27 giugno 2008
Libri
Dolci, D. Poema umano, Torino, 1974
Langer A., Il viaggiatore leggero, Palermo, 1996
Levi P. , I sommersi e i salvati, Torino, 1986
Wiesel E. , La città della fortuna, Firenze, 1990
26 giugno 2008
1938 - Discriminazioni - 2008
24 giugno 2008
Donne di ieri, donne di oggi
23 giugno 2008
Per un "Manifesto Antisciatteria"
Paola Mastracola
L'epoca del "fai come ti pare"
"La Stampa", 23 giugno 2008
Mia madre, se mi vedeva la giacca senza un bottone, non mi faceva uscire di casa. Non ti puoi presentare da nessuna parte se ti manca un bottone, mi diceva. Oggi il grande Armani passeggia per Milano e si dice inorridito da come ci vestiamo. Credo che sui bottoni la pensi come mia madre, e non so come dargli torto.Basta andare al mare una domenica. Vediamo uomini a torso nudo che trascinano i piedi dentro zoccoloni di plastica e zampettano al ristorante senza nemmeno pulirsi dalla sabbia; e donne fasciate alla bell’e meglio da tendaggi umidicci e stinti che chiamiamo esoticamente pareo. Prendiamo a pretesto il sole, il caldo, la vacanza; per giustificare tutti gli zoccoli e i pareo che ci pare, usiamo come armi affilate le parole: comodo, informale, pratico. In realtà è che non abbiamo più voglia di impegnarci, di fare fatica, di mettere energia nemmeno a scegliere un vestito elegante con i sandali in pelle. Abbiamo barattato l’eleganza con una pseudo libertà, che invece ci abbrutisce e ci degrada.Siamo ineleganti perché abbiamo perso la precisione e l’accuratezza. Esisteva la calligrafia ovvero la bella scrittura, per esempio, perché qualcuno si metteva lì a disegnare parola dopo parola, con precisione da miniaturista. D’altronde, un tempo facevamo mosaici e costruivamo piramidi… Impiegavamo un tempo infinito a cuocere una statua, a pennellare un ritratto, a scrivere un libro: a volte ci mettevamo una vita e non bastava, il libro usciva postumo (ed era una gloria imperitura, ma sarebbe un altro discorso, lasciamo perdere). Così, viviamo alla giornata, nel tripudio di un carpe diem travisato per sempre: qui non afferriamo nessun tempo, lo sprechiamo a essere fintamente liberi, cioè sciatti, guadagnando un tempo che poi ri-sprechiamo in altro, non si sa bene cosa. Almeno coltivassimo il filosofico otium degli antichi, ma neanche quello. Coltiviamo l’ozio del «fare il meno possibile, che tanto è uguale». Qualcuno deve averci detto che non importa più che ci danniamo l’anima a far bene una cosa, basta farla e il risultato è uguale. La presunta uguaglianza dei risultati!E così, il mondo tira a campare saturando l'aria di approssimazioni e inesattezze.I giornalisti non fanno più inchieste sul campo, ma telefonano agli esperti elemosinando opinioni al volo. I magistrati non fanno indagini e pedinamenti, ma preferiscono intercettare. I servizi segreti hanno difficoltà a infiltrare i gruppi terroristici, e quindi monitorano le comunicazioni internet e telefoniche. Gli ispettori ministeriali non leggono i libri, non consultano enciclopedie, non controllano i testi, ma si danno - peggio che i nostri giovani - a uno sfrenato copia-incolla. Povero Montale, che tanto si affannava a dedicar poesie! D’altronde, potremmo dire: c’è così tanta differenza tra un ballerino russo e una donna amata? Ecco, è questo credere che non ci sia poi così tanta differenza che non va. E torniamo ai vestiti: una volta c’era differenza tra soprabito e cappotto, perché si faceva attenzione a che fosse inverno o primavera. Adesso vale il «fa’ come ti pare», mettiti come vuoi, basta che tu ti senta libero. E così, gli studiosi non vanno più in biblioteca, aprono internet e si perdono a navigare nei suoi flutti. E forse nessuno studierà più niente, perché tanto, che differenza fa? Se ti serve qualcosa, peschi in rete e fai la tua bella figura. I politici non fanno più comizi nelle piazze, non studiano i problemi, non vanno in sezione: si limitano ad apparire in tivù, a concionare alla radio. Gettano parole sul mondo, come viene viene. Parole approssimative, rumorose, non pensate, non amate. Parole dove si sente che non alberga più un pizzico di passione ed esattezza. Sì, perché anche la passione è esatta; anche l’amore esige impegno e precisione. Come scrivere bene, come indossare un bel vestito, cuocere il tempo giusto un dolce, come amare la persona a cui abbiamo promesso amore. Invece oggi, come ci infiliamo al volo gli zoccoli di plastica per scendere in strada, così una sera diciamo al nostro coniuge che basta, non lo amiamo più, e non sappiamo proprio cosa dirgli se non lo amiamo più: ce ne andiamo, lasciando dietro di noi i cocci sparsi di una casa, dei figli, dei parenti vecchi e malati. Cosa importa? Gira il vento e noi, anime libere e irresponsabili, seguiamo il vento. E il vento ci porterà via, e non resterà nulla di noi. Sciatterie del sentimento.Dovremmo smetterla. Dovremmo scrivere un manifesto dell’Antisciatto. Senza tante pretese, con un’unica regola: l’umiltà di fare bene quel poco o tanto che sappiamo fare, con il pensiero però che quel nostro umile fare, almeno un po’, concorrerà a migliorare il mondo.
