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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

29 settembre 2008

"La gente non è suolo ma semente"


C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo che è nel mondo,
aperto a ogni sviluppo,
cercando di essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.


Danilo Dolci
Poema umano, Torino, Einaudi, 1974
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26 settembre 2008

Le leggi di libertà

"Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell’ambito della ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l’ eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell’assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle".
Gustavo Zagrebelsky,
"La Repubblica", 26 settembre 2008
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24 settembre 2008

Elzeviro

Massimo Gramellini
Quel che è Stato
"La Stampa", 23 settembre 2008
Nauseato dal surreale omaggio di Roma ai soldati papalini di Porta Pia, ieri pomeriggio sono uscito a fare due passi e in una piazza di Torino ho incontrato lo Stato. Almeno, credo fosse lui: ormai sono anni che non si fa troppo vedere in giro. Sullo sfondo dei palazzi barocchi si stagliavano centinaia di alpini di ritorno dall'Afghanistan. Un sottosegretario parlava al microfono senza sbrodolarsi eccessivamente in retorica. Dietro le transenne i parenti dei soldati osservavano la scena mescolati agli alpini anziani. È partito l'inno di Mameli e non è che lo cantassero tutti a squarciagola come calciatori: lo mormoravano, per non sporcare la compostezza del quadro. Poi i ragazzi in divisa hanno reso omaggio a una bandiera, gli alpini anziani si sono portati la mano alla fronte, un genitore dietro le transenne ha gridato: «Viva l'Italia» e nessuno lo ha trovato strano né comico. Sembrava di essere precipitati dentro una pagina di De Amicis o sul set di una fiction risorgimentale, ma l'atmosfera era troppo sincera per assomigliare alla tv.
Anche uno come me, che militarista non è mai stato e certo non potrebbe cominciare a esserlo ora con un principio di pancetta, ha percepito per un attimo la presenza di una comunità. Bella o brutta, non so. Ma era la sua. La nostra. Persino in un Paese che non è una nazione, dove il cittadino non ha senso dello Stato e semmai è lo Stato che gli fa senso, può ancora succedere di inciampare in avventure come questa, che ti fanno tornare a casa con la sensazione di essere un po' meno solo.

