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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

28 luglio 2008

Ermanno Olmi: "elogio della pausa"


Intervista di Paolo d'Agostini
"La Repubblica", 28 luglio 2008


Ermanno Olmi (che riceverà a Venezia il Leone alla carriera) elogia, con generosità, il nuovo cinema italiano:
«Gomorra evoca la realtà à e come Roma città aperta chiude e apre un`epoca. Il divo rappresenta la realtà ed è come Fellini che è stato il nostro apice.
Tra le due cose c`è poi la documentazione della realtà. Un po`come quando al Venezia nel `61 ci trovammo insieme io con ll posto (evocazione), Pasolini con Accattone (rappresentazione) e Vittorio De Seta con Banditi a Orgosolo (documentazione).
Sta succedendo di nuovo».
Lei fa l`"elogio della pausa": prendersi il tempo di pensare, guardare, mettersi in ascolto.
«E la questione di cui più mi prendo cura. Ai giovani faccio sempre la stessa raccomandazione: prima di decidere di cosa volete parlare scoprite dentro di voi che cosa vi sta a cuore, sennò si parla giusto per parlare.
Alcuni anni fa scrissi un pezzo facendo l`elogio della lentezza, quella che ci consente di osservare secondo i ritmi della mente umana. Se tu parli veloce io sento che sei superficiale.
Ascolto i telegiornali - il televisore è diventato il caminetto dell`umanità, che invece di bruciare il ciocco profumato brucia la realtà, la consuma e la butta via-e ascolto i politici che parlano tutti a una velocità incomprensibile: ma che cosa state dicendo? Se vanno così di fretta sono i primi a non credere a quello che stanno dicendo. Quel mio articolo venne poi citato da Luca di Montezemolo. Pensi, il presidente della Ferrari».
Il simbolo della velocità.
«Già: ma quell`attimo di velocità quante pause ha prima e dopo, quanto soppesare ogni dettaglio? Del resto (e ridacchia) lo dicono anche le donne: più vai lento e più sono contente».
E lo stesso perla terza età della vita. Considerata non come ripiegamento ma come stagione fertile in cui ritrovare il tempo e l`attenzione.
«Dire che la vecchiaia è come tornare bambini significa ritrovare quella libertà che nell`innocenza infantile era un dato istintivo ma che la consapevolezza della terza età rende ragionato. Appena ti metti in ascolto ti accorgi che questa libertà serve a riudire la vita che hai fatto, riviverla e modificarla. Puoi ridare significato a una vita vissuta in fretta, in cui hai commesso egoismi di cui non andare fiero».
È arrivato un momento in cui la sua influenza è letteralmente esplosa, facendo di lei una specie di guru. Perché?
«Quello che sento di poter dire senza presunzione è che non ho mai cercato di imbrogliare nessuno. La mia soddisfazione è sempre stata porgermi agli altri con lealtà. Alla fine, quando certe distrazioni cominciano a smagliarsi, adesso che non siamo più così incantati dal possedere una motoretta o un frigorifero, smaltita l`euforia, la sera quando torni a casa dopo la sborna comincia riconsiderare tutto e ti accorgi che non è più il banditore della fiera che ti può incantare, ma è come ti ha salutato un amico, come ti è rimasta fedele una donna e come tu sei rimasto fedele a lei. Tutto questo coincide con il tramonto. E forse è il momento in cui coloro cui mi rivolgo mi ritengono degno di un po` di attenzione».
II suo buon senso contrasta con la lingua pubblica della politica. Nessuno però si azzarda a bollarla di qualunquismo. E possibile che stia assumendo un ruolo simile a quello che ebbe Pasolini?
«Lui era più grande di me di una decina d`anni. lo ero calato a Roma nel`53 e ci siamo conosciuti quasi subito tramite Parise. Feci un documentario sulla modernità del petrolchimico di Marghera, convinto che fosse bello e buono perché ci dicevano che avrebbe risolto tanti problemi.
Pasolini invece aveva giàpercepito i rischi. Dov'erano gli intellettuali di corte? Ai pochi che avevano capito li hanno solo sfruttati politicamente e mai ascoltati perciò che avevano intuito, anticipato. Era la classe dirigente ad essere arretrata. E così domandiamoci oggi chi sono i dirigenti, che cosa sanno, e quel poco che sanno perché lo nascondono».
Come ricorda il`68?
«È stato un legittimo sussulto di giovani. Una generazione figlia di quelli tornati dalla guerra. Che nel`68 avrà circa vent`anni. Non si fermano alle elementari o alle medie ma arrivano alla laurea, e si domandano cosa siamo venuti al mondo a fare in una società che tende a rimettere in atto un sistema che la guerra aveva abbattuto. Questi ragazzi mettono in atto una spintonata alla società, la loro ribellione. Che però è stata immediatamente classificata dagli avvoltoi opportunisti. L`errore è stato di fare del `68 un`ideologia. Alcuni si sono rassegnati e altri si sono incazzati. E quanta gente adulta ha avuto le sue pesanti responsabilità. Cattivi padri, cattivi maestri. La cultura ha tradito».
Rigoni Stern invece è stato un buon maestro?
«Anzitutto di se stesso, e così lo è stato per tutti. Non ha mai abbandonato una relazione filiale con la terra che lo ha generato. Parlava di ciò che conosceva. Oggi diciamo tutti "che maestro è stato". E stato. Ma non lo abbiamo riconosciuto quando ancora era».
Perché ha chiesto che sia Celentano a consegnarle il Leone d`oro alla carriera?
«Adriano è un maestro anche lui. Quando facevo Il tempo si è fermato, il mio primo film, avevo bisogno di un pezzo musicale che fosse uno stacco generazionale. Quando mi hanno detto` c`è un matto che va nelle balere di periferia" sono andato a cercarlo e ho capito che era quello che mi serviva per sottolineare la frattura tra il vecchio montanaro e il ragazzino figlio di operai. Fellini, dopo aver visto il film, venne da me e mi disse: da questo momento siamo fratelli. Era l`inizio della mia carriera. Alla fine della mia carriera chi vuoi che ritrovi se non i miei primi amici del cinema? Federico e Adriano».
Dal suo osservatorio del nord-il bergamasco per nascita, Milano per gli annidi lavoro, Asiago dove ha vissuto-che cosa pensa della Lega, del suo radicamento territoriale e sociale?
«La Lega fa leva su un fastidio, un risentimento. Cosa l`ha alimentato? Quando le popolazioni anche del nord vivevano in uno stato quasi miserabile, l`unico che ti poteva salvare era il Padreterno. Tutti giù a pregare. Oggi fa sorridere, ma quel pregare era un modo per darsi un aiuto, come il canto degli schiavi negri. Quella società povera con la trasformazione industriale è diventata una società non sempre ricca ma pervasa da un benessere generale. Che c`è stato, per un momento. Si è sbagliato a fare i conti, a livelli alti della politica e dell`economia. Oggi si è di fronte a un baratro di possibile nuova povertà, avendo oltretutto distrutto la terra. Qual è il risentimento, allora? Tutte queste persone che oggi votano Lega ma nell`infanzia hanno vissuto quella povertà e hanno conosciuto il beneficio di un benessere sia pur fasullo, se lo vedono messo in discussione dal dover dividere la ricchezza con quelli che ricchi ancora non sono. Chi erano i kapò nei campi di concentramento? Gli stessi prigionieri. Quanti contadini sono diventati piccoli imprenditori? La Lega ha sfruttato il loro risentimento. Quando parlano di sicurezza intendono che colui che potrebbe sottrarmi qualcosa va allontanato. Parlano di sicurezza come dei kapò, mettendo il filo spinato».
Guardandosi indietro ritiene che sia stato il cinema la cosa giusta da fare per lei? O la sua vita avrebbe potuto prendere strade diverse?
«Domanda che potrebbe mettermi in una crisi tale da invocare l`eutanasia. Ho avuto l`opportunità di fare cinema, l`ho fatto con gioia, se dovessi tornare indietro, così come risposerei Loredana credo che rifarei cinema. Ma ho avuto un Virgilio: mia nonna. Dava un senso di sicurezza con invenzioni e sacrifici che oggi nemmeno immaginiamo. Lavorava e cantava. Il suo lavoro conteneva la gioia come prima fonte di retribuzione. Certo, tirava a noi nipoti certe zoccolate, e ci beccava pure. Ma aveva ragione, lei aveva l`autorità per farlo. Dobbiamo essere riconoscenti a quelli che sono morti per noi e non giudicarli e condannarli». "Pasolini capì tutto prima di me Il posto La storia di un giovane, figlio di operai del l`hinterland milanese alla ricerca di un posto di lavoro. Bellissima storia minimalista del `61 Centochiodi Un professore di storia delle religioni, Raz Degan, inchioda i libri di una biblioteca al pavimento e va a vivere sulle rive del Po Se tu parli veloce mi accorgo che sei superficiale. Dico ai giovani: parlate di ciò che vi sta a cuore L`errore è stato di fare del`68 un`ideologia.
Cattivi padri, cattivi maestri. La cultura ha tradito Parla il grande regista che riceverà a Venezia il Leone alla carriera"
"Al tramonto della vita mi ascoltano perché non ho mai imbrogliato".