C'é bisogno di grandezza
22 giugno 2008
Diagnosi - 1910
21 giugno 2008
Cittadinanza qualificata
Emergenza democratica
Adriano Sansa
Se domani una legge dicesse che prima dell’udienza l’imputato va tenuto in ginocchio sul sale, non la applicheremmo. Chiederemmo alla Corte Costituzionale di dichiararne l’illegittimità, ma intanto non obbediremmo. Si sta avvicinando il momento, che mai avremmo immaginato, di questa drammatica frattura delle coscienze, dei cittadini e degli stessi giudici. Fino a che punto si deve prestare obbedienza alla legge? Antico quesito, peraltro sorprendentemente attuale.La norma che sospende i processi per i reati puniti fino a dieci anni è stata introdotta surrettiziamente nel testo del decreto sulla sicurezza, dopo l’autorizzazione del Presidente della Repubblica. Essa viola il principio della separazione dei poteri, quello della ragionevole durata del processo e quello dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. È escluso che sia rivolta a disciplinare con indicazioni di massima la «precedenza» tra processi al fine di migliorare il rendimento della giustizia, perché sospende la maggior parte dei procedimenti pendenti e quasi tutti quelli per gli episodi di criminalità quotidiana che allarmano i cittadini. Non solo, ma la lettera del premier al presidente del Senato nella quale egli insolentisce e dileggia i magistrati di fronte ai quali è imputato, contestuale alla presentazione del decreto in Senato, conferma inequivocabilmente il nesso tra la sospensione generalizzata e la posizione personale del Berlusconi. Nel complesso ci si trova di fronte a una lesione ripetuta e grave delle regole fondamentali della Repubblica. Una sorta di padrone tiene il posto del primo ministro, piega il Parlamento al proprio volere e si libera della giustizia nello stesso momento in cui si propone di imbavagliare la stampa impedendole di riportare notizie sulle inchieste pur dopo la cessazione del segreto sulle intercettazioni. Per educazione, consuetudine civile, diritto e dovere personale e, nel mio caso, per lealtà al giuramento di fedeltà alla Costituzione, non possiamo obbedire a leggi fatte per elevare al rango di padrone dei concittadini un solo cittadino e la sua corte di servitori. Dunque sta avvicinandosi il tempo in cui dovremo chiederci se obbedire o no alla legge, nel mio stesso tribunale come in tutti gli altri del Paese. Solo pronunciando queste parole, ne tremo, e capisco a quale punto difficile e ormai drammatico siamo arrivati. Non so se darò istruzioni di sospendere i processi piegando la testa all’abuso, non so se potrò obbedire.
19 giugno 2008
Sguardi di futuro - 1942
Stampa e Migranti
CARTA DI ROMA
PROTOCOLLO DEONTOLOGICO CONCERNENTE RICHIEDENTI ASILO, RIFUGIATI, VITTIME DELLA TRATTA E MIGRANTI
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, condividendo le preoccupazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) circa l’informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, richiamandosi ai dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista - con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche - ed ai princìpi contenuti nelle norme nazionali ed internazionali sul tema; riconfermando la particolare tutela nei confronti dei minori così come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dai dettati deontologici della Carta di Treviso e del Vademecum aggiuntivo, invitano, in base al criterio deontologico fondamentale ‘del rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati’ contenuto nell’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine, i giornalisti italiani a:
osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti nel territorio della Repubblica Italiana ed altrove e in particolare a:
a. Adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri;
b. Evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. CNOG e FNSI richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti;
c. Tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze in merito all’identità ed all’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni contro la stessa e i familiari, tanto da parte di autorità del paese di origine, che di entità non statali o di organizzazioni criminali. Inoltre, va tenuto presente che chi proviene da contesti socioculturali diversi, nei quali il ruolo dei mezzi di informazione è limitato e circoscritto, può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze dell’esposizione attraverso i media;
d. Interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni.
IMPEGNI DEI TRE SOGGETTI PROMOTORI
i. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, in collaborazione con i Consigli regionali dell’Ordine, le Associazioni regionali di Stampa e tutti gli altri organismi promotori della Carta, si propongono di inserire le problematiche relative a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti tra gli argomenti trattati nelle attività di formazione dei giornalisti, dalle scuole di giornalismo ai seminari per i praticanti. Il CNOG e la FNSI si impegnano altresì a promuovere periodicamente seminari di studio sulla rappresentazione di richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta e migranti nell’informazione, sia stampata che radiofonica e televisiva.
ii. Il CNOG e la FNSI, d’intesa con l’UNHCR, promuovono l’istituzione di un Osservatorio autonomo ed indipendente che, insieme con istituti universitari e di ricerca e con altri possibili soggetti titolari di responsabilità pubbliche e private in materia, monitorizzi periodicamente l’evoluzione del modo di fare informazione su richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta, migranti e minoranze con lo scopo di:
a) fornire analisi qualitative e quantitative dell’immagine di richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti nei mezzi d’informazione italiani ad enti di ricerca ed istituti universitari italiani ed europei nonché alle agenzie dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa che si occupano di discriminazione, xenofobia ed intolleranza;
b) offrire materiale di riflessione e di confronto ai Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti, ai responsabili ed agli operatori della comunicazione e dell’informazione ed agli esperti del settore sullo stato delle cose e sulle tendenze in atto.
iii. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana si adopereranno per l’istituzione di premi speciali dedicati all’informazione sui richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime di tratta ed i migranti, sulla scorta della positiva esperienza rappresentata da analoghe iniziative a livello europeo ed internazionale.
Il documento è stato elaborato recependo i suggerimenti dei membri del Comitato scientifico, composto da rappresentanti di: Ministero dell’Interno, Ministero della Solidarietà sociale, UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) / Presidenza del Consiglio – Dipartimento per le Pari Opportunità, Università La Sapienza e Roma III, giornalisti italiani e stranieri.
ALLEGATO: GLOSSARIO
- Un richiedente asilo è colui che è fuori dal proprio paese e presenta, in un altro stato, domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, o per ottenere altre forme di protezione internazionale. Fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti, egli è un richiedente asilo ed ha diritto di soggiorno regolare nel paese di destinazione. Il richiedente asilo non è quindi assimilabile al migrante irregolare, anche se può giungere nel paese d’asilo senza documenti d’identità o in maniera irregolare, attraverso i cosiddetti ‘flussi migratori misti’, composti, cioè, sia da migranti irregolari che da potenziali rifugiati.
- Un rifugiato è colui al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, alla quale l’Italia ha aderito insieme ad altri 143 Paesi. Nell’articolo 1 della Convenzione il rifugiato viene definito come una persona che: ‘temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese’. Lo status di rifugiato viene riconosciuto a chi può dimostrare una persecuzione individuale.