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21 settembre 2008

Insegnanti

Francesco Merlo
Professore, meridionale, eroe
"La Repubblica", 19 settembre 2008
«Sai, io non sono più sicuro che non si debbano picchiare i bambini» mi dice il mio ex compagno di banco Pippo Barbagallo, che ora fa il preside in un quartiere a rischio. E io, che ho in testa la Gelmini, penso: altro che dequalificati! Sono eroi questi insegnanti meridionali che devono farsi istruttori di chi non vuole essere istruito e al tempo stesso farsi infermieri, psicologi, poliziotti e persino pugili. «La settimana scorsa è venuto a cercarmi a casa il papà di un allievo, bigliettaio in un cinema. "Io non sono più sicuro che non si debbano picchiare i bambini", protestava con gli occhi lucidi».«Poi aggiungeva: "Lo so, è facile dirlo adesso che la polizia ha arrestato mio figlio a casa di sua nonna, con quel sacco nero in mano e quel coltello... Ma in queste prime notti che Roberto sta passando in galera penso che avremmo dovuto picchiarlo almeno un pochino. Perché non avete picchiato mio figlio"?». Pippo fa il preside in uno di quegli universi di umanità caotica che, nelle realtà marginali, mai somigliano alle scuole, ma sono agglomerati di umori giovanili ingovernabili, debordanti dalle regole della grammatica, della morfologia, della sintassi.
Cosa può capire la Gelmini dell´eroismo senza incantesimi e senza proclami di questi insegnanti, cosa può saperne l´avvocato di Brescia di un magistero che non diventa mai documento o monumento? «Da buoni meridionali ? dice il preside ? crediamo solo nello starnuto cinematografico di Totò, la smorfia implosa, e dunque confidiamo che anche la ministra Gelmini è il botto che non sarà, solo un tentativo di botto finale della scuola». E tuttavia, comunque vada a finire questa agitata stagione di riforme, della Gelmini resterà il veleno razzista, ormai entrato in circolo, contro il Sud e contro questi insegnanti meridionali sottosviluppati che, in matematica e in scienza ? secondo i famosi dati Ocse ? formano studenti meno preparati di quelli che altri insegnanti, anch´essi meridionali, formano al Nord.
In base all´anagrafe, tutta la scuola italiana è meridionale. Com´è dunque possibile che i cattivi insegnanti del Sud diventino bravi al Nord? Evidentemente, secondo la ministra Gelmini, il mio amico Pippo Barbagallo raglia come un somaro ai piedi dell´Etna e "urla e biancheggia" come Einstein nelle baite del Resegone. In realtà i professori italiani sono troppo colti per pensarsi come meridionali, e infatti, malgrado quel che si dice di loro, non si sono mai sognati di rivendicare ? contro la Gelmini ? i natali di Pirandello e Croce: «Noi meridionali non sopportiamo più il meridionalismo». Ma l´uso terroristico dei dati dell´Ocse non finisce qui. La Gelmini e soprattutto gli intellettuali che hanno avuto mandato di difenderla accusano la scuola del sud di allontanare l´Italia dal mercato, di farla precipitare in basso. È un´interpretazione allucinata, probabilmente una maniera per non volere fare i conti con se stessi, con il declino del sistema paese, di un´Università che neppure nei suoi luoghi di eccellenza riesce ad attrarre studenti stranieri, di una marginalità che riguarda l´intera area del Mediterraneo, dove siamo, con la Turchia e la Grecia, quel capitalismo a bassa intensità che aveva in testa Weber quando parlava di Europa cattolica e, aggiungiamo noi, mediterranea. I dati dell´Ocse dicono anche che la Corea e Taiwan hanno scuole migliori di quelle milanesi. E che il Piemonte supera la Lombardia, Venezia è meglio di Bologna, il Nord Est è più colto di Toscana Liguria e Lazio.
Ecco dunque disegnato un mondo al contrario. Ma nessun piemontese si è messo a scrivere editoriali contro la Toscana e nessun veneto ha tuonato contro Bologna. Solo i dati del Sud sono stati trattati come antropologia, scienza, storia, e dunque ironia, sdegno, sarcasmo e, insomma, insulti sapientissimi che sarebbero gratuiti e incivili anche se prendessimo per buono il trito luogo comune che la matematica applicata all´economia sia la chiave della ricchezza e dello sviluppo delle nazioni (e non si spiegherebbe come mai i migliori matematici del mondo provengano dall´Asia). Già la sociologia classica, ben prima di Berlusconi, trovava che il Nord fosse più avanzato perché aveva più scuole di formazione professionale e meno licei classici: «Ebbene, al contrario del luogo comune ? mi dice il mio preside ? io temo che questa discriminante possa presto arrivare al capolinea, al punto da marginalizzare le Lettere, da fare dell´insegnamento dell´Italiano un´attività da poveracci, da meridionali indigeni, il proletariato intellettuale di Salvemini ridotto a plebe intellettuale». È vero che nei licei del sud mancano i docenti di fisica, «ma è anche vero che a Milano capita spesso che non ci siano abbastanza docenti di Italiano». Cosa può diventare l´Italia senza Italiano? «Forse è un po´ fanatica questa ossessione per la matematica», un codice che, anche a scuola, vale quanto tutti gli altri codici che l´uomo ha inventato per decifrare il mondo, per renderlo riconoscibile e per addomesticarlo. Ma, ecco il punto: «Si può insegnare un codice a chi non ha interesse ad apprenderlo»?