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27 luglio 2008

Cinema

L'uomo del banco dei pegni, regia di Sidney Lumet
Una giornata particolare, regia di Ettore Scola

24 luglio 2008

I nuovi immigranti - 1991


Alexander Langer
Un popolo senza territorio
"Zingari oggi", 1 ottobre 1991


Nell'attuale risveglio etno-nazionale che accompagna le convulsioni dell'Europa post-comunista, si pone molta enfasi sull'identità dei popoli e la loro rivendicazione di sovranità sulla loro terra, la loro storia, il loro futuro. Vi si mescolano splendide riscoperte di dignità a meno rispettabili impostazioni nazionaliste che non di rado portano ad atteggiamenti di esclusione e di presa di distanze verso altri popoli, spesso conviventi sullo stesso territorio, ed a dispute su chi debba esserne considerato legittimo e magari unico padrone. E verso i nuovi immigranti ci si mostra non solo poco ospitali, ma talvolta decisamente ed intenzionalmente repellenti - persino con il ricorso alla violenza.Che dire, allora, degli zingari, popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare ad essere quel popolo sottilmente "altro" e "trascendente", rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi? Un popolo che, un po' come gli ebrei, fa parte della storia e dell'identità europea proprio perchè a differenza di tutti gli altri hanno imparato ad essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno!La distruzione inesorabile di un mondo conviviale, dove è possibile comunicare, scambiare, lavorare, visitare, migrare senza dover ricorrere ai moduli pre-confezionati compatibili con le esigenze dell'industria e dell'amministrazione, ha tolto agli zingari il loro ambiente naturale: non si può togliere l'acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più ad essere agili, gentili ed autosufficienti come una volta.Eppure bisogna che l'Europa con quella sua stragrande maggioranza di "sedentari" accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana, dei rom e dei sinti, e faccia posto ad un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali, militari e computerizzati. Un modo di vivere che indica non solo un passato ricco di tradizione, di dignità e di sofferenza, ma anche una possibile modalità di convivenza tra migranti e residenti, e forse un'esistenza capace di affidare la propria identità e continuità non al possesso (di immobili, carte di credito e diplomi), ma solo alla solidarietà della comunità.



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23 luglio 2008

Legittimità e Legalità

Gustavo Zagrebelsky
La Costituzione ai tempi della democrazia autoritaria
"La Repubblica", 22 luglio 2008
La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz´anima. La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l´incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l´anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un´altra. Contro l´anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos´è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un´epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L´ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l´indifferenza e, dove occorre, l´ostilità per "l´altrui". In termini morali, quest´atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni. Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt´altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d´ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l´appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un´impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L´indigenza si diffonde? Istituiamo l´elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l´unilateralità è la premessa dell´ingiustizia, della discriminazione, dell´altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza. Ma questa è anche un´epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L´esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l´una verso l´altra; l´Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l´interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell´amico, secondo la legge dell´affiliazione. Sul piano morale, quest´atteggiamento valorizza come virtù l´appartenenza e l´affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l´art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l´utilità comune. Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all´economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un´autorizzazione in bianco alla consumazione nell´immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l´avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell´azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d´affari a rendita immediata.
Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l´intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d´altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c´è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente. Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l´universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l´indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall´altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d´investitura, all´antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia. La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all´epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate dall´opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l´aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale. La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c´è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch´essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l´espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s´è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.
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22 luglio 2008

Il futuro dell'Italia è nel Sapere, nel Passato, nella Bellezza


Ernesto Galli della Loggia
La cultura come risorsa
"Corriere della sera", 22 luglio 2008

Servono a qualcosa, al governo Berlusconi, i ministeri dell'Istruzione e della Cultura? La domanda non è paradossale. Vuol significare semplicemente questo: retorica a parte, la destra italiana pensa di avere in quei ministeri, in quegli ambiti, un particolare, specifico, interesse politico o no? Pensa cioè che al suo programma e alla sua identità l'Istruzione e la Cultura possano contribuire in qualche modo o no? Ancora: ritiene la destra italiana che Istruzione e Cultura abbiano un qualche rilievo strategico nel futuro del Paese oppure no?
È difficile dare una risposta. So però perché ha senso porsi queste domande. Il motivo è che l'Italia di oggi appare un Paese inerte. Il fatto che da quindici anni, come scriveva domenica Francesco Giavazzi, non cresca il reddito reale medio è in certo senso solo la conseguenza ultima di qualcosa di più profondo. L'inerzia italiana non è nella sostanza economica. È piuttosto il venir meno di un'energia interiore, il perdersi del senso e delle ragioni del nostro stare insieme come Paese, delle speranze che dovrebbero tenere legato il primo alle seconde. È un lento ripiegare su noi stessi, un'incertezza che ci ha fatto deporre progressivamente ogni ambizione, ogni progetto. È l'invecchiamento di una popolazione che da anni non cresce; la consapevolezza deprimente che da anni siamo fermi, non facciamo, non creiamo, non costruiamo nulla d'importante, così come non risolviamo nessuno dei problemi che ci affliggono. È la sensazione che il Paese non ha più né un baricentro né una meta. Ed è la sensazione che nel frattempo le differenze sociali, culturali e quindi geografiche tra le varie parti della penisola si stanno approfondendo; che tutti i legami vanno allentandosi: tra le persone come all'interno delle famiglie e con le istituzioni. È la percezione impalpabile che ci stiamo allontanando pian piano dal centro della corrente: come se la storia contrastata ma viva, fertile e felice, della Prima Repubblica fosse giunta al capolinea, e non riuscisse a cominciarne nessun'altra.
A un Paese così è necessaria una scossa. L'Italia ha oggi bisogno di riprendere il filo della sua vicenda in quanto nazione, di riscoprire il senso e le molte vocazioni della sua identità, di riacquistare in questo modo fiducia in se stessa. In teoria non si potrebbe immaginare un compito più alto e più tipicamente proprio della politica. Peccato però che la destra non sembri avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Il «rialzati Italia » della sua campagna elettorale, infatti, non è mai uscito da una dimensione per così dire economicistica, nella sostanza non è mai stato altro che un'arma polemica contro la linea Visco-Padoa-Schioppa. Finora, insomma, e fatta salva l'adesione più o meno formale ad alcuni punti della morale cattolica e ad un generico patriottismo, la destra di governo ha mostrato una singolare timidezza/ indifferenza a muoversi sul terreno delle questioni ideali, dei valori individuali e collettivi, delle prospettive storico-identitarie. Finora essa non ha mai voluto parlare al Paese parlando del Paese.
Ma stare al governo può far capire molte cose. Può far capire per esempio che proprio il momento straordinario che stiamo vivendo e le necessità che esso pone sono fatti apposta per attribuire all'Istruzione e alla Cultura (che poi vuol dire inevitabilmente ai due rispettivi ministeri) un grande compito politico: non certo quello di stabilire nuove, impossibili egemonie alternative alla sinistra, bensì quello appunto di rianimare il Paese tutto, di aiutarlo a riannodare il filo della sua storia, e dunque a ritrovare senso e identità, alla fine fiducia in se stesso. Istruzione e Cultura, infatti, hanno a che fare nella loro essenza con il Sapere, il Passato e la Bellezza, cioè con il cuore dell'identità italiana. Sapere, Passato e Bellezza rappresentano le tre grandi prospettive che da sempre caratterizzano e per più versi racchiudono l'intera nostra vicenda, le tre prospettive che da secoli sono valse a mantenere questa piccola penisola mediterranea al centro dell'attenzione del mondo, portando il nome italiano oltre ogni confine. Sappiamo bene l'uso insopportabilmente retorico che tante volte di quelle tre parole si è fatto, ma ciò non toglie che è proprio da esse che possiamo, e in certo senso dobbiamo, ripartire.
L'Italia esiste, infatti, ha una compattezza identitaria e civile che adeguatamente sollecitata è capace di diventare lavoro, impegno, industriosità, fantasia di costruzioni istituzionali e sociali, solo in forza del legame che riesce a mantenere con quel cuore della sua storia. Ciò che la tiene insieme e la sua anima sono lì: nel Sapere, nel Passato, nella Bellezza. Il conoscere, il portare a sé il mondo e ripensarlo dentro di sé, che ha rappresentato lo strumento costante della multiforme crescita delle nostre collettività; e poi il rapporto con l'Antichità, con le origini classiche e cristiane, che continua ad essere per noi non solo fonte di un prestigio planetario ma anche motivo non estinguibile di autoriconoscimento, di una pietas del Ricordare e del Custodire in cui si riassume un tratto universale di civiltà; e infine la singolare vocazione italiana all'invenzione e all'armonia delle forme che, a partire dal paesaggio e dai mille modi della quotidianità, si è riversata poi in una vicenda artistica immensa: quanto ci piacerebbe che i nostri ministri dell'Istruzione e della Cultura ricordassero al Paese queste cose! Quanto ci piacerebbe che se ne ricordassero essi per primi quando si tratta di organizzare la scuola, l'università, i musei, la tutela del nostro patrimonio culturale, superando i mille inciampi burocratici di ogni giorno! Quanto ci piacerebbe, soprattutto, che essi riuscissero a parlare al Paese per l'appunto mettendo il Sapere, il Passato e la Bellezza al centro di un alto discorso politico rivolto al futuro della collettività nazionale! Forse essi non sospettano neppure l'ascolto che potrebbero ottenere. Forse la politica, questa triste generazione politica a cui è toccato in sorte di governare l'Italia disanimata attuale, neppure immagina le energie che essa potrebbe suscitare solo che sapesse trovare le parole, le immagini e le idee giuste! Una cosa è certa: chi in un modo o nell'altro vive negli ambiti istituzionalmente affidati all'Istruzione e alla Cultura non ne può più di doversi regolarmente presentare con il cappello in mano al ministro del Tesoro di turno, di essere sempre costretto a disquisire di «tagli », di organici, di soldi. Vorremmo una buona volta poter parlare, e sentir parlare, d'altro. Del nostro Paese, per l'appunto: del suo e del nostro avvenire.
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Quanto lavorano i professori universitari?