- Un beneficiario di protezione umanitaria è colui che - pur non rientrando nella definizione di ‘rifugiato’ ai sensi della Convenzione del 1951 poiché non sussiste una persecuzione individuale - necessita comunque di una forma di protezione in quanto, in caso di rimpatrio nel paese di origine, sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenze generalizzate e/o massicce violazioni dei diritti umani. In base alle direttive europee questo tipo di protezione viene definita ‘sussidiaria’. La maggior parte delle persone che sono riconosciute bisognose di protezione in Italia (oltre l’80% nel 2007) riceve un permesso di soggiorno per motivi umanitari anziché lo status di rifugiato.
- Una vittima della tratta è una persona che, a differenza dei migranti irregolari che si affidano di propria volontà ai trafficanti, non ha mai acconsentito ad essere condotta in un altro paese o, se lo ha fatto, l’aver dato il proprio consenso è stato reso nullo dalle azioni coercitive e/o ingannevoli dei trafficanti o dai maltrattamenti praticati o minacciati ai danni della vittima. Scopo della tratta è ottenere il controllo su di un’altra persona ai fini dello sfruttamento. Per ‘sfruttamento’ s’intendono lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo degli organi.
- Un migrante/immigrato è colui che sceglie di lasciare volontariamente il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e migliori condizioni economiche altrove. Contrariamente al rifugiato può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza.
- Un migrante irregolare, comunemente definito come ‘clandestino’, è colui che a) ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; b) è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto ‘overstayer’); o c) non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento.
17 giugno 2008
Mario Rigoni Stern
Genova
La bellezza di Genova, un bene di tutti
Sa, signor Bellantuoni, sarebbe stato assai più civile e conforme a onesta parola di verità, se lei avesse fatto nome e cognome dell’uomo, o degli uomini, pubblici - e dunque pubblicamente responsabili - che da lei interpellato/i sul bene pubblico avrebbero risposto con la delirante affermazione da lei riportata. Io, sinceramente,
non oso credere che ci sia un amministratore della città di Genova che possa aver detto quelle cose. Anzi, sono portato a credere che lei si sia risparmiato di chiedere, avendo già la sua risposta confezionata dalla sua personale attrezzatura ideologica. Se è così, non va mica tanto bene, caro Bellantuoni.
La diuturna fatica dei probi cittadini per estorcere parole di verità ai politici è la più bella prova di viva democrazia; se ci si mettono i cittadini a inventare discorsi da mettere loro in bocca, allora siamo definitivamente fregati.
Nel contesto da lei enunciato, poi, le dirò che non sono affatto d’accordo. La bellezza è un bene di tutti e da tutti agognato. Dai borghesi e dai proletari, dai lumen borghesi e dai lumen proletari, dai principi e dai contadini. La bellezza della città è la bellezza
di tutti i cittadini, e tutti ne vanno fieri appena la intravedono.
Non credo che fosse causata dalla greve ignoranza e dall’intrinseca sporcizia degli operai dell’Ansaldo se, per quarant’anni, via San Lorenzo è stata lo schifo che è stata, e il giorno dopo la sua nuova vita di bellezza c’era tutta Genova - operaia e principesca, mercantile e bottegaia, impiegatizia e studentesca, nulla facente e nulla tenente - con il naso all’insù a godersela, come fosse stata la neonata figlia sua, figlia di tutti. Io vivo a Genova non perché ci sono nato, ma perché l’ho scelta. E l’ho scelta per la sua bellezza che non mi pare sia deturpata, così come a lei sembra. Forse mi accontento di poco, forse, essendo nato da volgari contadini, non vedo la sporcizia. Non ne vedo abbastanza, almeno, da sentirmene sommerso. Genova non è Copenaghen, lo so e lo vedo, ma mi pare che si erga ancora viva dalle sue sporcizie. E non dispero che chi la amministra, e chi la amministrerà, sappia lavorare per qualche milione di piccole cose in nome della bellezza diritto di tutti.
16 giugno 2008
Razzismo
Il razzismo «de noantri»
"Il Manifesto", 13 giugno 2008
Dall'entrata in carica del governo Berlusconi, la persecuzione degli stranieri, dei migranti, dei rom e dei cittadini italiani sinti è divenuta capillare e ossessiva. Si direbbe inoltre che il razzismo di strada sia in qualche modo coordinato o in sintonia con l'attivismo istituzionale: controlli della polizia sugli autobus, sgomberi dei nomadi, rastrellamenti di prostitute e transessuali, schedatura dei sinti, decreti che attuano principi discriminatori e incostituzionali come l'aggravante dei reati per clandestinità.La risposta politica a questa tenaglia xenofoba è inesistente. La sinistra radicale ex parlamentare sembra ancora frastornata dalla batosta elettorale, mentre l'opposizione di sua maestà, a parte dichiarazioni rituali, collabora con il governo. Fa impressione vedere un Veltroni negoziare qualsiasi cosa con Berlusconi, magari i suoi spazi tv mentre la polizia rastrella i rom. La magistratura, a cui pure si devono le poche critiche argomentate al pacchetto sicurezza, sembra attestata su una difesa dei propri spazi e prerogative. Ma ciò che appare inaudito, in una cosiddetta democrazia liberale, è l'atteggiamento della stampa (sulla tv meglio sorvolare). A parte la campagna xenofoba di Libero o del Giornale, i cosiddetti giornali indipendenti insistono sull'«insicurezza dei cittadini», mentre a essere minacciati e umiliati, giorno per giorno, sono esseri umani, cittadini italiani e no, discriminati in base all'origine. I quotidiani riportano gli episodi di razzismo istituzionale, quando si degnano di riportarli, con un tono indifferente o sbarazzino. Non si può definire quello che sta avvenendo in Italia se non come fascistoide. In primo luogo, per l'impunità di cui sembrano godere gli aggressori (Napoli) o anche per la vera e propria simpatia (il vendicatore del Pigneto, che sarebbe uno di sinistra, de noantri, secondo la Repubblica). Ma anche per l'evidente copertura istituzionale, come nelle incredibili dichiarazioni di Bossi dopo i roghi di Napoli, al solito accolte dai media come simpatiche manifestazioni di goliardia. Quando definisco fascistoide la svolta italiana mi riferisco al fatto banale che