, è la storia di un pregiudizio a sua volta generatore di emarginazione e di violenza: quello con cui la civiltà europea ha sempre cercato di esorcizzare la sua atavica paura del diverso. I cittadini delle aree urbane che si sentono assediati dagli zingari e quasi contaminati dalla loro presenza scrive sul Messaggero il professor Alfonso Di Nola ignorano queste tradizioni e questa storia. E' necessario rimuovere le secolari formazioni di stereotipi pregiudicanti che hanno trasformato lo zingaro nel nostro nemico. Bisogna farlo attraverso un' educazione scolastica dei giovani e una più ardua rieducazione degli adulti. D' accordo. La storia contemporanea ci ha reso estremamente sensibili ad ogni sentore, sia pure il più vago, di risorgente razzismo. Per questo la rivolta delle borgate romane contro il ventilato insediamento di poche migliaia di zingari sfrattati dalle altre zone della città, dove erano rimasti finora accampati, ha provocato tanta emozione e tante sdegnose repulse. E, infine, un' inchiesta della magistratura. Mi chiedo però sino a che punto, in questo caso, il ricorso alle categorie del razzismo, della xenofobia, della paura del diverso ci aiuta a capire ciò che sta avvenendo nella capitale. Saverio Vertone, sul Corriere della Sera, con l' immancabile richiamo alla pasoliniana perdita dell' antica identità popolare, parla addirittura di accattoni che diventano aguzzini di altri accattoni. Ho l' impressione che ancora una volta, come spesso avviene, gli intellettuali siano rimasti prigionieri dei loro schemi ideologici e letterari. La realtà è assai più grigia e modesta. Anche se non per questo meno complicata e sgradevole. Guardiamo i fatti. Gli zingari in questione, come si sa, a Roma non sono arrivati ieri. Ci stavano già da mesi, addirittura da anni, accampati a Ponte Marconi, a Tor Bella Monaca e anche lungo il greto del Tevere sino a Ponte Milvio. Le baraccopoli, che dovevano essere provvisorie, hanno finito così per divenire permanenti. E la convivenza con i locali, con l' andare del tempo, si è andata facendo sempre meno idilliaca. Furti, scippi, aggressioni, scontri violenti tra bande contrapposte. E' facile, abitando in un quartiere residenziale, esortare alla tolleranza e alla pacifica compenetrazione delle diverse culture. La gente alle prese con questa quotidiana convivenza ha finito però col non poterne più e, a forza di manifestazioni e petizioni popolari, ha costretto il Comune a cercare un' altra soluzione. Già, ma quale soluzione? Gli amministratori, in tutt' altre faccende affaccendati, non ci avevano mai pensato. C'è una legge regionale che a suo tempo aveva previsto l' organizzazione di particolari campi attrezzati per i nomadi e per i tanti altri clandestini stranieri che hanno continuato ad affluire nella capitale (ormai, secondo stime attendibili, dovremmo essere arrivati ai 200 mila). Ma questa legge, ovviamente, non è mai stata applicata. Ecco allora che gli amministratori, colti di sorpresa, cominciano a cercare affannosamente le località dove scaricare la massa degli zingari sfrattati. Ci sono due tenute agricole di proprietà comunale che potrebbero servire alla bisogna. Ma è sufficiente un sopralluogo per rendersi conto che non ci sono acqua luce fognature. Un accampamento in questi campi arati sarebbe soltanto un ghetto di fango. A questo punto comincia il balletto che accende le polveri della rivolta. La caccia alle possibili zone di insediamento e una serie di indicazioni che però devono rimanere rigorosamente segrete per non turbare i residenti con anticipazioni che potrebbero provocare altre manifestazioni di intolleranza. I residenti, tuttavia, sono in campana e cominciano a organizzare barricate e blocchi stradali. Gli zingari non ci sono, ma potrebbero arrivare e nelle borgate non ce li vogliono perché non hanno alcuna intenzione di ripetere al Tiburtino, a Setteville, al Prenestino le esperienze di Tor Bella Monaca e di Ponte Marconi. La rivolta, probabilmente, è stata alimentata se non proprio promossa da forze politiche (i missini) ed economiche (i palazzinari, che temono il deprezzamento di zone già prese d' occhio dalla speculazione edilizia) le quali hanno tutto l' interesse a pescare nel torbido. Ma è però significativo che i comunisti, dopo aver preso posizione in un primo tempo contro le proteste razziste, abbiano poi modificato la rotta e ora cerchino di cavalcare la tigre della rivolta. Il rifiuto di accogliere gli zingari implica, evidentemente, un pregiudizio sfavorevole nei loro riguardi. Sarebbe difficile contestare però che il pregiudizio non è in qualche misura giustificato. Per quanto di grandi e antiche tradizioni, si tratta pur sempre di gente che pone grossi problemi di convivenza nelle zone in cui vanno a insediarsi. Perché di questi problemi debbono farsi carico soltanto le borgate romane funzionando come una sorta di immensa pattumiera per tutto ciò che la capitale non vuole vedere? E' inconcepibile che una città di oltre tre milioni di abitanti possa rimanere per giorni e giorni semiparalizzata dalle barricate dei blocchi stradali senza che nessuno si sia mosso per ristabilire un minimo d' ordine. Ancora più assurdo e inconcepibile, però, è che una città di oltre tre milioni di abitanti non riesca a trovare una sistemazione a poche migliaia di nomadi. In qualsiasi altra capitale del mondo una vicenda come questa apparterrebbe a quel gruppo delle microconflittualità da affrontare e risolvere senza particolari traumi giorno per giorno. Ma Roma non è una capitale come le altre. Roma è una città dove tutti i problemi, anche i più modesti, diventano insolubili. Non riesce ancora ad assicurare un decente servizio di smaltimento dei rifiuti urbani, figuriamoci se poteva affrontare e risolvere facilmente la guerra contro gli zingari... Altro che razzismo e guerra tra accattoni: l' unico vero grande scandalo sul quale dovrebbe riflettere l' intera comunità nazionale è proprio questo.