Alcuni quotidiani nazionali stanno pubblicando articoli a tutta pagina con ampio uso dell'infografica per "denunciare" all'opinione pubblica quello che accade nei nostri Atenei. Alcune "inchieste" arrivano con anni di ritardo, ma i dati diffusi in questi giorni non corrispondono alla realtà. Ieri "calcolatrice alla mano" si dimostrava che nell'Università pubblica italiana i professori lavorano tre ore e trentanove minuti al giorno per 5 giorni alla settimana .. tutto compreso: lezioni, commissioni di esami, sedute di laurea, consigli vari, ricevimento studenti, tesi, attività di e-learning, ricerca, ecc. Si precisava anche che dividendo per 365 giorni le ore diventano 29 al mese, vale a dire meno di un'ora al giorno che sicuramente rende meglio l'idea. Questo è un sicuro esempio di giornalismo non riflessivo, un giornalismo che tende allo scandalo senza neppure sapere che cosa sia la ricerca, senza neppure sapere come funzioni una Facoltà universitaria. E' un giornalismo che non indaga per capire e far capire E' un giornalismo che travolge ogni possibile comprensione.
Le notizie diffuse in questi giorni, che sicuramente saranno amplificate nei prossimi giorni, meritano alcune considerazioni.
In via prioritaria si dovrebbe spiegare all'opinione pubblica chi siano i professori universitari, quale attività veramente svolgono, con quali modalità, che cosa vuol dire fare ricerca? che cosa vuol dire organizzare e gestire un seminario, che cosa vuol dire seguire una tesi di laurea? quanto tempo di lavoro richiede la ricerca, quanto tempo richiede la preparazione di una lezione che durerà circa 2 ore? quanto tempo richiede la correzione di una tesi di laurea, ecc. Perché è utile investire risorse nella ricerca? Perché è utile investire nella formazione universitaria? Perché lo Stato deve investire nella ricerca, anche quella umanistica? Perché lo Stato deve investire risorse per la formazione universitaria? Possiamo ottenere di più dal mondo accademico? Possiamo offrire di più a chi frequenta l'Università? possiamo migliorare la qualità dei nostri docenti per migliorare la qualità della nostra ricerca e dei nostri laureati?
L'Università è prima di tutto una comunità ed ogni comunità umana è fatta di sfumature più o meno evidenti: in ogni Università ci sono docenti (anche di chiara fama) che neppure i colleghi vedono mai, ci sono docenti che danno il minimo con il minimo sforzo, ci sono docenti che esplicano i loro talenti in modi diversi. Chi scrive furiosamente, chi partecipa ad ogni convegno possibile forse non è troppo presente nelle aule o nelle stanze dei dipartimenti, alle volte proprio per questa attività di ricerca o di relazioni pubbliche consegna visibilità ed autorevolezza alla propria Facoltà e al proprio Ateneo. Ci sono quelli che si chiudono da mattina a sera in laboratorio o in archivio, non partecipano troppo a Consigli e consiglietti ma "producono" scienza, scrivono libri che meritano di essere meditati, studiati e tradotti, ecc..
Ci sono soprattutto quelli che amo definire gli "artigiani" dell'Università che con sicura passione coniugano ricerca e attività didattica cercando di comunicare competenze e valori. Gli "artigiani" sono quelli che sono sempre lì, quelli che ritengono di poter condividere con gli studenti e con i laureandi un tratto di strada, per insegnare un metodo di lavoro ed uno stile di vita. Gli "artigiani" sono quelli che non hanno mai pensato di misurare il tempo da dedicare alla didattica, quello per la ricerca o quello per tutte le attività di contorno che crescono in misura esponenziale. Gli "artigiani" sono quelli che confondono il tempo del lavoro con il tempo libero, quelli che non hanno orari perché non esiste l'interruttore on/off per disattivare il ragionamento, quelli che entrano in una libreria di domenica e lì inconsapevolmente "lavorano" per il saggio che stanno scrivendo o per la tesi che potranno assegnare, quelli che vedono un film e capiscono che proprio in quelle due ore di "tempo libero" hanno trovato la traccia per la lezione del giorno dopo, coloro che quando sono in vacanza non resistono alla tentazione di entrare in quella particolare biblioteca o in quel museo perché sanno che anche in quel tempo libero al di fuori del dipartimento trovano linfa per le loro ricerche o per le tesi dei laureandi che seguono. Gli "artigiani" sono quelli decidono di dedicare tempo e attenzione ad attività "che non competono" come la riorganizzare dell'intera biblioteca del proprio istituto con vero lavoro di manovalanza, lavoro sicuramente utile per la comunità scientifica di cui fai parte.
"Artigiani" sono i dottori di ricerca, gli assegnisti, i borsisti che investono tutto nella ricerca e nella didattica, da sempre precari, spesso senza alcun tipo di retribuzione eppur così necessari per il funzionamento delle strutture in cui sono inseriti, per anni in attesa di un varco per accedere ad un ruolo più stabile.
Questi "artigiani" non meritano di essere esposti al disprezzo dell'opinione pubblica da chi spara titoli come se avesse il mitra puntato contro la folla indistinta dei professori, come in altri giorni lo ha puntato contro la folla degli statali, dei medici, dei giudici, per non parlare degli "assalti" agli immigrati e ai rom ecc..