Gli istituti professionali del Sud sono contenitori-parcheggio, pròtesi della dissipata vita di quartiere, alternative alla strada, al bar e al biliardino, non certo luoghi di avviamento al lavoro: «Non c´è il lavoro al quale lasciarsi avviare. E anche quando, alla fine, lo trovano, sarà comunque un lavoro che non avrà nulla a che fare con gli studi che hanno fatto». E come fa l´Ocse a misurare le pressioni alla quali è sottoposta un´insegnante che deve sostituirsi al padre e alla madre, alla polizia, al medico, a Dio e deve tirar fuori il meglio di una ragazza che è intelligente anche se fa parte di una famiglia di delinquenti? Qui i professori devono esibire un ventaglio di virtù che nessuna Gelmini mai riconoscerà loro: «Una collega di storia si è trovata davanti un´allieva, praticamente una bambina, che non capiva perché era tutta sporca di sangue. Alcuni compagni sghignazzavano, altri la difendevano. Forse la Gelmini l´avrebbe mandata a casa e avrebbe distribuito un po´ di sette in condotta. Lei ha chiesto al bidello di comprare una torta e ha parlato dell´ovulazione. Ebbene l´indomani ho affrontato una coppia di genitori che accusavano la collega di essere una sporcacciona: "prufissureddu, chista pedofila è"».
Certo, nelle città del Sud ci sono magnifici licei di tradizione, antiche scuole dove si coltivano la qualità della lingua, le buone letture, dove si impara la storia, la geografia, il latino, il greco e dove i Bossi (padre e figlio) sarebbero dirozzati e spulciati o inesorabilmente bocciati. Ma spesso l´insegnante meridionale non sa se impiegare più tempo a spiegare il participio passato o a litigare con i suoi allievi, a metter pace tra di loro, a intercettare minacce, a scoprire e a coprire reati: «Siamo sicuri che davanti ai bulli che sfottono un ragazzino effeminato bisogna denunziare tutto e finire sui giornali?». E chi può meravigliarsi se a questi studenti si danno voti più alti di quelli che prenderebbero a Como? I prefetti del Sud dicono che la scuola è l´ultimo presidio contro la criminalità organizzata: «Io un tempo pensavo che sono delinquenti i genitori di un figlio delinquente. Se fosse vero, a rigore bisognerebbe denunciare penalmente i padri e le madri di tutti i delinquenti plurirecidivi i quali potrebbero, a ragione, costituirsi parte civile nei processi contro i loro genitori; e senza neppure l´ironia di Cecco Angiolieri che voleva uccidere tutti i padri a cominciare dal suo. Ma cosa devi fare se scopri che tra i banchi dei tredicenni circola merce rubata? E cosa doveva fare, secondo la Gelmini, quella collega di inglese che aveva scritto alla lavagna i nomi dei vari mestieri: teacher, plumber, lawyer. Ebbene, quando ha scritto policeman, un bambino si è alzato e l´ha cancellata: "La parola sbirro qui dentro lei non la deve pensare neppure in inglese"». Solo un ministro che vive sulla Luna non capisce che gli atti quotidiani di piccola prospettiva degli insegnati meridionali sono l´immensa forza della scuola italiana perché, come notava l´uomo senza qualità, che già allora ne sapeva molto più dell´Ocse, «la somma collettiva delle fatiche spicciole quotidiane, data la loro capacità di essere sommate, mette in circolo una quantità di energia molto superiore a quella che viene impiegata in atti di eroismo».
Nel Sud che la Gelmini disprezza ci sono gli eroi del nostro tempo, senza le scorte dei magistrati, senza i soldi degli industriali, senza le luci dei giornali e senza il conforto della politica. Sono gli eroi muti d´Italia. E, come tutti gli eroi, ogni tanto pasticciano. E ogni tanto ringhiano: «Spesso di notte mi capita di mettere la mia vita sulle spalle di mio padre e mia madre e di prendere sulle mie spalle le vite non dei miei figli, ma di tutti i ragazzi che ho avuto a scuola, di quelli che sono morti ammazzati e di quelli che sono finiti in galera: colpe e meriti. E mi chiedo se sia giusto che le colpe dei figli ricadano sui loro insegnanti. A volte prevale in me l´idea che il porco è l´allievo di un porco. Altre volte che l´aceto è un prodotto del vino. Ecco cosa mi domando nelle notti senza sonno, quando mi volto e mi rivolto dentro la mia vita di insegnante meridionale».
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Editoriale