09 giugno 2008

Genova

"La cosa che mi ha sempre colpito di più della mia città è il suo essere curva, un profilo che non è solo geografico ma anche caratteriale, un modo di sentire il mondo. La guardi e pensi a una città postmoderna dove c’è la prima metropolitana della storia, anche se i genovesi continuano a chiamarla ferrovia, dove tutto è fermo ma tutto è cambiato, una città che sembra esportata direttamente dalla fantasia, la vera, grande patria del ritorno. Perchè ci sono due tipi di liguri, uno che sta nello scagno a fare quattrini e quello che invece ritorna, che sa, dopo essere partito, che la cosa più importante di tutte è quella, un giorno, di tornare".
Ernesto Franco

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I Centri di permanenza temporanea

Nella sporca storia dei campi di concentramento italiani, l’ultimo capitolo si sta aggiungendo nei nostri anni. Oggi siamo persecutori e carcerieri di emigranti.
Durante la dittatura fascista si poteva ignorare l’esistenza di lager da noi gestiti in Jugoslavia, in Libia, in Eritrea. Oggi lo vogliamo ignorare. Teniamo rinchiusi nel recinto del tempo perduto uomini venuti fino a noi da terre di malora e viaggi di fortuna. Non hanno commesso alcun torto penale, perché entrare nel nostro paese da una spiaggia anziché da un posto di frontiera non è reato. Li rinchiudiamo lo stesso senza diritto di nominare un avvocato, ricevere una visita, scambiare corrispondenza. Il termine è due mesi, ma spesso la detenzione si prolunga, spesso si ripete.
Siamo carcerieri di innocenti alla luce del sole e progettiamo nuovi campi di concentramento. Degradiamo le nostre forze di polizia a secondini di naufraghi, maltrattatori di indifesi.
Centri di permanenza temporanea: così chiamiamo questi recinti. Seguiamo così la losca tradizione di nascondere l’infamia sotto parole innocue. I nazisti chiamavano “wohnungbezirk”, distretto abitativo, i ghetti in cui ammassavano gli ebrei per lo sterminio. Chiamiamo missione di pace la spedizione, verso guerre lontane, dei più specializzati reparti militari. In Iraq siamo complici di occupanti che aizzano Furore. Missioni di pace, centri di permanenza temporanea: ci fosse almeno una dittatura a tapparci occhi, orecchie, naso, bocca, con la censura. Macchè, siamo nell’appetitosa democrazia dell’occidente dove tutto e documentabile e nessuna scusa protegge la nostra inerzia. Squillano dagli organi d’informazione i titoli gaglioffi della tolleranza zero per il fattaccio o il fatterello di cronaca. Alzano tolleranza mille sui campi di concentramento, sulla somministrazione di dosi enormi di sedativi ai prigionieri, sulla spesa di oltre settanta euro a testa per ogni rinchiuso, denaro che dovrebbe far risplendere i posti.
Il nostro paese all’estero fa un po’ sorridere per la sua bizzarria di eleggere a capo di governo il suo maggior possidente. A questo aggiunge il guasto di essere carceriere di innocenti senza processo. Soffiamo bene sullo specchio appannato e guardiamoci in faccia: siamo sfregiati dal marchio di persecutori di naufraghi, di traversatori di montagne a piedi. I calcinculo promessi agli immigrati da qualche ciarlatano li stiamo dando a noi stessi spingendo il nostro popolo al rango più basso della sua civiltà. E’ atto di pirateria imprigionare naviganti, è atto criminali espellerli verso un paese, la Libia, che non riconosce il diritto di asilo.
E poi tutto questo zelo carcerario a cosa ci serve? Sta sbarrando i flussi migratori? No. Perché non esistono misure per fermare gli spostamenti umani quando sono maree. L’umanità si è sempre travasata, da un paese all’altro, da un continente all’altro. Quella odierna è un’epopea grandiosa di donne e uomini, vecchi e neonati, che affrontano pericoli e deserti per raggiungere una sponda di salvezza. E’ l’epica antica della nostra specie invincibile che scavalca frontiere e arriva a dare fresca forza di lavoro a volontà alle economie di un nord lento e calante.
A chi si chiede onestamente come potremmo accogliere tanta umanità, la risposta è che l’accogliamo già. I milioni di nuovi regolari non sono passati dall’ingresso principale, non li abbiamo previsti eppure sono stati assorbiti dall’economia clandestina, quella sì clandestina, l’economia sommersa del nostro paese. C’era bisogno di quelle forze e ne accoglieremo finché il mercato lo vorrà. A che serve l’apparato dei campi di concentramento? Ha un solo effetto, quello di renderci peggiori come persone e come popolo in blocco, oppressori di umili.
I migratori hanno dalla loro il numero, mastino della storia che non cede la presa. E la storia costringe.
(Erri De Luca, Pianoterra, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 87-89.)