è promossa dalle istituzioni in un quadro formalmente democratico, e che forse resterà tale. Ma in questo non vedo alcuna consolazione. A parte il fatto ben noto che la storia si ripresenta sempre in forma di farsa, che le istituzioni perseguitino nomadi e «diversi» (compresi cittadini italiani) con l'appoggio dell'opinione pubblica o magari della maggioranza degli elettori è un'aggravante e anche un motivo di angoscia. Tutto diviene possibile. Se e quando il governo deciderà di smettere di suonare la grancassa, la persecuzione continuerà in forme meno appariscenti ma comunque disumane: nomadi in fuga non si sa dove, con i loro bambini cacciati dalle scuole, gente costretta a stare almeno un anno e mezzo nei Cpt, donne perseguitate sui marciapiedi, annegamenti di migranti. Il dramma è che all'estero, al di là degli interventi di qualche parlamentare europeo e di organizzazioni come Amnesty, sembra che la gente non sappia o non ci creda. Ah, les italiens! L'anomalia italiana, il malato d'Europa, si dice alzando le spalle. Ma il problema non sono i nostri conti, cari burocrati europei. Se davvero si pensasse a questa svolta come a un'eccezione folcloristica si commetterebbe un errore di valutazione mortale. Che la persecuzione avvenga contro le minoranze e i marginali significa che le maggioranze, anche quelle non apertamente razziste e magari riformiste, possono continuare a bearsi ottusamente delle loro libertà e dei loro privilegi. Basta che non guardino e non vogliano sapere Come avrebbero dovuto insegnarci i casi olandese, austriaco e danese, l'Europa non è affatto protetta dalla xenofobia. Sugli stranieri e sui nomadi si possono scaricare l'insicurezza economica o esistenziale, la paura del futuro, la fine delle illusioni europee. Dovunque, un ceto politico cinico e avventurista può sfruttare, come avviene in Italia, l'insoddisfazione generale a fini di consenso. Non costa nulla. E qui si misura la miopia di chi, da noi, nella cosiddetta sinistra moderata, ha gettato benzina sul fuoco, corrodendo le basi antifasciste della prima repubblica, piagnucolando sui caduti di Salò, come se non fossero morti rastrellando i partigiani e collaborando con i nazisti, e quindi facilitando lo sterminio di ebrei, antifascisti, omosessuali e nomadi. Questo revisionismo straccione e mortuario per fortuna non è ancora passato in Europa, almeno ufficialmente. Nessuno si sognerebbe di resuscitare Pétain, Mosley, Quisling o altri emuli di un Giorgio Almirante, che oggi vogliono far passare per un padre della patria. Ma proprio perché gran parte dell'Europa è meno accecata che da noi (o resta legata a parole alle sue origini antifasciste), è necessario che la xenofobia italiana sia registrata, documentata e fatta conoscere all'esterno. Essere più o meno globalizzati, competere economicamente con il resto del mondo, e magari godere di una moneta forte, per far contenti quattro banchieri di Francoforte o gli esportatori americani, non è affatto incompatibile con forme più o meno larvate di fascismo. Anzi. Non sono solo i ceffi della Lega a governarci all'interno, ma anche l'erre moscia di Tremonti e il fanatismo burocratico del giovane Frattini a rappresentarci nel mondo. Attenti, europei con un minimo senso di decenza. Oggi, i pogrom cominciano nel pittoresco stivale mediterraneo, ma domani...
Fattoidi
Quante bugie e disinformazione per militarizzare la quotidianità
Quando si dà una notizia ma si dice il "non vero"
“La Stampa”, 15 giugno 2008
Quanto sta accadendo sul piano delle decisioni governative merita alcune segnalazioni, in relazione ai problemi della comunicazione. La prima segnalazione fa riferimenti ai numeri che il ministro della Giustizia aveva fornito per accreditare la necessità di un provvedimento urgente sulle intercettazioni. Erano numeri FALSI. Si diceva che ci sono un milione di intercettazioni, che siamo TUTTI intercettati; le intercettazioni sono in realtà su circa 80mila utenze (per ogni indagato ci sono spesso più utenze, dunque circa 30 mila intercettati) e l'80 per cento di queste riguarda casi di sospetta mafia e criminalità organizzata. Il numero reso pubblico dal ministro era basato sulla presunzione di circa 30 connessioni per utenza e di circa 100.000 utenze, arrivando così a 3 milioni di intercettati. Bell'esempio di disinfornazione. La seconda segnalazione fa riferimento alla percezione della insicurezza nel nostro paese provocata dalla natura criminale degli immigrati. Si dice che questa percezione è basata sulla realtà e dunque si approntano misure drammatiche e si mobilita l'esercito; poi si scopre che delle 16910 rapine compiute lo scorso anno in Italia ben 12527 sono state compiute da italiani e che i furti in casa sono in Italia ben inferiori (143.000) alla Gran Bretagna (209.000) e alla Francia (177.000). E infine, si mobilitano 2500 soldati per fare la ronda notturna con poliziotti e carabinieri, quando poliziotti carabinieri e finanziari sono circa 300.000, e davvero non si capisce cosa voglia dire quello scarno numero di soldat prestati alle operazioni di polizia, se non attivare e radicare il convicincimento che siamo davvero in una condizione di insicurezza totale, più o meno come la Colombia (nelle frasi del sindaco Chiamparino). Insomma si gioca sulle notizie, dandole in modo falso o parziale per giustificare una militarizzazione della vita del nostro paese. Che mi pare un passo gravissimo, compiuto appunto con la strumentalizzazione dei massmedia e dei processi della comunicazione.
13 giugno 2008
L'inconsapevole connivenza
Sguardi di futuro
Manette mentali
"Il telefonino si chiama così per convenzione ma non è propriamente un telefono. Cellulare, facendo pensare al furgone carcerario, è più preciso, perché qui si tratta di manette mentali. Chi è nella morsa di queste manette mentali è lucido, alla guida, quanto può esserlo un ubriaco".
12 giugno 2008
Pregiudizi e stereotipi
Gian Antonio Stella
Sarebbe ingiusto se i giornali di Bucarest scatenassero una campagna anti-italiana cavalcando la notizia di Verona, dove marito e moglie hanno ammazzato e bruciato un dipendente rumeno per i soldi dell'assicurazione. Tanto più se la collegassero col caso di Ion Cazacu, l'ingegnere rumeno che faceva il muratore a Gallarate e fu bruciato vivo dal datore di lavoro, che aveva venti operai, tutti in nero.