18 luglio 2008

Per il bene civico


Gianfranco Ravasi
E Paolo disse: «Pagate le tasse!»
"Avvenire”, 18 luglio 2008
Paolo non è un teorico puro; an­che in una Lettera così densa­mente teologica com’è quella ai Romani egli lascia spazio nei ca­pitoli 12-16 alla morale, alla prassi pastorale e alle relazioni ecclesiali, nella convinzione che il vero 'culto logico' ( loghikè latreia), cioè com­piuto nello spirito profondo dell’uo­mo, sia 1’«offrire i nostri corpi come sacrificio vivo, santo, caro a Dio» (Rm 12,1). Detto in altri termini, il vero culto cristiano è quello di presenta­re al Signore un’offerta esistenziale, ossia la propria vita. L’amore-agape, celebrato in 1 Cor 13, è ora ripropo­sto con intensità come «pienezza della legge» (Rm 13,10). Noi, però, vorremmo scegliere nelle pagine del­la Lettera ai Romani un paragrafo a prima vista un po’ stridente con la nostra sensibilità, quello del rap­porto con il potere civile. Paolo rive­la un lealismo sorprendente nei con­fronti dell’impero romano, lealismo ribadito anche in altri passi dell’epi­stolario (1 Tm 2,1-2; Tt 3,1-2; cfr. 1 Pt 2,13-17), in dissonanza con la dura polemica dell’Apocalisse. È proba­bile che questa scelta facesse parte di una strategia 'politica', seguita anche da Luca negli Atti degli Apostoli, secondo la quale si cercava di impedire che si confon­desse la Chiesa con uno dei vari mo­vimenti eversivi antiromani d’O­riente (si pensi agli zeloti ebrei di Pa­lestina o all’editto del 49 con cui l’im­peratore Claudio espelleva da Roma molti Ebrei come indesiderati). Il passo in questione è Romani 13,1­7 ed è aperto da una dichiarazione di principio: «Ogni persona sia sot­tomessa alle autorità costituite» (Rm 13,1). Seguono due motivazioni. La prima è teologica e riflette l’antica concezione biblica secondo la qua­le «non c’è autorità se non sotto Dio e quelle che esistono sono state sta­bilite da Dio», che è il Signore della storia. Opporsi ad esse è, allora, op­porsi a un piano divino tracciato nel­la vicenda umana (Rm 13,1-2). La se­conda motivazione è di taglio più pratico: l’autorità è deputata al be­ne comune, osservarne le norme si­gnifica assicurare alla società sere­nità, violarle comporta la punizione «perché non invano essa regge la spada» (Rm 13,3-4). La conclusione è scontata: «È necessario stare sot­tomessi, non solo per timore della sua collera ma anche per ragione di coscienza» (Rm 13,5). A questo pun­to Paolo allega una nota sulla que­stione fiscale: «Per questo, allora, do­vete pagare le tasse, perché coloro che compiono questa funzione so­no ministri [ leitourgoì] di Dio» (Rm 13,6). Certo, il discorso risente del tempo, del contesto socio-culturale, delle fi­nalità immediate che l’Apostolo si propone, dell’ottimismo con cui si vede l’impero romano come tutore anche del cristianesimo, in opposi­zione al giudaismo considerato co­me ostile e vessatorio. È, quindi, ne­cessaria una corretta interpretazio­ne; essa ci permetterà di riprendere il discorso sul rapporto tra fede e po­litica già sviluppato da Gesù con il gesto simbolico della moneta di Ce­sare (Mt 22,15-22). Sicuro è che Pao­lo come già Cristo non vuole qui of­frire un trattato di morale socio-po­litica ma tracciare solo una linea di condotta alla Chiesa del I secolo in­serita nella struttura imperiale ro­mana. Tuttavia alcune considera­zioni di ordine generale possono es­sere dedotte anche da un brano 'da­tato' com’è questo. L’uso da parte di Paolo del linguag­gio giuridico profano, l’angolo di vi- suale 'dal basso' per i rapporti con lo Stato (cioè la morale del cittadino più che quella del politico, come si ha invece in un documento giudai­co contemporaneo, la cosiddetta Lettera di Aristea), la concretezza de­gli impegni richiesti vogliono coin­volgere il cristiano nella realtà della vita civica. In tal modo, come ha fat­to notare il teologo Ernst Käsemann, Paolo intende forse opporsi all’esal­tazione eccitata di quei cristiani che, per una falsa emancipazione spiri­tualistica, si ritenevano già cittadini del Regno dei cieli e quindi rifiuta­vano ogni impegno all’interno delle strutture istituzionali storiche (più o meno come si comportano oggi cer­ti gruppi o sette o movimenti apo­calittici). Il cristiano, invece, deve partecipare con realismo alla vita so­ciale e politica senza fughe in verti­cale e senza decollare verso cieli mi­tici o mistici. Un’ulteriore osservazione di tipo 'contestuale' ci condurrebbe a un altro dato interessante. In queste ri­ghe l’Apostolo, opponendosi all’o­rientamento della letteratura apo­calittica, ricusa ogni concezione so­lo demoniaca del potere. Esso, cer­to, comporta rischi gravi di degene­razione, può divenire idolatrico, co­me accadeva nel culto imperiale o nell’assolutizzazione della ragion di stato, ma può anche partecipare al progetto di Dio sulla storia quando si impegna per il bene comune. Il cri­stiano dev’essere, dunque, disponi­bile, con genuino spirito di collabo­razione nei confronti di tutto ciò che l’autorità statale anche atea/paga­na (si ricordi che, quando Paolo scri­veva, imperatore a Roma era Nero­ne) esige per il bene civico. Un ca­pitolo speciale e importante è, al ri­guardo, quello delle tasse. L’evasio­ne fiscale è chiaramente bollata da Paolo: «Rendete a ciascuno il dovu­to: a chi il tributo il tributo, a chi le tasse le tasse...» (Rm 13,7). Ma vorremmo aggiungere un’altra considerazione. Per l’Apostolo il rap­porto con lo Stato non è solo una questione giuridica estrinseca, è an­che un problema di coscienza e, co­me tale, tocca la morale cristiana. Il civismo, la correttezza fiscale, i do­veri sociali sono altrettanti capitoli dell’impegno etico del credente. An­zi, come è stato notato da Ulrich Wilckens in un suo saggio sul brano paolino, la trascrizione 'attualizza­ta' e aggiornata degli impegni pro­posti in questo paragrafo secondo la sensibilità moderna comportereb­be maggiori esigenze rispetto all’an­tico contesto: supporrebbe, infatti, partecipazione responsabile, coo­perazione sociale, attenzione criti­ca, solidarietà e uno spiccato senso democratico e civico. Siamo, perciò, davanti a un testo che non dev’es­sere, certo, assunto in modo fonda­mentalistico come avallo sacrale del potere. Esso è aperto a nuove incar­nazioni secondo le moderne istan­ze del diritto, della politica sociale, della giustizia, dell’obiezione di co­scienza e così via. Una pagina da trascrivere, dunque, partendo, però, dalla convinzione che il rapporto del credente con lo Stato è anche una questione auten­ticamente cristiana.
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Il senso della qualità

«Si mira in tutto ciò a una riscoperta del senso della qualità, a un ordine fondato sulla qualità. La qualità è il più potente nemico di di ogni forma di massificazione. Socialmente ciò comporta la rinuncia alla rincorsa a una posizione, l'abbandono di ogni culto di dive e divi, uno sguardo imparziale dall'alto in basso, soprattutto quando si tratta della scelta della cerchia degli amici più stretti, della felicità della vita privata, nonché il coraggio di dedicarsi alla vita pubblica. Culturalmente il senso della qualità comporta l'allontanamento dai giornali e dalla radio e il ritorno al libro, il passaggio dalla fretta ai momenti di tranquillità e di silenzio, dalla distrazione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dall'ideale del virtuosismo all'arte, dallo snobismo alla modestia, dalla mancanza di misura al senso della misura.»
Dietrich Bonhoeffer
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16 luglio 2008

Eluana

Adriano Sofri
La legge e l’amore
"La Repubblica," 16 luglio 2008


Nemmeno il signor Beppino Englaro, quando si è augurato che la vicenda di Eluana tornasse a essere un dolore privato, e ha auspicato il silenzio, poteva illudersi di ottenerlo. Intanto perché il chiasso è più forte di qualunque dolore e di qualunque rispetto, e il chiasso segna i nostri giorni, come quei televisori lasciati sempre accesi, anche durante le conversazioni fra amici, anche durante le cene di famiglia. C’è però anche un’angoscia vera, attorno a questa vicissitudine, voci che vogliono farsi sentire e che meritano di essere ascoltate. Ma soverchia tutto la smisuratezza di un confronto che vede da una parte l’intera gerarchia della Chiesa cattolica, che fa della paternità universale la propria prerogativa, e dall’altra un singolo padre, che parla a proprio nome, e anzi a nome della propria figlia. Non, si badi, "dell’umanità". Il signor Englaro sa che ci sono persone comuni e scienziati - la loro autorità al riguardo è in fin dei conti equivalente - che dubitano che lo "stato vegetativo persistente" sia irreversibile, che aspettano nonostante tutto un ritorno, che comunque pensano che anche quello stato vegetativo sia una vita personale degna d’esser vissuta. La sua non è una posizione scientista contro una posizione fideista, o la sfida fra una convinzione scientifica e un’altra, o il pessimismo di un non credente contro la scommessa del credente. Beppino Englaro pensa fermamente, ha avuto già sedici anni per pensarci, ogni giorno e ogni notte, che quella non sia vita per la sua Eluana, che non la riterrebbe vita per sé. Pensa che sua figlia l’avesse respinta dal proprio orizzonte, e si fosse affidata all’amore dei suoi per esserne, quando una simile disgrazia l’avesse colpita, liberata.
In questi giorni sono state raccontate, in contrappunto con la storia di Eluana, tante altre storie di figlie e figli in una condizione simile, assistiti dai loro famigliari e da persone di buona volontà con una dedizione eroica, compensata dall’amore che, "nonostante tutto”, nonostante l’assenza di ogni segno di riconoscimento e di comunicazione, ne ricevono in cambio. Ammiro senza riserve quella cura e i luoghi in cui ci si impegna a renderla più condivisa e ad alleviare l’immane stento di un’assistenza privata e solitaria: è così nella bolognese "Casa dei risvegli", sorta in memoria di Luca De Nigris, morto quindicenne dopo un coma di alcuni mesi. Mi onoro di sentirmi uno degli "Amici di Luca" che nutrono quell’esperienza. Ma, a differenza di quelle eccellenti persone, non penso che la loro scelta possa valere per chiunque, e che debba valere per il signor Englaro, né per la legge dello Stato. Così, la Chiesa ha la sua indefettibile verità. La Chiesa rifiuta di ridurre la propria verità alla storia o alla natura. Dunque l’argomento che il signor Englaro, uomo solo, le oppone intrepidamente - "Non si tratta della consumazione di una vita, ma di fare in modo che la natura riprenda il suo corso che è stato interrotto" suonerà invalido al cardinal Bagnasco, per il quale la natura è subordinata, salvo che diventi un sinonimo della legge divina. Ma sta di fatto che se oggi la medicina ha saputo prolungare un’esistenza cui "la natura" avrebbe ancora poco fa posto irrimediabilmente fine, la dignità di questa esistenza non è definibile in modo assoluto, se non, vorrei dire, attraverso l’amore. E l’amore di una madre o un padre che devolvano intera la propria vita alla cura di un figlio, anche quando non sia offerta loro alcuna speranza se non il miracolo, non è né maggiore né minore di quello di una madre e un padre che vogliano liberare un corpo disertato dalla vita, compiendo così la volontà della propria figlia. Sono semplicemente incomparabili. Guai se la legge pretendesse, "erga omnes", di obbligare a una sospensione delle cure; guai se pretendesse di imporne la prosecuzione a oltranza. Nel caso di Terri Schiavo, ci fu un penosissimo conflitto fra il marito della giovane e i genitori e il fratello. Di fronte al desiderio accorato della sua famiglia d’origine, anche a chi ritenesse ragionevolmente infondata la loro speranza e illusoria l’impressione di una sua infima capacità di reazione, la decisione di lasciarla morire sembrò crudele: per loro, se non per lei. Ma lì erano sua madre, suo padre, suo fratello. Che i signori Englaro debbano "lasciare", come si è chiesto in questi giorni incandescenti, il corpo della propria figlia alle brave suore miserendine, è davvero un chiedere troppo.
Che non si tratti, per Eluana, di "staccare la spina", ma di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali, non è affatto una vera differenza, se non per far evocare il raccapriccio di un’agonia per fame e per sete. Ma è a questo che la medicina può e deve dare rimedio. Non è meno raccapricciante, una volta che contro un accanimento terapeutico si interrompa la ventilazione, una morte fra i gorgogli e gli spasimi dell’asfissia: si potranno deporre, sul sagrato di un Duomo, sacchetti di ossigeno. Aria. Le bottiglie d’acqua depositate simbolicamente davanti al Duomo di Milano - e non importa che siano poche o molte, anzi - sono soprattutto un segno di partecipazione e di amore per la vita. Ma nessuna distinzione fra credenti e no basta a definire la fine di Eluana come un’eutanasia, o ad assimilare la sua condizione a quella di una vita disabile. Del Dio dei credenti, Padre o Madre, Figlio o Figlia, non è detto da che parte starebbe in questa tragedia. Quanto a noi fratelli umani, la differenza mi sembra questa. Che alcuni di noi dicono: "Con tutto il rispetto per Beppino Englaro, stiamo dalla parte della Chiesa". Altri di noi dicono: "Con tutto il rispetto per la Chiesa, stiamo dalla parte di Beppino Englaro".
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Eluana