Barbara Spinelli
La bolla delle illusioni
"La Stampa", 21 settembre 2008

Il baratro di cui ha parlato Berlusconi, giovedì quando s’è rotto il negoziato Alitalia e la cordata Colaninno ha ritirato la propria offerta, è la condizione in cui ci si trova ogni qual volta la realtà si vendica sull’illusione, che più o meno lungamente aveva abbagliato e confuso le menti. Ogni disincanto genera baratri. La grande illusione esiste anche nel mondo della finanza ed è chiamata bolla: proprio in questi giorni, anch’essa sta scoppiando nelle mani di chi per decenni l’aveva dilatata, fino a scambiarla col reale.
Il motore dell’illusione è la distorsione della realtà, ed è il motivo per cui si può parlare di bolla della menzogna per Alitalia e di bolla delle false credenze per la finanza. Come quando è fatta di sapone, la bolla ti avvolge con una membrana trasparente, che ti sconnette dal reale.Più enormi le illusioni, più durevole la bolla e più brutale lo scoppio. Per questo è importante esplorare il passato, anche se presente e futuro sono prioritari. L’anamnesi della bolla aiuta a capire il momento in cui l’illusione non solo cancella il principio di realtà, ma crea realtà affatto nuove che pesano ancora: una tentazione che non è di ieri ma di sempre, essendo le false credenze loro ingrediente essenziale. La bolla Alitalia s’è palesata non solo alla fine del governo Prodi, ma anche quando ha preso corpo la cordata Colaninno. L’alternativa berlusconiana poteva riuscire, ma essendo nata come bolla aveva bisogno di menzogne e queste non sono state ininfluenti sul negoziato. Ogni volta che il premier parlava (l’ultima a Porta a Porta, il 15 settembre), le contro-verità per forza riaffioravano facendo riemergere il passato ineluttabilmente. Le contro-verità sono almeno sei. Primo, non è vero che le promesse elettorali sono state mantenute: Berlusconi aveva garantito soluzioni migliori rispetto a Air France, e la Cai è certo un rimedio ma non migliore. Secondo, i costi erano ben più alti: sia per i licenziamenti; sia per il futuro mondiale della compagnia (l’italianità era garantita, non una compagnia competitiva nel mondo); sia per il prezzo pagato dai contribuenti. L’economista Carlo Scarpa ha calcolato, sul sito La Voce, che lo Stato - i contribuenti - devono pagare nel piano CAI 2,9 miliardi di euro. Terzo, non è vero che non ci sarebbero stati stipendi diminuiti ma solo aumenti di produttività, come detto dal premier: altrimenti il negoziato non si sarebbe bloccato su questo. Quarto, non è vero che Berlusconi non avrebbe impedito l’accordo Air France: il premier disse pubblicamente che l’avrebbe revocato, se vittorioso alle urne. Quinto, Air France non prevedeva 7000 licenziati ma 2150. Sesto, non è Berlusconi a poter lamentare l’uso politico spinto del caso Alitalia. Rammentare illusioni e contro-verità non è vano perché mostra la stoffa di cui son fatte le bolle: in economia, in politica, nell’individuo. La bolla infatti crea una realtà in cui si finisce per credere, e che diventa realtà: magari virtuale - un’ombra, un’ideologia - ma che incide sulla vita. Chi la dilata comincia a ignorare la membrana e influenza gli attori circostanti. Ogni metafora naturalmente ha difetti, anch’essa deve fare i conti con il reale. Ma l’euforia di illusioni e false credenze è il tessuto della bolla, e se è vero quello che dice Erasmo - la menzogna ha cento volte più presa sull’uomo della verità - la sua potenza non va sottovalutata. La crisi finanziaria è bolla specialmente deleteria: perché ha ramificazioni più vaste e antiche, legate a illusioni sul potere unilaterale Usa e sulla sua pretesa di poter fare da sé. È il morbo descritto nell’ultimo libro di George Soros, il finanziere che s’ispira alla teoria della fallibilità di Popper (The New Paradigm for Financial Markets, 2008). La bolla è centrale nella sua analisi, ed egli la scorge nella crisi dei mutui, dell’economia, della politica estera Usa. All’origine un peccato originale: il doppio fondamentalismo del libero mercato e della superpotenza unica. Nella finanza la grande illusione è stata la seguente: i prezzi di vari prodotti (alta tecnologia, case) sarebbero cresciuti indefinitamente, e l’aspettativa di tale crescita li avrebbe ancor più aumentati. Niente li frenava, visto che i tassi restavano bassi e si moltiplicavano mutui a prezzi attraenti anche se irrealistici. Tale deformazione del mercato, Soros la chiama self-fulfilling prophecy (profezia che si autorealizza) del pensiero manipolatore. Esso pesa sulla realtà sino a stravolgere insidiosamente il rapporto tra domanda e offerta: il finanziere parla di interferenza «riflessiva» tra percezioni distorcenti e fatti reali (questi riflettono la manipolazione e ne vengono trasformati). La profezia che si autorealizza avviene quando la narrazione del reale schiaccia il reale: il vero è sostituito dal racconto.
Il postmoderno ha molte affinità con quest’illusione, così simile alle ideologie che affogano il reale nella sua narrativa. Soros denuncia la complicità tra postmoderno e Bush, ma la complicità vale anche per Berlusconi e Alitalia. Un episodio lo comprova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Già nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-2004. Il consigliere sarebbe Karl Rove). Chi non s’adegua è accusato d’appartenere alla reality-based community: comunità antiquata perché interessata alla realtà anziché alla credenza. La comunità realista s’inquieta per le conseguenze della bolla: Iraq, caos afghano, Iran in ascesa, crollo della borsa, declino del dollaro, debolezza mondiale Usa. Chi vive nella bolla non bada a conseguenze, fino a quando la realtà si vendica. Le bugie possono avere gambe molto più lunghe del proverbio: ma non infinitamente lunghe. Chi vive in una bolla è come stregato. Pensa che la profezia si autorealizzi, nel male o nel bene. In Italia abitano il sogno Berlusconi ma anche Cgil e parte dei dipendenti Alitalia. In America il sogno non è meno forte: sia all’inizio, quando milioni di cittadini credettero nella bugia di mutui troppo facili, sia dopo l’infrangersi dell’illusione col piano di salvataggio che trasforma lo Stato in infermiere. Chi vive nella bolla pensa che il mercato prima o poi riequilibrerà domanda e offerta, non si cura degli effetti della bolla né di quelli della bolla scoppiata.
L’illusione permane, quando le perdite (di Alitalia o delle compagnie Usa) son convogliate verso bad companies magari salvifiche, e però finanziate dal contribuente. Chi vive nella bolla ha infine e soprattutto l’impressione di poter correre ogni sorta di rischio: in particolare quello che nell’assicurazione si chiama moral hazard, azzardo morale. Si può dar fuoco alla propria casa, tanto siamo coperti. Si può fumare a letto se siamo assicurati dall’incendio, anche se magari nelle fiamme moriremo. Il moral hazard diventa un pericolo nazionale, quando un governo gioca con l’inaffondabilità di un’impresa - l’Alitalia - fidando sul fatto che alla fine pagherà il cittadino. Diventa un pericolo mondiale, quando a correrlo è una superpotenza convinta di dominare il mondo incontrastata, anche se ormai domina poco. Tutto è permesso: tanto siamo i più forti, simili a dèi; o siamo assicurati, il che consente impunità e irresponsabilità. Dicono che il mercato vero deve riprendere il sopravvento. Non so se sia il mercato, visto che il fondamentalismo ne ha fatto uno stendardo. Sono la realtà e la cittadinanza e l'informazione attenta ai fatti (la reality-based community) che devono sgonfiare le bolle, una dopo l’altra.
*estratto dal sito de "La Stampa" .
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19 settembre 2008