E a maggior ragione se sottolineassero la sproporzione tra lo spazio riservato a questi due delitti brutali e quello assai più vistoso dato alla tragedia di Vanessa Russo, la ragazza uccisa con una ombrellata in un occhio nella metro di Roma da una rumena che ha preso 16 anni di carcere. Quanti l'imprenditore che bruciò Cazacu. Non si può fare di ogni erba un fascio. Vale per i rumeni, vale per gli italiani. Lo spaventoso episodio veronese lascia però sgomenti. Anche perché si va ad aggiungere ad altre storie che in questi giorni hanno sfregiato l'immagine del Nord. O meglio: di quel Nord dipinto a volte in tinte pastello come una mitica terra serena, laboriosa, giusta. Esente (o quasi) dalle piaghe morali patite dal resto del Paese, soprattutto dal Mezzogiorno.
E dunque pronto, se solo potesse affrancarsi dal fardello, a spiccare lucente tra i lucenti. Non è così. Lo dice la selvaggia violenza sessuale commessa alle porte di Milano da un italiano su una bambina immigrata di 13 anni, violenza condannata dai cultori della «tolleranza doppio zero» con voce assai flebile. Lo dicono le inchieste sulle responsabilità di tanti imprenditori settentrionali nel criminale smaltimento di rifiuti tossici nelle discariche campane. Responsabilità respinte con sdegno, dopo il monito di Napolitano, dai guardiani dell'onore padano. Ma precise, accertate, sanzionate. E tali da spingere il direttore di Avvenire, Dino Boffo, a scrivere: «Sì, il mio Nord l'ha combinata grossa. Ha scaricato su altri quello che non vuole per sé e i propri figli. Ha accettato proposte infami di mediatori infami». Lo sfregio più doloroso a quell'immagine del Nord «guida morale del Paese», però, lo stanno facendo le indiscrezioni che emergono dalle indagini sulla «Santa Rita».
Certo, sono anni che certi ospedali sgarrupati del Sud offrono cronache da incubo: sale operatorie senza acqua corrente, topi, zecche, pazienti ammucchiati come nei lazzaretti medievali. Per non dire di scandali della sanità privata siciliana, in larga parte direttamente in mano ai politici, e su tutti quello di «Villa Santa Teresa» (povere sante...) dove la Regione pagava ad esempio la terapia per il tumore al seno 46.480 euro contro i 3.314 del tariffario piemontese. Mai, però, si era scoperta una clinica degli orrori come questa. Che col suo ossessivo obiettivo di fare soldi, soldi, soldi sulla pelle delle persone rischia di infangare irrimediabilmente quel sistema misto pubblico-privato lombardo fino a ieri sventolato come un modello da imitare. Per carità, alla larga dall' auto-flagellazione.
Ma se gli stessi meridionali più accorti trovano insopportabile un certo meridionalismo piagnone, sarebbe un peccato se il legittimo orgoglio di chi crede nelle virtù del nostro Nord cercasse di rimuovere i traumi di questi giorni come si scacciano le mosche fastidiose. Se è accaduto, vuol dire che poteva accadere. E val la pena di pensarci su.
10 giugno 2008
1987 - Assalti ai campi Rom - 2008
"La Repubblica", 18 novembre 1987
09 giugno 2008
Genova
I Centri di permanenza temporanea
Durante la dittatura fascista si poteva ignorare l’esistenza di lager da noi gestiti in Jugoslavia, in Libia, in Eritrea. Oggi lo vogliamo ignorare. Teniamo rinchiusi nel recinto del tempo perduto uomini venuti fino a noi da terre di malora e viaggi di fortuna. Non hanno commesso alcun torto penale, perché entrare nel nostro paese da una spiaggia anziché da un posto di frontiera non è reato. Li rinchiudiamo lo stesso senza diritto di nominare un avvocato, ricevere una visita, scambiare corrispondenza. Il termine è due mesi, ma spesso la detenzione si prolunga, spesso si ripete.
Siamo carcerieri di innocenti alla luce del sole e progettiamo nuovi campi di concentramento. Degradiamo le nostre forze di polizia a secondini di naufraghi, maltrattatori di indifesi.
Centri di permanenza temporanea: così chiamiamo questi recinti. Seguiamo così la losca tradizione di nascondere l’infamia sotto parole innocue. I nazisti chiamavano “wohnungbezirk”, distretto abitativo, i ghetti in cui ammassavano gli ebrei per lo sterminio. Chiamiamo missione di pace la spedizione, verso guerre lontane, dei più specializzati reparti militari. In Iraq siamo complici di occupanti che aizzano Furore. Missioni di pace, centri di permanenza temporanea: ci fosse almeno una dittatura a tapparci occhi, orecchie, naso, bocca, con la censura. Macchè, siamo nell’appetitosa democrazia dell’occidente dove tutto e documentabile e nessuna scusa protegge la nostra inerzia. Squillano dagli organi d’informazione i titoli gaglioffi della tolleranza zero per il fattaccio o il fatterello di cronaca. Alzano tolleranza mille sui campi di concentramento, sulla somministrazione di dosi enormi di sedativi ai prigionieri, sulla spesa di oltre settanta euro a testa per ogni rinchiuso, denaro che dovrebbe far risplendere i posti.
Il nostro paese all’estero fa un po’ sorridere per la sua bizzarria di eleggere a capo di governo il suo maggior possidente. A questo aggiunge il guasto di essere carceriere di innocenti senza processo. Soffiamo bene sullo specchio appannato e guardiamoci in faccia: siamo sfregiati dal marchio di persecutori di naufraghi, di traversatori di montagne a piedi. I calcinculo promessi agli immigrati da qualche ciarlatano li stiamo dando a noi stessi spingendo il nostro popolo al rango più basso della sua civiltà. E’ atto di pirateria imprigionare naviganti, è atto criminali espellerli verso un paese, la Libia, che non riconosce il diritto di asilo.
E poi tutto questo zelo carcerario a cosa ci serve? Sta sbarrando i flussi migratori? No. Perché non esistono misure per fermare gli spostamenti umani quando sono maree. L’umanità si è sempre travasata, da un paese all’altro, da un continente all’altro. Quella odierna è un’epopea grandiosa di donne e uomini, vecchi e neonati, che affrontano pericoli e deserti per raggiungere una sponda di salvezza. E’ l’epica antica della nostra specie invincibile che scavalca frontiere e arriva a dare fresca forza di lavoro a volontà alle economie di un nord lento e calante.