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Clandestini

Giuseppe Anzani
Fratelli nostri quei morti nel mare di casa
"Avvenire", 8 giugno 2008
E adesso che cosa si prova di fronte alla nuova tragedia, al­l’ennesima carretta del mare affon­data nelle acque di Lampedusa, ai corpi di 13 morti certi e di non si sa quanti altri, all’incerto destino de­gli scampati? Adesso, dico, adesso che il tema della sicurezza ci va martellando le orecchie e s’impasta col tema dell’immigrazione come in corto circuito mentale, a dise­gnare la Grande Paura, l’immagine dell’Orda? Possibile che l’intelli­genza dei fatti e delle cause non sappia partorire altro rimedio che preparare in futuro ai superstiti – come progetta un disegno di legge del ' pacchetto sicurezza' del 23 maggio – l’arresto in flagranza, il processo per direttissima e il car­cere da 6 mesi a 4 anni? « È un monito, una deterrenza » , di­cono alcuni politici che vogliono il pugno duro. E c’è chi profetizza un editto del Parlamento europeo, da cui attende man forte alla linea di tolleranza zero. Così si gestisce la sorte dei miserabili, così si caccia via la disperazione umana dei più sventurati. È brutale, ma risolve il problema, dicono. E invece no, invece è difficile dire persino se le fantasie della forza bruta siano più crudeli o più insi­pienti. I barconi, le carrette, i gom­moni carichi di corpi ammassati, torneranno l’indomani a inseguire la rotta che incrocia il rischio di naufragio e di morte, finché per lo­ro è la rotta ' della speranza'. Eva­cuati, internati, espulsi, rimpatria­ti, ancora le zattere rovesceranno nell’acqua il carico umano di vita rischiata, finché il vento che gonfia la vela si chiama disperazione. Le politiche di puro ' contrasto' sono improvvidenti se non fronteggiano le ragioni della spinta migratoria, e se non rimediano in radice le cau­se della scelta 'clandestina'. Il gua­sto infatti non è l’immigrazione, ma la clandestinità. Il fenomeno mi­gratorio è antico quanto il mondo; la piaga è cosa diversa, la piaga è la clandestinità. Piaga per noi, trage­dia per loro. Come non capire allora che il fuo­co del problema è lì, che c’è una clandestinità coatta dalle strettoie dei flussi legali al limite dell’impra­ticabilità ( migliaia di badanti do­vrebbero tornare a casa per chie­dere il visto e poi, forse, tornare qui) e dall’altro c’è la condizione uma­na, o si dovrebbe dire disumana, della terra d’origine, dove lo stento economico fissato dal protezioni­smo dei Paesi ricchi, le pandemie devastanti e senza farmaci, le guer­re nutrite dalle armi fornite da noi, le colpe dei satrapi locali, spingono i migranti a vender tutto, a pagare prezzi capestro ai passatori, a la­sciare i familiari in ostaggio ai mer­canti strozzini, a viver randagi pur di vivere. Sono anche gli infiniti vol­ti della miseria, appena sfiorati dal­l’ennesima Conferenza Fao, a dar giusto nome a ciò che chiamiamo 'invasione' ed è invece fuga di 'mi­granti forzati'. Non è solo problema d’Italia, è pro­blema d’Europa. Un mese fa il quo­tidiano spagnolo ' El Pais' parlava della teorica « irregolarità » in Euro­pa di 8 milioni di persone, e diceva che 8 milioni di rimpatri forzati sa­rebbero « una deportazione da Me­dio Evo » . È sì necessaria una cultura delle re­gole, ma abbracciata alla cultura della vita. Dobbiamo capire che la migrazione si governa con intese multilaterali, con i Paesi di origine, con i Paesi di approdo; e che non ha senso cacciarli da casa nostra se non li aiutiamo in casa loro. Sfogo al do­lore dei nuovi morti è di aiutare i vi­vi. Non chiameremo ' accoglienza' la sepoltura.

Le gazzette

"Le gazzette. È cosa detta più volte, che quanto decrescono negli stati le virtù solide, tanto crescono le apparenti. Pare che le lettere sieno soggette allo stesso fato, vedendo come, al tempo nostro più che va mancando, non posso dire l'uso, ma la memoria delle virtù dello stile, più cresce il nitore delle stampe. Nessun libro classico fu stampato in altri tempi con quella eleganza che oggi si stampano le gazzette, e l'altre ciance politiche, fatte per durare un giorno: ma dell'arte dello scrivere non si conosce più né s'intende appena il nome. È credo che ogni uomo da bene, all'aprire o leggere un libro moderno, senta pietà di quelle carte e di quelle forme di caratteri così terse, adoperate a rappresentar parole sì orride, e pensieri la più parte sì scioperati."
Giacomo Leopardi

I media - 2007

David Grossman
Raccontare una storia per salvare gli uomini
"La Repubblica" 5 settembre 2007
La realtà in cui viviamo oggi non è forse crudele come quella creata dai nazisti ma certi suoi meccanismi hanno leggi di fondo molto simili che offuscano l´individualità dell´uomo e lo portano a rifiutare obblighi e responsabilità verso il destino degli altri. E una realtà sempre più dominata dall´aggressività, dall´estraneità, dall´incitamento all´odio e alla paura; dove il fanatismo e il fondamentalismo sembrano farsi più forti ogni giorno mentre altre forze perdono la speranza di un cambiamento. I valori e gli orizzonti del nostro mondo, l´atmosfera che vi si respira e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da ciò che noi chiamiamo mass media, un´espressione coniata negli anni Trenta del secolo scorso quando i sociologi cominciarono a parlare di «società di massa». Ma siamo davvero consapevoli del significato di questa espressione? Di quale processo i mass media abbiano subìto? Ci rendiamo conto che gran parte di essi non solo convogliano un tipo di comunicazione destinata alle masse ma trasformano i loro utenti in massa? E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio povero e volgare, trattando problemi politici e morali complessi con semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un´atmosfera di prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce, rendendo kitsch tutto ciò che toccano: le guerre, la morte, l´amore, l´intimità. A un primo sguardo sembra che questo tipo di comunicazione si incentri sul singolo, sull´individuo, non sulle masse. Ma è una suggestione pericolosa. I mezzi di comunicazioni di massa pongono il singolo in primo piano, lo consacrano persino, incanalandolo sempre più verso se stesso. Anzi, in fin dei conti, esclusivamente verso se stesso: verso i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue aspirazioni, le sue passioni. In mille modi, palesi o nascosti, liberano l´individuo da ciò di cui lui è in ogni caso ansioso di liberarsi: la responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle sue azioni. E nel momento in cui lo fanno ottenebrano la sua coscienza politica, sociale e morale, lo trasformano in un materiale docile alle manipolazioni da parte di chi controlla i mezzi di comunicazione e di altri. In altre parole lo trasformano in massa. (...) È questo il messaggio dei mass media: un ricambio rapido, tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni a essere significative e importanti ma il ritmo con cui si susseguono, la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo zapping.