Sergio Talamo
Scelta d'amore che reclama pietà e rispetto
"Il Messaggero", 16 luglio 2008
Di fronte a una vita da 16 anni appesa ad una macchina, ad una vita che si è deciso di spegnere, di fronte alla vita di una persona che non può parlare, si ha il dovere di sussurrare, perché ogni parola gridata può infrangere la pietà. Per questo è eccessivo, quasi insopportabile, il vigore polemico dei due “partiti” che si sono formati sul caso di Eluana Englaro. Da una parte c’è chi fa sventolare la bandiera della libertà, dell’autodeterminazione, della vittoria dell’uomo sul dogma. Dall’altro c’è chi chiama i giudici che hanno deciso su Eluana “i nuovi dei”, chi parla di pretesto per legalizzare l’eutanasia, di relativismo etico, di deriva morale inarrestabile.
Il fatto è che davanti ad una telecamera, o in un salotto con un Montenegro in mano, le parole scorrono che è un piacere: vita, morte, sacralità, dignità; «dobbiamo porre un argine», «l’eugenetica e i nazisti», «il diritto e la libertà»...Poi ci sono Eluana e suo padre. Eluana non è un militante di una parte né un simbolo di nulla. È una ragazza come tante che un giorno del 1992 ha avuto un incidente e da allora è ferma su di un letto senza alcuna speranza di risvegliarsi.
Suo padre, da allora, è come un innamorato che la veglia e l’accompagna senza tregua nel suo viaggio. Suo padre è l’uomo che oggi, non a caso, dopo la decisione della Corte d’Appello di Milano non grida e neppure parla. Sussurra: «Dite che ho vinto? Io ho vinto solo l’inferno». E cerca come può di sfuggire il palcoscenico: l’inferno non si espone, non si festeggia. L’inferno si sconta e basta.Come un qualunque innamorato, il padre di Eluana vuole solo la felicità della sua amata. E lei, prima dell’incidente, glielo aveva detto qual’era la sua felicità: lei che aveva 21 anni e in testa solo idee di vita, gli aveva detto «preferisco la morte piuttosto che sopravvivere come un vegetale».
Ci sono persone che non farebbero mai la scelta dei coniugi Englaro, che preferirebbero stare mille anni ad asciugare il sudore sulla fronte del loro parente, del loro amico, del loro amore, aspettando il giorno del miracolo, il giorno del risveglio. Anche queste persone, questi padri e questi figli, questi mariti e queste mogli andrebbero compresi e rispettati, senza trattarli come torturatori o sognatori che non sanno accettare la realtà. Finché non esisterà il testamento biologico che da sempre chiedono Umberto Veronesi e pochi altri ostinati e coraggiosi, bisognerà fidarsi di ciò che i sopravvissuti dicono di aver sentito da chi non può più parlare; bisognerà affidarsi alla impropria pronuncia di un giudice; e bisognerà comunque rispettare il dolore sincero, la straziante scelta di chi vede ogni giorno, per anni, lo strazio di chi ama.
Vengono in mente le parole di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare progressiva, inchiodato ad un letto senza poter più muoversi né parlare se non con il computer. Welby scrisse al presidente Napolitano il suo amore per la vita: «Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso, e morire mi fa orrore; purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita». Era vero? Era giusto? Non si può dire in astratto. Morire era la sua scelta, il suo modo di restare uomo, il suo ultimo atto d’amore per l’essere vivo.
Non è una questione di dottrina, cioè di stabilire quanto sia rigido in certi casi il diritto dello Stato o il diritto della Chiesa. È una questione più grande, che riguarda il rapporto fra la vita, la fede e la fragilità umana. In quest’epoca il Cristianesimo è una corda appesa al cielo, per un uomo sempre più solo e smarrito. E allora è bello pensare che oggi Gesù, che non è piccolo come noi e quindi ha braccia senza confini che si piegano sull’ultimo degli uomini, oggi Gesù carezzi il volto di Eluana, e anche quello di suo padre e di sua madre. E, se stanno sbagliando, li perdoni.
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14 luglio 2008

Eluana



Guido Ceronetti
Eluana
“La Stampa”, 14 luglio 2008
Sedici anni di trionfo scientifico: il coma protratto, l’alimentazione forzata, la coscienza sommersa - ma fino a che punto, e se davvero totalmente, chi può saperlo? - e c’è voluto un tribunale misericordioso per liberare quella sventurata ragazza Eluana da una così spietata galera. Ma sarà inevitabile il colpo di grazia clinico per scamparla da una pena ulteriore, piccola martire: la macchina che ci abbandona, come un arto amputato non lascia mai del tutto la presa, e in quel funesto vuoto subentrerebbero sintomi di lunga agonia... Che cosa stanno facendo degli esseri umani? Che cosa stiamo facendo agli esseri umani?E a questo punto, immancabile, si mette in moto l’ammonizione vaticana. Colpe gravi: eutanasia, omicidio, soppressione di una vita... E qui, come sempre, le vie della semplice umanità e quelle della sofistica disumanità paludata di religioso (e perfino di conformità ai decreti divini) conoscono soltanto la Divergenza. Fai bene, padre carnale (non celeste, non Padre Santo) a dar retta alla voce imperiosamente muta di tua figlia, graziata finalmente da giudici compassionevoli, e a rigettare quell’altra, che in nome di una non-vita tecnologica di quel poco di materia assopita che resta di lei, ammonisce, si agita, ricatta moralmente, gelandoci il sangue da luoghi inferi e anticristici.(La stessa voce che aveva negato all’ancor più infelice Welby la gentilezza estrema di un richiesto funerale in chiesa - memorabile infamia). L’eterno contrasto tra la superiore legge della pietà di Antigone e il decreto arrogante e cieco di Creonte. Pace a te, povera bambina addormentata, un fiore alle tue tempie.
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13 luglio 2008