A chi si chiede onestamente come potremmo accogliere tanta umanità, la risposta è che l’accogliamo già. I milioni di nuovi regolari non sono passati dall’ingresso principale, non li abbiamo previsti eppure sono stati assorbiti dall’economia clandestina, quella sì clandestina, l’economia sommersa del nostro paese. C’era bisogno di quelle forze e ne accoglieremo finché il mercato lo vorrà. A che serve l’apparato dei campi di concentramento? Ha un solo effetto, quello di renderci peggiori come persone e come popolo in blocco, oppressori di umili.
I migratori hanno dalla loro il numero, mastino della storia che non cede la presa. E la storia costringe.
Clandestini
Le gazzette
I media - 2007
I media - 1993
L'indifferenza
"Sono molte le atrocità nel mondo e moltissimi pericoli. Ma di una cosa sono certo: il male peggiore è l’indifferenza. Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza; il contrario della vita non è la morte, ma l’indifferenza; il contrario dell’intelligenza non è la stupidità, ma l’indifferenza. E’ contro di essa che bisogna combattere con tutte le proprie forze. E per farlo un’arma esiste: l’educazione. Bisogna praticarla, diffonderla,condividerla, esercitarla sempre e dovunque. Non arrendersi mai"
08 giugno 2008
La stupidità
Stupidità, la peste di oggi
"La Stampa", 21 aprile 2005
Insomma, andrebbe rivisitato con molta più prudenza il processo evolutivo nel suo insieme che ha autoassegnato all’uomo capacità e doti così speciali da farne il più alto rappresentante della vita sulla terra e da rendere accettabili tutte le sciocchezze che compie e che nessun essere «inferiore» mette in atto. Con un po’ più di prudenza l’uomo può apparire, come appare a me, un essere imperfetto e, in termini di intelligenza, uno stupido.
La stupidità massima si coniuga, l’abbiamo detto, con il potere, quando cioè l’uomo tende ad aumentare la propria avidità. Però la stupidità si è infiltrata ovunque, fino a obbligare la persona onesta e creativa a chiudersi nella cella del privato, in una stanza che ha il sapore di un carcere di massima sicurezza.Ci sono mafia e ’ndrangheta, ma anche i clan universitari, le famiglie intellettuali e industriali. Una società idiota. I più grandi emarginati del tempo presente sono le persone veramente intelligenti. Sullo scenario della vita si percepiscono solo le loro controfigure, sembrano intelligenti ma sono idioti. I travestiti della mente, dentro la testa hanno solo sterco. Come in un transessuale: si cerca il mons veneris e si trova un pene mostruoso.Gli intelligenti vivono male in questa società, ma sono pochi e insignificanti. Per il resto è una «città ideale», persino democratica, dove tutti sono egualmente idioti, ma nessuno se ne accorge e quindi si può cambiare il dizionario e dare la stessa definizione dell’intelligente all’idiota. La misura di tutte le cose è il denaro, questo amuleto delle civiltà evolute. Può tutto e ha dalla propria parte ogni divinità.La stupidità è endemica, come la più grave delle malattie infettive, come la peste. E’ la peste del tempo presente. Se uno è stupido si aggregherà con gli stupidi, si attornierà di idioti. Si attiva il meccanismo della selezione naturale: gli intelligenti sono segregati e uccisi psicologicamente, gli stupidi si moltiplicheranno come i topi, come i conigli. Genereranno bambini che la natura potrà anche aver dotato di capacità creative, ma diventeranno stupidi perché educati alla stupidità. Respireranno un’aria mefitica, che uccide la mente e rinvigorisce i muscoli e il tessuto cavernoso del pene che si erigerà sempre di più. L’intelligenza è una possibilità della biologia, non un imperativo, non una necessità. L’educazione sopprime ogni potenzialità e così crescono piccoli idioti che poi diventano grandi e ancor più idioti. I bambini più intelligenti muoiono perché appaiono, nel migliore dei casi, folli. Una società di idioti genera idioti che genereranno idioti.Persino gli strumenti tecnologici ne vengono colpiti: basti guardare la televisione, il cinematografo, i videogiochi. Oggetti stupidi a immagine e somiglianza di un uomo cretino che deve stare in video a mostrare il proprio mostruoso pene, l’unico organo vivente. Sul teleschermo si muovono tanti peni incravattati, rivestiti di griffe prestigise. Una società di idioti non può che avere una televisione idiota che li rassicuri, che permetta di identificarsi continuamente, di percepirsi come grandi. E così si programma il concorso per miss idiota, le sfide della stupidità, i quiz dell’ignoranza. E il televisore diventa il luogo della pornografia, la pornografia della stupidità, del gusto dell’orrido intellettivo, dell’osceno razionale, del voyeurismo ebete. Gli intellettuali balbettano dimenticandosi di essere degli attori di questo teatro dell’ipocrisia e della crudeltà. (...) Nella società del sembrare, una patacca brilla come un cristallo di Boemia, come un diamante del Transvaal. Una puttana si confonde con una vergine, un travestito con una miss. Solo l’idiota rimane idiota, con desideri idioti, con l’invidia da idiota, con l’arroganza dell’idiota, con la superbia degli stupidi.L’ho imparato da molto tempo: per essere felici bisogna essere idioti oppure maniacali, delirare fino a percepirsi dio. Se il fine dell’umanità è la felicità, allora questo tempo è in perfetta sintonia con l’evoluzione. Aumentando il sapere, aumenta il dolore: l’idiota non sa nulla ed è felice.