I media - 1993

"La convenzione dell’intervista a tutti, su tutto, in tutte le occasioni sta diventando la formula più imperversante di un sistema informativo che ha assunto proporzioni deliranti; i giornali, la radio, la televisione, in qualsiasi ora del giorno e della notte ci inseguono, ci trafiggono con informazioni di ogni tipo che arrivano da tutte le parti; una valanga di nozioni e di notizie che non riusciamo più a contenere, ad assimilare, a trasformare in un “vissuto” o in consapevolezza personale. Esiste soltanto questo ininterrotto e demenziale flusso di parole, immagini, rumori che sommerge tutto; un gigantesco feticcio che occultando ormai completamente la realtà di cui vorrebbe riferire ci toglie ogni responsabilità di intervento, alienandoci, cancellando in partenza qualsiasi tentativo di modificarla. Un inesausto interminabile spettacolo, atroce, ottenebrante, nel quale annega ogni cosa; insomma il nulla, il vuoto, la totale cancellazione. Per una forma non più di igiene, ma di salvezza mentale, sarebbe forse il caso che ogni tanto e per periodi sempre lunghi, la televisione restasse spenta, la radio tacesse, i giornali smettessero di uscire, in modo che ognuno tornasse ad avere il tempo per occuparsi veramente di se stesso, della propria individualità, magari soltanto per rimettere insieme i pezzi, a brandelli".
(Federico Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, poi 1993, p.1 71)

L'indifferenza


"Sono molte le atrocità nel mondo e moltissimi pericoli. Ma di una cosa sono certo: il male peggiore è l’indifferenza. Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza; il contrario della vita non è la morte, ma l’indifferenza; il contrario dell’intelligenza non è la stupidità, ma l’indifferenza. E’ contro di essa che bisogna combattere con tutte le proprie forze. E per farlo un’arma esiste: l’educazione. Bisogna praticarla, diffonderla,condividerla, esercitarla sempre e dovunque. Non arrendersi mai"
Elie Wiesel


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08 giugno 2008

La stupidità

Vittorino Andreoli
Stupidità, la peste di oggi

"La Stampa", 21 aprile 2005

Nessuno si chiede se un’ape sia intelligente oppure no, se una formica o un coleottero siano stupidi. E si tratta di specie che hanno una lunga storia sulla terra: le tartarughe e gli elefanti hanno visto l’arrivo dell’uomo quando già calpestavano questo mondo da molte migliaia di anni. Verrebbe da sorridere di fronte a uno che accusasse di stupidità una farfalla o la proclamasse sapiente. Si è pensato a macchine straordinarie ma concluse, incapaci di creatività, insomma prive di intelligenza. Nell’uomo sapiens-sapiens l’intelligenza giunge a sovvertire gli imperativi della specie, stampati nel codice genetico e, quindi, uno può suicidarsi o uccidere un esemplare della propria famiglia. Secondo questo criterio, da una parte si potrebbero mettere le specie viventi non intelligenti ma perfette e dall’altra parte l’uomo, intelligente ma sommamente imperfetto. La fuga del gene è una fuga dalla perfezione e ce se ne allontana sia con un gesto innovativo, sia con uno distruttivo. Al di fuori della perfezione c’è l’errore e la specie umana ne è certamente la massima espressione. Aver applicato lo schema intelligenza-stupidità ha permesso una lettura dell’evoluzione completamente opposta a quella che avremmo se si applicasse lo schema perfezione-difetto. In un caso risultiamo all’apice dell’evoluzione, nell’altro a un livello certamente basso. Era prevedibile che un criterio inventato dall’uomo fosse a lui benevolo e anzi che lo usasse persino per giudicare gli altri esseri viventi. Non sono affatto sicuro che l’intelligenza sia una considerevole acquisizione e non sono sicuro che un bilancio dei suoi effetti, tra negativi e positivi, sia per il vantaggio. Metterei su un piatto i versi poetici, ma sull’altro le guerre. Da un lato le raffinate espressioni amorose, dall’altro gli odî fratricidi. Nessun’altra specie vivente sa odiare come l’uomo e nessuna «belva» si è mai comportata come lui. Su un piatto della bilancia dovrei mettere il trapianto di cuore su un bambino, sull’altro tutti gli altri che vengono lasciati morire di fame. La specie umana ha introdotto tecnologie, si è servita di protesi che ha dapprima trovato in natura e poi inventato artificiosamente. E all’uso degli strumenti si accompagna la comunicazione che diventa simbolica fino ai linguaggi parlati e scritti. Un risultato straordinario, una moltiplicazione, una sommazione di capacità semmai già presenti in nuce in altre specie.
Insomma, andrebbe rivisitato con molta più prudenza il processo evolutivo nel suo insieme che ha autoassegnato all’uomo capacità e doti così speciali da farne il più alto rappresentante della vita sulla terra e da rendere accettabili tutte le sciocchezze che compie e che nessun essere «inferiore» mette in atto. Con un po’ più di prudenza l’uomo può apparire, come appare a me, un essere imperfetto e, in termini di intelligenza, uno stupido.
La stupidità massima si coniuga, l’abbiamo detto, con il potere, quando cioè l’uomo tende ad aumentare la propria avidità. Però la stupidità si è infiltrata ovunque, fino a obbligare la persona onesta e creativa a chiudersi nella cella del privato, in una stanza che ha il sapore di un carcere di massima sicurezza.Ci sono mafia e ’ndrangheta, ma anche i clan universitari, le famiglie intellettuali e industriali. Una società idiota. I più grandi emarginati del tempo presente sono le persone veramente intelligenti. Sullo scenario della vita si percepiscono solo le loro controfigure, sembrano intelligenti ma sono idioti. I travestiti della mente, dentro la testa hanno solo sterco. Come in un transessuale: si cerca il mons veneris e si trova un pene mostruoso.Gli intelligenti vivono male in questa società, ma sono pochi e insignificanti. Per il resto è una «città ideale», persino democratica, dove tutti sono egualmente idioti, ma nessuno se ne accorge e quindi si può cambiare il dizionario e dare la stessa definizione dell’intelligente all’idiota. La misura di tutte le cose è il denaro, questo amuleto delle civiltà evolute. Può tutto e ha dalla propria parte ogni divinità.La stupidità è endemica, come la più grave delle malattie infettive, come la peste. E’ la peste del tempo presente. Se uno è stupido si aggregherà con gli stupidi, si attornierà di idioti. Si attiva il meccanismo della selezione naturale: gli intelligenti sono segregati e uccisi psicologicamente, gli stupidi si moltiplicheranno come i topi, come i conigli. Genereranno bambini che la natura potrà anche aver dotato di capacità creative, ma diventeranno stupidi perché educati alla stupidità. Respireranno un’aria mefitica, che uccide la mente e rinvigorisce i muscoli e il tessuto cavernoso del pene che si erigerà sempre di più. L’intelligenza è una possibilità della biologia, non un imperativo, non una necessità. L’educazione sopprime ogni potenzialità e così crescono piccoli idioti che poi diventano grandi e ancor più idioti. I bambini più intelligenti muoiono perché appaiono, nel migliore dei casi, folli. Una società di idioti genera idioti che genereranno idioti.Persino gli strumenti tecnologici ne vengono colpiti: basti guardare la televisione, il cinematografo, i videogiochi. Oggetti stupidi a immagine e somiglianza di un uomo cretino che deve stare in video a mostrare il proprio mostruoso pene, l’unico organo vivente. Sul teleschermo si muovono tanti peni incravattati, rivestiti di griffe prestigise. Una società di idioti non può che avere una televisione idiota che li rassicuri, che permetta di identificarsi continuamente, di percepirsi come grandi. E così si programma il concorso per miss idiota, le sfide della stupidità, i quiz dell’ignoranza. E il televisore diventa il luogo della pornografia, la pornografia della stupidità, del gusto dell’orrido intellettivo, dell’osceno razionale, del voyeurismo ebete. Gli intellettuali balbettano dimenticandosi di essere degli attori di questo teatro dell’ipocrisia e della crudeltà. (...) Nella società del sembrare, una patacca brilla come un cristallo di Boemia, come un diamante del Transvaal. Una puttana si confonde con una vergine, un travestito con una miss. Solo l’idiota rimane idiota, con desideri idioti, con l’invidia da idiota, con l’arroganza dell’idiota, con la superbia degli stupidi.L’ho imparato da molto tempo: per essere felici bisogna essere idioti oppure maniacali, delirare fino a percepirsi dio. Se il fine dell’umanità è la felicità, allora questo tempo è in perfetta sintonia con l’evoluzione. Aumentando il sapere, aumenta il dolore: l’idiota non sa nulla ed è felice.