1938 - Censimenti - 2008

Alberto Burgio
Gli ebrei ieri, i rom oggi
"Il Manifesto", 12 luglio 2008

70 anni fa le leggi discriminatorie del regime fascista, oggi il «censimento» degli zingari del governo Berlusconi. Perché gli italiani si riscoprono razzisti
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Un incidente di percorso, uno scherzo del destino. Al più, un'incauta concessione all'alleato tedesco. Questo sono tuttora le leggi razziste promulgate settant'anni fa dallo Stato italiano nella imperturbabile coscienza di noi italiani, per natura «brava gente». Dovrebbero venire qui da tutto il mondo a studiare questo caso di riuscitissima autoassoluzione generale. Questo miracolo di rimozione collettiva. Nulla appare più infondato della tesi che afferma l'estraneità del razzismo alla storia nazionale. È vero il contrario. Le leggi antiebraiche volute da Mussolini rientrano a pieno titolo nella storia patria, al pari del fascismo, variante italica della «rivoluzione conservatrice». Il regime le promulgò, nel tripudio di folle acclamanti, poco dopo aver divulgato il Manifesto della razza e all'indomani di un «censimento» degli ebrei propedeutico alla persecuzione. Giustamente la storiografia si chiede perché proprio allora, e si divide. Ma è bene chiarire che il razzismo (non solo antisemita) è consustanziale al fascismo, è una sua espressione spontanea e necessaria. Dominio e gerarchia; esclusione dell'«altro» e subordinazione degli «inferiori»: sono queste le basi ideologiche del fascismo. Il che, tradotto in pratica, significa: nazionalismo aggressivo e imperialismo verso l'esterno; eugenetica, mixofobia e maschilismo all'interno. Del resto, le leggi del '38 non furono le prime norme razziste del regime. Due anni prima erano stati varati i regolamenti contro la naturalizzazione dei «meticci»; nel '37, le leggi contro il «madamato». Ma già negli anni Venti il regime compie un giro di vite contro «devianza» e marginalità, percepite come eversive e distoniche rispetto alla nazionalizzazione delle masse. A sua volta il razzismo fascista non nasce dal nulla. In tutta Europa il razzismo è un corollario della modernizzazione. Patologico ma non accidentale. Regressivo ma non residuale. La stilizzazione della delinquenza e dell'alterità (follia, alcolismo, prostituzione, brigantaggio, accattonaggio, nomadismo, omosessualità) è cruciale nella costruzione delle tradizioni. Da questo punto di vista lo straniero, il diverso, l'ebreo, il negro, lo zingaro - e, da noi, il meridionale - sono eroi della modernità. Lo sono anche le donne, nella misura in cui il maschio ariano è il paradigma della perfezione, rispetto al quale ogni condizione è definita per carenza. Non c'è normalità senza «devianza» (che il nazismo chiama «asocialità»). E tutte le figure razzizzate sono parti di uno stesso insieme, come intuì il Bassani de Gli occhiali d'oro, dove il vecchio Fadigati, medico «pederasta», rivela al giovane «israelita» che la loro situazione è in fondo la medesima: in quanto «diversi» sono entrambi segmenti del confine, in pari misura utili alla definizione della norma, quindi uguali nella comune alterità. Per questo la modernizzazione alimenta l'antisemitismo. L'ebreo è l'«altro» per antonomasia: quando si assimila perché si infiltra; quando preserva le proprie tradizioni perché rompe l'omogeneità del corpo collettivo. L'Italia non fa eccezione in tutto questo. Anzi, è un contesto ideale, grazie alla robusta eredità dell'antigiudaismo medievale, che risuona nelle crociate antisemite della Civiltà cattolica e di padre Gemelli. Non stupisce quindi lo zelo persecutorio della burocrazia alle prese con le leggi del '38. Né l'assenza di manifestazioni di dissenso da parte della nostra «brava gente». Tutt'altro. Si capisce bene la caccia ai ruoli lasciati dagli ebrei nelle istituzioni, a cominciare dall'Università. Dove tanti «insigni studiosi» si distinsero in una gara che illustrò l'accademia italiana. L'offensiva razzista del fascismo coinvolse anche gli «zingari», «eterni randagi privi di senso morale» frutto di «mutazioni regressive». Si invocarono misure che in Germania avrebbero condotto allo sterminio di mezzo milione di Zigeuner. Finché nel settembre del '40 il capo della polizia Bocchini ne dispose la deportazione nei campi di concentramento di Teramo, Campobasso e Perdasdefogu.
Veniamo a noi. Se tenessimo presente questo quadro rinunciando alla favola della nostra refrattarietà al razzismo, avremmo qualche strumento in più per capire quanto avviene ai nostri giorni e, forse, per correre ai ripari. Il nostro disorientamento nasce dalla rimozione, che a sua volta innesca un contrappasso: il passato persiste tanto più tenace (e genera coazioni a ripetere) a misura della sua mancata elaborazione. Pesa, sullo sfondo, l'incompiuta defascistizzazione, la scelta di non fare una nostra Norimberga e di tenere ben sigillati gli «armadi della vergogna». Per cui l'omaggio alle vittime della Shoah dev'essere prontamente compensato da un «ricordo» delle foibe costruito sulla negazione delle atrocità commesse dai fascisti sul confine orientale e in Jugoslavia. Ha indubbiamente ragione il presidente della Camera quando sostiene che la sua elezione sancisce la «piena legittimazione della cultura della destra». Ma ha ragione anche Moni Ovadia nell'osservare che se l'attivismo razzista di Maroni fosse espresso da un ministro tedesco, in Germania si scatenerebbe un putiferio. Del resto, se oggi scopriamo il razzismo dello Stato sui polpastrelli dei bambini rom, dovremmo anche chiederci quanto razzismo c'è nella pretesa che le nostre siano guerre giuste e «umanitarie». Noi, l'Occidente, contro i non civilizzati: barbari tagliatori di teste, selvaggi che «infestano» il pianeta, animali. Ma forse siamo a un salto di qualità. Sul versante dei destinatari, in primo luogo. Schediamo i rom coinvolgendone il corpo affinché si scolpisca nell'immaginario collettivo che la «difesa della società» non sente ragioni, non riconosce diritti. Ma gli «zingari» incarnano il nomadismo metropolitano, sono una potente metafora della precarietà e dello sradicamento. Se negli Stati Uniti le baraccopoli ospitano nuovi poveri travolti dai subprime, la campana suona per tutti.
Siamo a un passaggio di fase nelle pratiche istituzionali. Non ci si lasci ingannare dalla faccia «banale» del ministro. Le schede del «censimento» etnico sono un buon test sulla maturità del processo. Ci riportano dalle parti di Vichy per misurare il tasso di pubblico gradimento. Difatti il salto è soprattutto nel contesto sociale. Vent'anni di campagne razziste, complice un'informazione forcaiola, hanno spianato il terreno. L'insicurezza e la paura l'hanno ben concimato. Oggi l'ethos collettivo è un calibrato mix di egoismo, indifferenza e intolleranza. I sondaggi confortano: il 70% degli italiani approva le misure; oltre il 60% ne esclude la connotazione razzista. È un sentimento liberatorio quello che i numeri attestano. Finalmente si può dire chiaro e forte quanto ieri si sussurrava tra amici, con qualche vergogna. Ma il prezzo di questa libertà è un nuovo carico di oblio. Il ritorno alla persecuzione degli zingari non segnala soltanto che siamo fuori dal cono d'ombra del secondo conflitto mondiale, sgravati dalla sua ingombrante eredità. Dice che abbiamo cancellato anche il ricordo della nostra emigrazione e delle umiliazioni inflitte ai nostri padri, macaroni e dago. Non abbiamo più le pezze al culo, siamo sommersi da suv e cellulari. Siamo pieni di paure, ma ricchi e perciò liberi. Pronti a goderci, dopo 70 anni, nuovi entusiasmanti riti sacrificali.
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12 luglio 2008

"La retorica del nemico alle porte"


Intervista a Moni Ovadia a cura di Luca Galassi
dal sito di PeaceReporter, 8 luglio 2008