Percorsi di lettura
Graffiti
“[…] La parola sui muri è una parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza via di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto. E questa è aggressione, è arbitrio, è violenza […] dove la scritta è una nuda affermazione o negazione che richiede dal leggente soltanto un atto di consenso o di rifiuto, l’impatto della coercizione a leggere è più forte delle potenzialità messe in moto dall’operazione con cui ogni volta riusciamo a ristabilire la nostra libertà interiore di fronte all’aggressione verbale. Tutto si perde nel frastuono del bombardamento neuro-ideologico a cui sono sottoposti i nostri cervelli da mattina a sera […]
E’ la presenza della scrittura, le potenzialità del suo uso vario e continuo che la città deve trasmettere, non la prevaricazione delle sue manifestazioni effettuali: […] la città ideale è quella su cui aleggia un pulviscolo di scrittura che non si sedimenta né calcifica. Ma i poveri muri delle città italiane non sono diventati anch’essi ormai che una stratificazione di arabeschi e ideogrammi e geroglifici sovrapposti, tali da non trasmettere altro messaggio che l’insoddisfazione d’ogni parola e il rimpianto per le energie che si sprecano? Anche su di essi forse la scrittura ritrova il posto che è insostituibilmente suo, quando rinuncia a farsi strumento d’arroganza e di sopraffazione: un brusio cui occorre tendere l’orecchio con attenzione e pazienza fino a poter distinguere il suono raro e sommerso d’una parola che almeno per il momento è vera.”
Sfumature
Fatemi il favore non datemi del tu
Tranne pochi moribondi, tutti gli italiani, oggi, si danno del tu. Dopo il 1945, il tu e il compagno dei comunisti enunciavano l´utopia definitiva, l´Eden, nel quale gli uomini sarebbero stati fratelli, e ogni differenza di ricchezza, popolo e professione sarebbe stata abolita. Miliardi di tu e di compagno vennero scambiati, molto spesso in perfetta buona fede. Ma nessuno ha conosciuto l´Eden; e mai, nell´Unione Sovietica e nei Paesi satelliti, il potere, l´arroganza, il disprezzo, la disuguaglianza avevano mostrato un volto così mostruoso. Il tu dei nostri giorni ha un carattere completamente diverso. Non so quando nacque. Forse cominciarono i medici a darsi del tu fra loro: li seguirono i giornalisti, gli scrittori, i professori universitari e, via via, le altre categorie sociali. Poi gli italiani continuarono ad affratellarsi: l´industriale diede del tu al suo operaio, il medico all´ingegnere, il professore universitario al giornalista, che prima disprezzava. Alla fine, questo fenomeno ha assunto, specialmente tra gli uomini politici, un aspetto grottesco: la perdita del cognome. Quando appaiono in televisione o nei titoli dei giornali, Berlusconi è Silvio, D´Alema è Massimo, Fassino Piero – e poi c´è Pier Ferdinando, Gianfranco, Walter, Giulio, Umberto, Clemente. Non possiamo indignarci se gli studenti delle scuole medie, adeguandosi alle nuove abitudini, si rivolgono nello stesso modo ai loro professori. Questo tu pretende di esprimere l´epoca dell´amicizia universale. Ti do del tu, e dunque sono tuo amico, ho fiducia in te, ti faccio le mie confidenze (rapide come in treno), rido con te, ti racconto barzellette, ti amo, ti invito a cena, ti bacio sulle guance e ti do una pacca affettuosa sulla schiena. In realtà, questo tu indifferenziato rivela la fine di ogni rapporto personale. Non ha nulla in comune con lo you inglese, pieno di sottigliezze. Tra le due persone che si danno del tu non c´è alcun affetto né amicizia: non c´è alcuna affinità: nessuno dei due ha interesse per l´altro, osserva il suo comportamento, studia la sua psicologia.DOPO un´ora, i due si voltano le spalle e non si vedranno mai più, come non si fossero mai conosciuti. Il Lei, al quale ricorrono ancora i moribondi, non suppone vanità, orgoglio, superbia, senso di superiorità o disprezzo. Il Lei implica quella distanza tra esseri umani, che spesso è giusto conservare: non possiamo identificarci con tutti, essere uno con la persona incontrata al caffé o a teatro, e con la quale scambiamo discorsi insignificanti. Suppone discrezione e rispetto: l´occhio guarda con attenzione l´altro e vede svolgersi, davanti a lui, i suoi sentimenti e cerca di capirli e di interpretarli. E´ una specie di velo. Può nascondere l´affetto più profondo, la timidezza, l´incertezza, la perplessità, la devozione, la venerazione, l´ironia delicata. Qualche volta, il Lei si addolcisce, sfociando nel vero tu, quello dell´amicizia assoluta: a volte, persiste lungo due vite, come un legame flessibile che non può sciogliersi. L´uso generale del tu fa parte di un fenomeno più generale: quello della semplificazione avvenuta nella nostra epoca. Siamo convinti che, dopo l´avvento della società di massa e la cosiddetta globalizzazione, il mondo sia diventato uniforme; e allora ci sembra giusto che tutti scambino tra loro il pronome della vicinanza. Ma il mondo non è uniforme. Mentre i prodotti cinesi invadono l´Italia, gli emigrati marocchini e rumeni abitano le nostre città, le classi si suddividono in strati sociali sottilissimi, la realtà è diventata molto più contraddittoria, piena di misteriosi doppi fondi, talvolta incomprensibile. Un italiano del 1930 o del 1945 poteva descrivere con una certa precisione il proprio paese. Noi non conosciamo affatto l´Italia del 2007; e i giudizi che leggiamo nei giornali e nei libri peccano spesso per una grossolana approssimazione. Niente è quello che pare, o finge di essere. Tutto è sfumatura. Le parole non rivelano le cose. I nostri occhi sono divenuti ciechi: gli orecchi sordi. Se la realtà ci sfugge da tutte le parti, non possiamo rifugiarci nelle verità generali, che una moltitudine di esperti o di interpreti ci propone. Non c´è nulla di semplice o di stabile. La nostra intelligenza dovrà diventare sempre più attenta, sottile, inseguendo i colori diversi, le sfumature, le ombre, le apparenze, le incertezze, i misteri, i movimenti rapidissimi e contrastanti delle cose. Musil diceva: "Dobbiamo cercare di vivere come se fossimo nati per trasformarci dentro un mondo creato per trasformarsi, press´a poco come una goccia d´acqua dentro una nuvola".
Clandestini
Dicono siamo sud.
07 giugno 2008
La metafora della Cattedrale di San Vito
*V. Havel, Investire nei valori umani per riscattare i paesi poveri , "La Repubblica", 28 dicembre 2000
Parole chiare
06 giugno 2008
Clandestini
Come ti addomestico il clandestino. Un fenomeno globale dalle radici antiche
“La Stampa”, 6 giugno 2008.