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Percorsi di lettura
Vittorino Andreoli, Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi, Milano, Rizzoli, 2005

Graffiti



“[…] La parola sui muri è una parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza via di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto. E questa è aggressione, è arbitrio, è violenza […] dove la scritta è una nuda affermazione o negazione che richiede dal leggente soltanto un atto di consenso o di rifiuto, l’impatto della coercizione a leggere è più forte delle potenzialità messe in moto dall’operazione con cui ogni volta riusciamo a ristabilire la nostra libertà interiore di fronte all’aggressione verbale. Tutto si perde nel frastuono del bombardamento neuro-ideologico a cui sono sottoposti i nostri cervelli da mattina a sera […]
E’ la presenza della scrittura, le potenzialità del suo uso vario e continuo che la città deve trasmettere, non la prevaricazione delle sue manifestazioni effettuali: […] la città ideale è quella su cui aleggia un pulviscolo di scrittura che non si sedimenta né calcifica. Ma i poveri muri delle città italiane non sono diventati anch’essi ormai che una stratificazione di arabeschi e ideogrammi e geroglifici sovrapposti, tali da non trasmettere altro messaggio che l’insoddisfazione d’ogni parola e il rimpianto per le energie che si sprecano? Anche su di essi forse la scrittura ritrova il posto che è insostituibilmente suo, quando rinuncia a farsi strumento d’arroganza e di sopraffazione: un brusio cui occorre tendere l’orecchio con attenzione e pazienza fino a poter distinguere il suono raro e sommerso d’una parola che almeno per il momento è vera.”
Italo Calvino (Collezione di sabbia, Milano, Mondadori, 1994