Dobbiamo creare un grande movimento che travolga queste misure indegne. Circola un pessimo clima in questo Paese. Rischiamo di finire nell'abbrutimento. La gente ha sentimenti di paura, e questi sentimenti vengono dall'insicurezza sociale. Dal non arrivare alla fine del mese, dal non sapere quale sarà il futuro loro e dei loro figli. Allora è facile che cadano nella trappola della demogagia. Dobbiamo fare capire loro che dietro quella trappola non c'é solo il pericolo per il Rom o per altri, ma c'è anche il pericolo per la sua vita e la vita dei suoi figli. E' un Paese incattivito, spaventato da pericoli immaginari, un Paese pericoloso per se stesso. Allora bisogna pian piano lavorare su questo problema. Io sono molto orgoglioso di sapere che abbiamo una rivista come Famiglia Cristiana, che ha scritto l'articolo più duro, più chiaro, più emotivo, facendo riferimento ai valori cristiani. Bisogna far capire che se Gesù nascesse adesso nascerebbe in un campo nomadi, piaccia o non piaccia. E se non si capisce il valore profondo dei principi etici, laici o cristiani che siano, allora è la deriva, non si sa dove si va a finire. Sarebbe bene coinvolgere tutti, aldilà degli schieramenti politici. Per un cristiano che si riconosce come tale, l'aggressione all'umile, all'indifeso, al degradato, è un vulnus stesso al Cristianesimo. Cristo scelse di esercitare il suo magistero tra gli umili, tra gli ultimi, tra i disperati. Ignorare tutto ciò significa far implodere il Cristianesimo sotto una crosta insignificante. Molti cristiani sentono questa urgenza di protesta, e meno male. Per quanto riguarda gli ebrei, va da sé che solo una parte fa il loro dovere, qualcuno cerca di barcamenarsi non tanto in cambio di piccoli favori personali, ma occhieggiando al governo di Israele. Questa è una cosa molto brutta. Naturalmente, le fedi protestanti, come i valdesi, sentono fortemente questi valori, ma anche nella società civile laica c'è una certa tensione. Ma poiché ci sono stati anni di remissività del Paese, c'è bisogno di trovare parole di dissenso forti, perché questo centro-destra, non è un centro-destra: i conservatori francesi, i gollisti, prima di tutto sono antifascisti, i conservatori tedeschi di Angela Merkel hanno una robustissima fibra democratica antifascista, così come i conservatori britannici di Cameron. Questo centro-destra populista e demagogico è un fenomeno solo italiano. Vediamo come anche la dialettica politica spagnola funzioni meglio che da noi. Il nostro Paese ha lasciato andare il dibattito su certi valori pensando che ormai fossero acquisiti. Bisogna riaffermarli ogni minuto. I valori che salvano, li conquisti, non te li regala nessuno. Credo che questo centro-destro abbia come alleato una parte di senso comune che emerge nei momenti di difficoltà sociale. E' ovvio che la demagogia soffia sul fuoco. Con uno stipendio medio non si arriva alla terza settimana, i figli non si sa che vita avranno, siccome non si è in grado di risolvere tali problemi a livello politico, cosa fa il demagogo? Dice: sai, è tutta colpa di quello lì. Se non ci fosse lui, se lui fosse sotto controllo, andrebbe tutto meglio. E' falso. E' falso. Vessare i Rom e i Sinti, in che modo migliora la sicurezza degli italiani? E' una bugia come un'altra, in Germania lo dicevano dei Rom e sopratutto degli ebrei. Sono le stesse argomentazioni usate contro gli ebrei. Identiche. Si diceva: non sono come noi, non hanno riconosciuto Cristo, stanno sempre tra di loro, si aiutano tra di loro. Molti caporioni del nazifascismo l'hanno detto, quando erano sotto processo: bisogna far credere che il nemico è alle porte per scatenare una guerra. Per avere vantaggi elettorali, tu fai credere che esista un pericolo, lo inventi, lo gonfi. Si sa benissimo che la stragrande maggioranza di queste persone cercando di fare tranquillamente la loro vita. In fatto di criminalità, poi, noi italiani abbiamo da insegnare a tutto il mondo. Siamo la gente dei Totò Riina, dei Bernardo Provenzano. Siamo questo Paese, in cui quattro Regioni sono quasi interamente in mano alla malavita organizzata, e andiamo a raccontare che il nemico è fuori. Da qui si capisce la trappola. Purtroppo la gente è fragile, non ha avuto una robusta educazione democratica. L'unica cosa che funzionava nelle scuole era l'educazione civica. E' stata cancellata. A me interessa poco che uno studente non impari l'inglese a scuola. Lo imparerà . A me interessa che sia prima di tutto un buon cittadino. E chi glielo insegna? Chi gli insegna che non si deve discriminare, che non si deve essere razzisti? E' possibile che i ragazzi non sappiano che gli italiani sono stati oggetto di discriminazione razziale? Chi gli insegna che non bisogna discriminare, che non bisogna essere razzisti? E' possibile che questi ragazzi non sappiano che gli italiani sono stati oggetto di discriminazione razziale? Che i razzisti americani negli anni '10 li consideravano negroidi? Non ricordiamo più che c'erano le scritte 'vietato agli italiani e ai cani'? Perché nessuno racconta la memoria del dolore? Non sappiamo più che gli italiani emigrati sono stati 27 milioni in un secolo, e 4 milioni sono stati clandestini irregolari. Allora? Andava bene quando li vessavano, li picchiavano, quando si mandavano alla forca innocenti come Sacco e Vanzetti solo perché erano italiani? Ecco qual'è il problema. La memoria corta. Che noi siamo stati complici della più feroce dittatura del Novecento e della Storia. Abbiamo già dimenticato? E' ora di alzare la voce. Di rialzare la testa. E' ora di non farsi più ingannare dalle trappole razziste. Chi prende questi provvedimenti è un razzista. Punto e basta.
Essendo falliti i tentativi di riconoscimento politico, sociale e civile, ciò che resta di questi individui non è che la 'nuda vita', considerata secondo i parametri del filosofo Giorgio Agamben, che con la sua 'biopolitica' postulava la presa in carico da parte del potere del corpo dell'individuo. Dove si va seguendo questa strada?
Si va verso il totalitarismo. Agamben ha descritto i Cpt come dei lager. Chiaro che non sono dei lager. Ma la forma giuridica e la forma mentis di chi li ha ispirati, sì. Cosa è stato fatto con gli ebrei? Li si è disumanizzati, dicendo che non sono uomini. Poi si può fare di loro ciòche si vuole, dato che sono clandestini, non esistono. Non sono protetti dalla Convenzione di Ginevra. Perché sono clandestini. Non lo si chiama signor Mohamed Abdullah, lo si chiama clandestino. Ecco dov'è il principio della logica totalitaria. Il clandestino non ha più profilo. E' un individuo-massa. E' un individuo non garantito da statuti precisi. E allora questa non si può che chiamare barbarie.
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11 luglio 2008

Lo Spettatore indifferente

v.b.
Terracina: «Il crimine peggiore? Un popolo che chiude le finestre»
"l’Unità" 11 luglio 2008
Suo padre gli fece fare una promessa. «Giurami - disse uscendo dalla caserma di Roma dove a tutta la sua famiglia, bambini compresi, erano state prese le impronte digitali - che non perderai mai la dignità». Mentre ricorda la sua deportazione ad Auschwitz, Pietro Terracina si commuove: «Non sono sicuro di aver mantenuto quella promessa, non si poteva sopravvivere senza perdere la dignità». Aveva 15 anni, ma dovette salire lo stesso sul carro merci che lo scaricò, da solo, a Birkenau. «Ero nel settore D, al di là del filo spinato vedevamo, nel settore E, intere famiglie Rom. Li invidiavo perché a loro avevano lasciato i vestiti e i capelli, ma soprattutto perché avevano con sé i loro bambini». Nell’agosto del ’44, un gran rumore nella notte. «Sentimmo spari, urla disperate. Poi il silenzio». La mattina dopo il settore E era pieno di ebrei ungheresi: tutte quelle famiglie Rom erano state sterminate in 2 ore. «Per commettere i peggiori crimini non servono grandi personalità criminali, basta un popolo che chiude le finestre per questo ho paura quando sento dire che ai bimbi Rom si vogliono prendere le impronte. Io so cosa vuol dire essere schedato, mi chiedo se lo sappia chi propone tali soluzioni».
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Percorsi di ri/lettura:
Elie Wiesel, La città della fortuna, Firenze, Giuntina, 1990.
in particolare le pp. 152-180 dedicate al dialogo tra l'ebreo errante e lo "Spettatore della casa di fronte alla Sinagoga", che dalla finestra della sua casa aveva visto deportare tutta la comunità degli ebrei della sua piccola città della Transilvania; aveva visto scostando le tende inamidate:
"guardava fuori, non rifletteva né pietà, né piacere né stupore, e neppure collera o interesse. Lo spettacolo lo lasciava indifferente ... Non é colpa sua, non è stato lui a prendere la decisione. Lui non é né ebreo né contro gli ebrei: un semplice spettatore, ecco cos'é. Per sette giorni il grande cortile della vecchia sinagoga si riempì e si vuotò. Lui in piedi dietro le tende, guardava. I gendarmi colpivano donne e bambini: lui non batteva ciglio. Tutto ciò non lo riguardava. Non era né vittima né carnefice: spettatore, ecco cos'era. Voleva vivere tranquillo, lui" [...] Lo Spettatore non applaude, non protesta: la sua presenza è evasiva, l'impegna meno dell'assenza. Non dice né si no. Non dice niente. Lui è là, è come se non ci fosse. Peggio: agisce come se noi non fossimo là".
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09 luglio 2008