Noi siamo gli stranieri, i clandestini, noi uomini e donne soltanto vivi e noi ti chiediamo asilo asilo», così cantano i Clopin, gli zoppicanti, entrando in scena in Notre Dame de Paris, il musical di Riccardo Cocciante, traducendo con la parola «clandestino» il termine francese Sans papier. Nella lingua italiana clandestino è «colui che viaggia di nascosto», ma anche «chi agisce in segreto contro precisi decreti», dal francese clandestin, termine diffuso nel XIV secolo. In un altro significato, la clandestinità è poi legata all'azione politica: le società segrete dei «carbonari» nel Risorgimento, i partigiani nella Resistenza. E persino i clandestini della lotta armata negli anni Settanta del XX secolo a cui Antonio Moresco ha dedicato in Clandestinità (Bollati Boringhieri) una vera e propria fenomenologia del vivere nascosti (clam, dal latino: «di nascosto»). Oggi i clandestini sono coloro che sono entrati di nascosto in Italia, che vivono privi di documenti o di permesso di soggiorno (i francesi Sans papier), occultati, eppure ben presenti in mezzo a noi. La parola clandestino si è sostituita a un'altra che sino a qualche tempo fa indicava la presenza di persone «diverse»: straniero. In un capitolo della sua Sociologia, pubblicata nel 1908, Georg Simmel il maggior sociologo del XX secolo, spiega chi sia lo straniero. Per lui l'elemento spaziale è essenziale. Vicinanza e distanza sono i due parametri decisivi. Se la distanza nel rapporto, scrive Simmel, significa che «il soggetto vicino è lontano», lo straniero, il cui etimo rimanda a «estraneo», è propriamente «il lontano che è vicino». Lo straniero è tale solo se si trova in mezzo a noi. Simmel pensava agli Ebrei che vivevano nella società tedesca dell'Ottocento. Attualmente al vocabolario delle vicinanze e delle lontananze si aggiunta una parola, differenza, declinata di solito al plurale, che tende a definire in termini culturali la figura dello straniero. Michel Wieviorka, sociologo francese, in L'inquietudine delle differenze (Bruno Mondadori) racconta la storia di un gruppo di giapponesi, i nikkeijin. Si tratta di giapponesi emigrati negli anni Venti del XX secolo in Brasile. Istruiti e colti, dotati di laurea, essi s'impiegano come professionisti e ingegneri, ma negli anni Settanta e Ottanta, a seguito di una crisi economica, decidono di fare ritorno in patria. Del tutto simili fisicamente ai compatrioti, divengono immediatamente oggetto di discriminazione, forma atipica di razzismo. I nikkeijin si sentivano mentalmente diversi dai loro compatrioti: avevano nostalgia per il Brasile, guardavano la televisione brasiliana, leggevano i giornali brasiliani, tuttavia non avevano assolutamente voglia di fare ritorno là. Estranei sia in Giappone sia in Brasile. Chi sono i nikkeijin, stranieri o differenti? Wieviorka ci ricorda che l'identità degli stranieri presenti in Francia, come in Italia, si costruisce con modalità diverse dal passato. Alla memoria della propria origine, del paese da cui provengono, si affianca l'identità alimentata da simboli, immagini, suoni, parole che circolano attraverso internet, telefono e cinema, ovvero i mezzi di comunicazione di massa su cui l'antropologo Arjun Appadurai ha attirato la nostra attenzione. Wieviorka aggiunge un ulteriore elemento su cui riflettere: quando chiediamo, scrive, in una ricerca ai giovani musulmani delle periferie francesi qualcosa circa la loro religione, questi rispondono che non sono musulmani per via della loro famiglia o dell'educazione, bensì «per scelta personale». La decisione è il frutto della loro soggettività. Accanto al crescente peso delle reti - umane, culturali, politiche, religiose, economiche - nella globalizzazione s'afferma il valore del soggetto, una forma di individualismo che pare sfuggire alla logica dei vecchi sistemi, o che resiste tenacemente ad essi. Il soggetto non è l'attore, precisa il sociologo francese, ma «il carattere creatore dell'agire umano». Nei ragazzi delle banlieue, il soggetto autoafferma se stesso, il proprio corpo, la propria capacità creativa, ma anche distruttiva, cosa che accade anche in altri contesti e gruppi come le bande giovanili e gli ultras, o altre tribù metropolitane descritte da elementi sempre più ibridi e indefinibili, al di là delle vecchie ideologie identitarie dell'occidente come si è visto di recente. Il filosofo Pier Aldo Rovatti in un piccolo libro, Possiamo addomesticare l'altro? La condizione globale (Forum), cerca di mettere a fuoco ulteriormente il problema; vi sostiene che noi viviamo sempre più in comunità autocoercitive, in cui i luoghi si stringono e riducono in modo vertiginoso, mentre al tempo stesso lo spazio sembra dilatarsi in «un continuum senza intervalli né pieghe, sconfinato, ma in effetti assai ristretto», che paradossalmente percorriamo con facilità e a grande velocità. Usando un'espressione del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, «esonero» (o sgravio), Rovatti sostiene che gli abitanti dei paesi occidentali si sentono esonerati, sgravati del senso e della finalità del loro agire. Forse è proprio per questo che in occidente «l'individuo è diventato un se stesso senza luogo», un nomade sedentario, condizione che rende difficile l'accettazione delle differenze e insieme angoscioso il confronto con i migranti che invece lo percorrono (parola su cui si è soffermata di recente Federica Sossi in Migrare, il Saggiatore). Da un lato, dice Wieviorka, questi individui e gruppi vogliono spostarsi, non vogliono più essere confinati nel contesto di uno Stato-nazione, dall'altro ci sono interi quartieri di Londra o Parigi, o piccole cittadine, dove vivono stranieri che non si muovono mai da lì, e che una volta all'anno prendono l'aereo per andare in Sri Lanka, ma grazie alle antenne paraboliche e internet riescono a mantenere un legame fortissimo con i paesi d'origine. Identità che s'irrigidiscono, differenze che non si accettano. Un cumulo di problemi da cui non è facile estrarre una strategia unica e convincente per uscire dall'attuale impasse in cui si trova l'Europa.