Sfumature

Pietro Citati
Fatemi il favore non datemi del tu
"La Repubblica", 30 agosto 2007

Tranne pochi moribondi, tutti gli italiani, oggi, si danno del tu. Dopo il 1945, il tu e il compagno dei comunisti enunciavano l´utopia definitiva, l´Eden, nel quale gli uomini sarebbero stati fratelli, e ogni differenza di ricchezza, popolo e professione sarebbe stata abolita. Miliardi di tu e di compagno vennero scambiati, molto spesso in perfetta buona fede. Ma nessuno ha conosciuto l´Eden; e mai, nell´Unione Sovietica e nei Paesi satelliti, il potere, l´arroganza, il disprezzo, la disuguaglianza avevano mostrato un volto così mostruoso. Il tu dei nostri giorni ha un carattere completamente diverso. Non so quando nacque. Forse cominciarono i medici a darsi del tu fra loro: li seguirono i giornalisti, gli scrittori, i professori universitari e, via via, le altre categorie sociali. Poi gli italiani continuarono ad affratellarsi: l´industriale diede del tu al suo operaio, il medico all´ingegnere, il professore universitario al giornalista, che prima disprezzava. Alla fine, questo fenomeno ha assunto, specialmente tra gli uomini politici, un aspetto grottesco: la perdita del cognome. Quando appaiono in televisione o nei titoli dei giornali, Berlusconi è Silvio, D´Alema è Massimo, Fassino Piero – e poi c´è Pier Ferdinando, Gianfranco, Walter, Giulio, Umberto, Clemente. Non possiamo indignarci se gli studenti delle scuole medie, adeguandosi alle nuove abitudini, si rivolgono nello stesso modo ai loro professori. Questo tu pretende di esprimere l´epoca dell´amicizia universale. Ti do del tu, e dunque sono tuo amico, ho fiducia in te, ti faccio le mie confidenze (rapide come in treno), rido con te, ti racconto barzellette, ti amo, ti invito a cena, ti bacio sulle guance e ti do una pacca affettuosa sulla schiena. In realtà, questo tu indifferenziato rivela la fine di ogni rapporto personale. Non ha nulla in comune con lo you inglese, pieno di sottigliezze. Tra le due persone che si danno del tu non c´è alcun affetto né amicizia: non c´è alcuna affinità: nessuno dei due ha interesse per l´altro, osserva il suo comportamento, studia la sua psicologia.DOPO un´ora, i due si voltano le spalle e non si vedranno mai più, come non si fossero mai conosciuti. Il Lei, al quale ricorrono ancora i moribondi, non suppone vanità, orgoglio, superbia, senso di superiorità o disprezzo. Il Lei implica quella distanza tra esseri umani, che spesso è giusto conservare: non possiamo identificarci con tutti, essere uno con la persona incontrata al caffé o a teatro, e con la quale scambiamo discorsi insignificanti. Suppone discrezione e rispetto: l´occhio guarda con attenzione l´altro e vede svolgersi, davanti a lui, i suoi sentimenti e cerca di capirli e di interpretarli. E´ una specie di velo. Può nascondere l´affetto più profondo, la timidezza, l´incertezza, la perplessità, la devozione, la venerazione, l´ironia delicata. Qualche volta, il Lei si addolcisce, sfociando nel vero tu, quello dell´amicizia assoluta: a volte, persiste lungo due vite, come un legame flessibile che non può sciogliersi. L´uso generale del tu fa parte di un fenomeno più generale: quello della semplificazione avvenuta nella nostra epoca. Siamo convinti che, dopo l´avvento della società di massa e la cosiddetta globalizzazione, il mondo sia diventato uniforme; e allora ci sembra giusto che tutti scambino tra loro il pronome della vicinanza. Ma il mondo non è uniforme. Mentre i prodotti cinesi invadono l´Italia, gli emigrati marocchini e rumeni abitano le nostre città, le classi si suddividono in strati sociali sottilissimi, la realtà è diventata molto più contraddittoria, piena di misteriosi doppi fondi, talvolta incomprensibile. Un italiano del 1930 o del 1945 poteva descrivere con una certa precisione il proprio paese. Noi non conosciamo affatto l´Italia del 2007; e i giudizi che leggiamo nei giornali e nei libri peccano spesso per una grossolana approssimazione. Niente è quello che pare, o finge di essere. Tutto è sfumatura. Le parole non rivelano le cose. I nostri occhi sono divenuti ciechi: gli orecchi sordi. Se la realtà ci sfugge da tutte le parti, non possiamo rifugiarci nelle verità generali, che una moltitudine di esperti o di interpreti ci propone. Non c´è nulla di semplice o di stabile. La nostra intelligenza dovrà diventare sempre più attenta, sottile, inseguendo i colori diversi, le sfumature, le ombre, le apparenze, le incertezze, i misteri, i movimenti rapidissimi e contrastanti delle cose. Musil diceva: "Dobbiamo cercare di vivere come se fossimo nati per trasformarci dentro un mondo creato per trasformarsi, press´a poco come una goccia d´acqua dentro una nuvola".

Clandestini

Sei voci
Non fu il mare a raccoglierci
Noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.
Calati da altopiani incendiati da guerre e non dal sole,
traversammo i deserti del Tropico del Cancro.
Quando fu in vista il mare da un’altura
Era linea d’arrivo, abbraccio di onde ai piedi.
Era finita l’Africa suola di formiche,
le carovane imparano da loro a calpestare.
Sotto sferza di polvere in colonna
Solo il primo ha l’obbligo di sollevare gli occhi.
Gli altri seguono il tallone che precede,
il viaggio a piedi è una pista di schiene.
Erri de Luca
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Dicono siamo sud.
No, veniamo dal parallelo grande,
dall’equatore centro della terra.
La pelle è annerita dalla più dritta luce,
ci stacchiamo dalla metà del mondo,
non dal sud.
Erri de Luca
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Per capire:
Erri De Luca, Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Milano, Feltrinelli, 2005