Le biblioteche del deserto

Michele Farina
La missione Antichi testi arabi minacciati da sabbia e sole
PASSARIANO (Udine) — Vedendo questi ragazzi chini sui manoscritti, nella cornice meravigliosa di Villa Manin a Passariano, Lalla sarebbe orgogliosa. Lalla Feliciangeli, l'italiana più amata del Sahara occidentale, è morta a gennaio. L'idea di salvare le biblioteche del deserto in uno dei Paesi più sperduti del mondo è venuta a lei, anima della nostra Croce Rossa in Mauritania. La sua prima cura era per i bambini e le donne. Cibo e microcredito. Su sua indicazione un anno fa il Corriere visitò un villaggio dell'Adrar che la sabbia si sta mangiando. La gente sposta le case più in là, il deserto le insegue. Impressionante. «Allora dovresti vedere Tichitt», disse Lalla. Rideva. «Pensa che voglio mandarci i patologi del libro». Chi? «Quelli della Scuola di Restauro in Friuli». A fare cosa? «A salvare le biblioteche. Stanno andando tutte in malora. Non solo a Tichitt. E' il patrimonio di questa gente. E un po' anche nostro. Manoscritti passati di padre in figlio per secoli, volumi che i pellegrini portavano a casa di ritorno dalla Mecca. Ricchezze di famiglia in mezzo al niente. A Tichitt c'era un vecchio bibliotecario cieco. Non ricordo il nome. Custodiva religiosamente dentro valigie polverose i libri che intanto gli insetti e l'umidità distruggevano. Dobbiamo aiutarlo, mi son detta. È importante quasi come dare cibo ai bambini dell'Adrar». Lalla sarebbe orgogliosa: domani il progetto salva-biblioteche sarà presentato ufficialmente a Villa Manin. In realtà è già operativo. Il Corriere lo segue da un anno. Bilancio: 900 mila euro. Fondi del ministero degli Esteri (Cooperazione e sviluppo, 600 mila euro), realizzazione a carico della Regione Friuli in collaborazione con due istituti di ricerca mauritani (300 mila euro). Come si salvano 30 mila manoscritti che marciscono in case private di villaggi a centinaia di chilometri l'uno dall'altro, spesso raggiungibili soltanto con i fuoristrada? Ci hanno provato in tanti: americani, francesi, tedeschi. La ricetta friulana: terapia d'urto e piano di cure a lunga scadenza. «Apriremo laboratori in ognuna delle quattro località interessate», dice Alessandro Giacomello, direttore della Scuola Regionale di Restauro e responsabile del progetto Mauritania. Primo obiettivo: passare i manoscritti all'interno di «macchine» speciali che uccidono gli agenti patogeni. L'idea di raccogliere tutti i volumi in un museo, magari nella capitale, è sbagliata. «Queste biblioteche sono la ricchezza del territorio e devono restarci» sostiene Carlo Federici, probabilmente il maggior patologo librario d'Italia. Ha da poco curato il «restyling » della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il medico degli 80 mila manoscritti del Papa, lo scorso dicembre con la benedizione di Lalla, arrancò sulla pista verso Tichitt per il primo sopralluogo alle valigie del vecchio cieco. Certo i manoscritti del Sahara non sono comparabili con i tesori del Vaticano, un esemplare inestimabile dell'Eneide piuttosto che la Bibbia di Federico di Montefeltro. Sono testi religiosi e di giurisprudenza, «ma anche una copia del Corano che ha attraversato il Sahara nel XII secolo a dorso di cammello riveste un valore straordinario». E poi per un patologo ogni paziente è uguale. Il primo nemico? «La luce — dice Federici —. Infatti i mano-scritti del Vaticano stanno» in un bunker «di cemento armato, senza finestre». Difficile tenere lontana la luce del Sahara... «Faremo il possibile per isolarli. D'altra parte è importante che questi manoscritti siano fruibili. Possiamo allungargli la vita, digitalizzarli, ma anche per i libri non esiste eternità».Chi allungherà la vita ai manoscritti come quelli della meravigliosa Chinguetti, settima città santa dell'Islam? Sidi e Mohammed sono venuti in Italia per questo. Sono due dei 12 allievi del corso di restauro che si snoda tra Nouakchott e Villa Manin. Da domani al 26 settembre proseguiranno le lezioni cominciate in Mauritania con la supervisione di Irene Zanella, che ha già lavorato tra i tesori del Monastero di Santa Caterina sul Sinai. Mohammed ha 35 anni, è di Chinguetti: «Quest'anno abbiamo perso la Parigi-Dakar ma abbiamo trovato gli italiani che ci aiuteranno a salvare le nostre biblioteche». La corsa con la sua coda di stranieri costituisce una manna per la Mauritania («il costo di una capra passa da 10 a 100 euro»), ma è stata cancellata per le minacce di Al Qaeda. «A noi Al Qaeda ci fa un baffo — dice il direttore Giacomello —. In Friuli siamo sopravvissuti al terremoto». Un'esperienza di ieri che spiega la passione di oggi: «Non dimentichiamo il tempo in cui altri hanno aiutato noi. Aiutare i mauritani è un modo per dire grazie ». Anche di queste parole Lalla sarebbe orgogliosa. Quando un saggio muore, si dice in Africa, è una biblioteca che brucia. Il vecchio bibliotecario cieco di Tichitt è morto, la sua biblioteca risorge.
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07 luglio 2008

Chagall che fa volare il mondo




"Se tutta la vita corre inevitabilmente alla sua fine, è nostro
compito colorarla con i colori dell’Amore e della speranza".
Marc Chagall, nato il 7 luglio 1887.



06 luglio 2008

Editoriale

Barbara Spinelli
Il valzer della paura
"La Stampa", 6 luglio 2008

Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa. L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia. Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero. Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura. I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde. I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.
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05 luglio 2008

Tempi vili

Erri De Luca
Nel Paese di Pulcinella spaventato dalle lumache
Da noi si perseguitano solo i poveri, che siano dirimpettai albanesi o remoti curdi. Se sono ricchi offriamo loro volentieri mogli e figlie. La paura in politica è un abbondante serbatoio di voti, come pure il coraggio. Durante tempi eroici diventa maggioranza chi fa leva sulla resistenza alle avversità, sul sentimento di sacrificio e di slancio solidale. Durante tempi vili vince chi aizza le paure, i rancori, circondando la vita civile di filo spinato. La povera nazionale di calcio ai campionati europei ha rappresentato bene il nostro blocco nervoso difensivo senza slancio in avanti La paura è una merce deperibile. Ci stanca, ci si abitua, perde presa, allora bisogna rinnovarla con stratagemmi. Ci si propone di schedare in massa gli zingari, rilevare impronte digitali anche ai bambini. La misura stuzzica l'immaginazione a fare di più: invece di far loro lasciare un'impronta, perché non provvedere piuttosto a mettere un'impronta su di loro? Un tatuaggio obbligatorio, magari un numero su un braccio? Sarebbe costoso. Ma si può imporre loro di portare sul risvolto del vestito, bene in vista, una zeta cucita, lettera ultima del nostro alfabeto, per loro lettera iniziale di riconoscimento. E poi buttarla anche sul ridere, come fece il filmLa vita è bella. Il padre spiegherebbe al figlio che è la zeta di Zorro. Il bello di chi sfrutta la paura, il suo vantaggio, è che procura amnesia. Dimentica il tempo precedente, dà a un paese invecchiato l'aria imbambolata di uno nato ieri. Le impronte digitali ai bimbi zingari sono razzismo? Ma no, sono gli zingari a voler essere una razza, è una scelta loro. Da noi si mettono nei campi di concentramento migratori colpevoli di viaggio, madri e bambini inclusi se no è troppo poco. Da noi si chiamano Centri di Permanenza Temporanea: permanenza, un buon nome alberghiero per un posto con sbarre, filo spinato, guardie. Servono i campi di concentramento a fermare il flusso migratorio? No, ma servono molto a compiacere il sentimento di paura ben aizzato. È razzismo la caccia all'immigrato? Ma no, è opera di scoraggiamento a fin di bene. Il razzismo, come la mafia, non esiste. Il sospettato di esserlo nega come Totò Riina: «Tutte bugiarderie». La differenza sta solo nel fatto che uno sta in prigione e l'altro al potere. Nella città della mia infanzia si usa un'espressione per la persona che si impaurisce facilmente: Pulcinella spaventato dalle lumache. Le vede nel cesto che tirano fuori le corna e se ne scappa. Il nostro è un paese spaventato dalle lumache. Non è il caso di chiamare razzista la sua paura e le meschine misure di compiacimento dei peggiori sentimenti. Razzismo è una parola tragica e seria, il razzista è uno che va a fondo della sua avversione e si permette di trascurare il suo vantaggio: il razzista azzanna e perseguita anche il ricco della specie odiata. Da noi invece si perseguitano solo i poveri, che siano dirimpettai albanesi o remoti curdi. Se sono ricchi offriamo loro volentieri mogli e figlie. Il razzismo è un odio disinteressato, il nostrano è una varietà condita di tornaconto. Sono tempi per vili, orgogliosi di esserlo. Non mi auguro tempi eroici, non troverebbero personale di rappresentanza.
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"È urgente che un risveglio avvenga"

Lettera di Barbara Spinelli
LaStampa.it 5 luglio 2008



L'editorialista della Stampa Barbara Spinelli ha aderito alla manifestazione dell'8 luglio in Piazza Navona. Ecco la lettera inviata agli organizzatori.
"Aderisco alla manifestazione promossa da Furio Colombo, Pancho Pardi e Paolo Flores d'Arcais l'8 luglio a Roma contro le leggi-canaglia del governo Berlusconi, in difesa del libero giornalismo e della legge eguale per tutti. È urgente che esista la pietra dello scandalo. È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie è vasta e progredisce. Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l'impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l'esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall'infanzia perché appartenente a altre etnie o razze. Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza".
Barbara Spinelli (editorialista de "La Stampa")
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Copyright

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