07 giugno 2008

La metafora della Cattedrale di San Vito




La torre gotica della cattedrale di S. Vito, S. Venceslao e S. Adalberto è uno dei simboli di Praga. Ora è coperta da impalcature perché, per la prima volta nella sua storia, in extremis, viene restaurata. I ponteggi celano temporaneamente la sua bellezza, ma servono a preservarla per sempre. Forse possiamo trovare in questo un'analogia con i paesi post-comunisti. Se alcune delle nostre migliori caratteristiche non sono al momento chiaramente visibili è perché le nostre società sono circondate da impalcature, sono in fase di ristrutturazione, lottano di nuovo, questa volta in completa libertà, per riscoprire e ricostruire le nostre vere identità. Dovremmo forse applicare questa analogia anche in senso più esteso, nella speranza che dietro alcune delle caratteristiche negative del mondo di oggi si trovi il seme di uno sforzo teso a salvare, preservare e sviluppare creativamente i valori che la storia della natura e della razza umana ci offrono.Una caratteristica senza precedenti della nostra civiltà globale è il fondamentale ateismo, nonostante siano miliardi le persone che si dichiarano credenti, praticanti e non. In realtà i valori che sono alla base della nostra civiltà globale si riferiscono solo raramente, se mai lo fanno, all'eternità, all'infinito e assoluto. Ovunque diminuisce la preoccupazione circa ciò che verrà dopo di noi, e per l'interesse comune. L'umanità esaurisce le risorse naturali non rinnovabili e interferisce con il clima del pianeta. L'umanità si aliena da se stessa perdendo gradualmente comunanze e proporzioni umane. L'umanità tollera il culto del profitto materiale come valore assoluto cui tutto deve tendere, al cui cospetto persino la volontà democratica deve talvolta inginocchiarsi. Creare benessere non corrisponde infatti più a creare valori reali e significativi. Questo snaturare lo spirito implica che la nostra civiltà è fatta di paradossi. Da una parte è aperta a possibilità che fino a poco tempo fa erano pura fantasia, dall'altra dispone di una limitata capacità di evitare sviluppi che infondono pericolo in queste possibilità o sfociano in veri e propri abusi. La nostra civiltà, ad esempio, è spinta all'uniformità ma essere avvicinati sempre di più gli uni agli altri suscita in noi l'impulso a enfatizzare la nostra diversità, con il rischio di far crescere un crudele fanatismo etnico o religioso.Stanno emergendo nuove, sofisticate forme di attività criminale, crescono la criminalità organizzata e il terrorismo, fiorisce la corruzione. Il divario tra ricchi e poveri diventa sempre più profondo e mentre in alcune parti del mondo si muore di fame, in altre lo spreco è considerato quasi un obbligo sociale. Esistono naturalmente varie organizzazioni governative e non che tentano di trovare soluzione a questi problemi, ma temo che le misure intraprese non condurranno ad un rovesciamento della situazione a meno che non cambi qualcosa nel modo di pensare da cui nasce il comportamento umano contemporaneo. Sentiamo spesso, ad esempio, citare la necessità di ristrutturare le economie dei paesi poveri, compito cui le nazioni ricche hanno il dovere di collaborare. Ma è addirittura più importante che iniziamo a pensare ad un altro tipo di ristrutturazione, la ristrutturazione del sistema di valori che stanno alla base della civiltà di oggi. Coloro che godono di una migliore situazione materiale devono provvedervi con la massima urgenza. Il corso della civiltà globale attuale è stato determinato dalle nazioni più ricche e più avanzate, per questo motivo esse non possono esimersi dall'impegnarsi in una riflessione critica. Sappiamo che è possibile inventare strumenti ingegnosi per regolare e proteggere il clima del nostro pianeta, le risorse non rinnovabili e la diversità biologica. Possiamo trovare il modo di assicurare un uso responsabile delle risorse nei luoghi d'origine e il mantenimento delle identità culturali e di una dimensione umana dello sviluppo. Sono molte le persone e le istituzioni impegnate attivamente per questo obiettivo.Ma il compito decisivo, oggi trascurato, implica il rafforzamento di un sistema di standard morali universalmente condivisi che renderà impossibile, ad un livello davvero globale, che le regole continuino ad essere eluse. Solo degli standard morali universali possono ingenerare il rispetto naturale delle regole che creiamo. Gli atti che mettono in pericolo il futuro dell'umanità non dovrebbero essere passibili di punizione, ma considerati disonorevoli. Ciò accadrà solo nel momento in cui tutti troveremo, in noi stessi, il coraggio di costituire un sistema di valori che possa essere comunemente condiviso e comunemente rispettato. Accadrà solo se collegheremo questi valori a qualcosa che si pone oltre l'orizzonte dei nostri immediati interessi, personali o di gruppo. Come è possibile riuscirci senza un nuovo, potente progresso spirituale? Che cosa fare per incoraggiare questo progresso? Qualunque siano le nostre convinzioni, siamo tutti soggetti alla minaccia della nostra miopia. Nessuno di noi può sfuggire al destino che ci accomuna. Ci resta quindi solo una possibilità: cercare al nostro interno, come intorno a noi, un senso di responsabilità nei confronti del mondo, comprensione reciproca e solidarietà, umiltà di fronte al miracolo dell' Esistenza, capacità di porci dei limiti nell'interesse generale e di fare buone azioni, non importa se visibili e riconoscibili. Permettetemi di tornare alla Cattedrale di San Vito, S. Venceslao e S. Adalberto. Perché mai nei tempi passati si costruivano edifici così sontuosi, di scarsa utilità secondo gli standard attuali? Una possibile spiegazione è che ci sono stati periodi storici in cui il profitto materiale non rappresentava il valore assoluto, in cui gli uomini erano consapevoli dell'esistenza di misteri inspiegabili ai quali si poteva solo guardare con umile meraviglia per poi forse proiettare questa meraviglia in strutture dalle guglie svettanti in alto. In alto, perché si vedessero da lontano indicando a ciascuno ciò che vale la pena di guardare. In alto, oltre i confini dei secoli, in alto, verso ciò che non riusciamo a vedere, la cui silenziosa esistenza preclude, a noi tutti, qualunque diritto di considerare il mondo una fonte infinita di profitti a breve termine e richiede la solidarietà di tutti coloro che dimorano sotto la sua volta misteriosa. Per iniziare ad affrontare alcuni dei più profondi problemi del mondo dobbiamo anche noi volgere gli occhi in alto, chinando il capo con umiltà.
Vaclav Havel





*V. Havel, Investire nei valori umani per riscattare i paesi poveri , "La Repubblica", 28 dicembre 2000
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Parole chiare

«Grande è la vanità nella Chiesa. Continuamente si spoglia e si riveste di ornamenti inutili. Nella Curia romana ciascuno vuole essere di più. Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio»
Cardinal Carlo Maria Martini, "La Repubblica", 5 giugno 2008

06 giugno 2008

Clandestini

Marco Belpoliti
Come ti addomestico il clandestino. Un fenomeno globale dalle radici antiche
“La Stampa”, 6 giugno 2008.

Noi siamo gli stranieri, i clandestini, noi uomini e donne soltanto vivi e noi ti chiediamo asilo asilo», così cantano i Clopin, gli zoppicanti, entrando in scena in Notre Dame de Paris, il musical di Riccardo Cocciante, traducendo con la parola «clandestino» il termine francese Sans papier. Nella lingua italiana clandestino è «colui che viaggia di nascosto», ma anche «chi agisce in segreto contro precisi decreti», dal francese clandestin, termine diffuso nel XIV secolo. In un altro significato, la clandestinità è poi legata all'azione politica: le società segrete dei «carbonari» nel Risorgimento, i partigiani nella Resistenza. E persino i clandestini della lotta armata negli anni Settanta del XX secolo a cui Antonio Moresco ha dedicato in Clandestinità (Bollati Boringhieri) una vera e propria fenomenologia del vivere nascosti (clam, dal latino: «di nascosto»). Oggi i clandestini sono coloro che sono entrati di nascosto in Italia, che vivono privi di documenti o di permesso di soggiorno (i francesi Sans papier), occultati, eppure ben presenti in mezzo a noi. La parola clandestino si è sostituita a un'altra che sino a qualche tempo fa indicava la presenza di persone «diverse»: straniero. In un capitolo della sua Sociologia, pubblicata nel 1908, Georg Simmel il maggior sociologo del XX secolo, spiega chi sia lo straniero. Per lui l'elemento spaziale è essenziale. Vicinanza e distanza sono i due parametri decisivi. Se la distanza nel rapporto, scrive Simmel, significa che «il soggetto vicino è lontano», lo straniero, il cui etimo rimanda a «estraneo», è propriamente «il lontano che è vicino». Lo straniero è tale solo se si trova in mezzo a noi. Simmel pensava agli Ebrei che vivevano nella società tedesca dell'Ottocento. Attualmente al vocabolario delle vicinanze e delle lontananze si aggiunta una parola, differenza, declinata di solito al plurale, che tende a definire in termini culturali la figura dello straniero. Michel Wieviorka, sociologo francese, in L'inquietudine delle differenze (Bruno Mondadori) racconta la storia di un gruppo di giapponesi, i nikkeijin. Si tratta di giapponesi emigrati negli anni Venti del XX secolo in Brasile. Istruiti e colti, dotati di laurea, essi s'impiegano come professionisti e ingegneri, ma negli anni Settanta e Ottanta, a seguito di una crisi economica, decidono di fare ritorno in patria. Del tutto simili fisicamente ai compatrioti, divengono immediatamente oggetto di discriminazione, forma atipica di razzismo. I nikkeijin si sentivano mentalmente diversi dai loro compatrioti: avevano nostalgia per il Brasile, guardavano la televisione brasiliana, leggevano i giornali brasiliani, tuttavia non avevano assolutamente voglia di fare ritorno là. Estranei sia in Giappone sia in Brasile. Chi sono i nikkeijin, stranieri o differenti? Wieviorka ci ricorda che l'identità degli stranieri presenti in Francia, come in Italia, si costruisce con modalità diverse dal passato. Alla memoria della propria origine, del paese da cui provengono, si affianca l'identità alimentata da simboli, immagini, suoni, parole che circolano attraverso internet, telefono e cinema, ovvero i mezzi di comunicazione di massa su cui l'antropologo Arjun Appadurai ha attirato la nostra attenzione. Wieviorka aggiunge un ulteriore elemento su cui riflettere: quando chiediamo, scrive, in una ricerca ai giovani musulmani delle periferie francesi qualcosa circa la loro religione, questi rispondono che non sono musulmani per via della loro famiglia o dell'educazione, bensì «per scelta personale». La decisione è il frutto della loro soggettività. Accanto al crescente peso delle reti - umane, culturali, politiche, religiose, economiche - nella globalizzazione s'afferma il valore del soggetto, una forma di individualismo che pare sfuggire alla logica dei vecchi sistemi, o che resiste tenacemente ad essi. Il soggetto non è l'attore, precisa il sociologo francese, ma «il carattere creatore dell'agire umano». Nei ragazzi delle banlieue, il soggetto autoafferma se stesso, il proprio corpo, la propria capacità creativa, ma anche distruttiva, cosa che accade anche in altri contesti e gruppi come le bande giovanili e gli ultras, o altre tribù metropolitane descritte da elementi sempre più ibridi e indefinibili, al di là delle vecchie ideologie identitarie dell'occidente come si è visto di recente. Il filosofo Pier Aldo Rovatti in un piccolo libro, Possiamo addomesticare l'altro? La condizione globale (Forum), cerca di mettere a fuoco ulteriormente il problema; vi sostiene che noi viviamo sempre più in comunità autocoercitive, in cui i luoghi si stringono e riducono in modo vertiginoso, mentre al tempo stesso lo spazio sembra dilatarsi in «un continuum senza intervalli né pieghe, sconfinato, ma in effetti assai ristretto», che paradossalmente percorriamo con facilità e a grande velocità. Usando un'espressione del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, «esonero» (o sgravio), Rovatti sostiene che gli abitanti dei paesi occidentali si sentono esonerati, sgravati del senso e della finalità del loro agire. Forse è proprio per questo che in occidente «l'individuo è diventato un se stesso senza luogo», un nomade sedentario, condizione che rende difficile l'accettazione delle differenze e insieme angoscioso il confronto con i migranti che invece lo percorrono (parola su cui si è soffermata di recente Federica Sossi in Migrare, il Saggiatore). Da un lato, dice Wieviorka, questi individui e gruppi vogliono spostarsi, non vogliono più essere confinati nel contesto di uno Stato-nazione, dall'altro ci sono interi quartieri di Londra o Parigi, o piccole cittadine, dove vivono stranieri che non si muovono mai da lì, e che una volta all'anno prendono l'aereo per andare in Sri Lanka, ma grazie alle antenne paraboliche e internet riescono a mantenere un legame fortissimo con i paesi d'origine. Identità che s'irrigidiscono, differenze che non si accettano. Un cumulo di problemi da cui non è facile estrarre una strategia unica e convincente per uscire dall'attuale impasse in cui si trova l'Europa.

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