Poesia

Il Circo

Andrea Agostini

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18 settembre 2008

Migranti


Lietta Tornabuoni
Integrazione a senso unico
"La Stampa", 18 settembre 2008


Il ragazzo nero di diciannove anni ammazzato a Milano a colpi di spranga in testa era cittadino italiano, viveva in Italia da tempo: porsi il problema dell’integrazione in questo caso è sbagliato, eppure di integrazione si continua a discutere in modo strano.
Di due cose si tiene poco conto, quando si parla di integrazione. La prima sta nel fatto che l’integrazione non è un fenomeno a senso unico, non è un compito riguardante soltanto gli emigrati, non è un dono che cade dal cielo sugli emigrati buoni, regolari, di buona volontà. Per realizzare l’integrazione, bisogna almeno essere in due: tu vuoi stare in questo Paese, io ti accolgo. Se uno desidera integrarsi e l’altro lo spranga a morte, se uno accoglie e l’altro lo deruba, difficilmente si realizzerà integrazione. Non è che tutti debbano diventare improvvisamente impeccabili, però il fenomeno sociale può avere migliore andamento se lo si osserva con consapevolezza.
Seconda cosa: l’integrazione è una faccenda lunga, graduale. Inutile pretendere che si realizzi velocemente, per un puro atto di volontà, come una chiamata al cellulare o una moneta nella macchina del caffè. Stolto immaginare che somigli a una dichiarazione scritta o a un documento da presentare allo sportello. Si può (si deve) chiedere agli emigrati di rispettare leggi e regole del Paese in cui vivono, ma integrarsi è un’altra cosa. Nel mondo, le comunità diverse hanno sempre faticato moltissimo a integrarsi nelle nuove società. Basta pensare agli italiani di New York, in parte ancora strettamente cittadini della loro Little Italy, con le feste di San Gennaro, i maccheroni e tutto; o ai cinesi di San Francisco, chiusi nelle loro strade e nei loro riti; o ai nordafricani della periferia di Parigi. In genere, bisogna aspettare un paio di generazioni perché alcuni (non tutti) risultino più o meno integrati: per le persone adulte o anziane, rinunciare alla propria esperienza, educazione, natura, cultura è un’operazione non soltanto difficile, ma anche impraticabile. In molti casi, storicamente il tramite dell’integrazione è stato il crimine, unica forma di potere esercitabile dagli emigrati: e anche su questo si potrà riflettere. Invece la mancanza di cultura, l’ignoranza della Storia, fanno sì che a noi ogni cosa sembri nuova ed esclusiva, mai vista né affrontata, senza precedenti, impossibile da risolvere: ma è già accaduta prima, tanto tempo fa.
*estratto dal sito de "La Stampa".
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16 settembre 2008

Fascismo dopo l'8 settembre



Fernando Camon
La fedeltà al fascismo? Un'aggravante
"La Stampa", 15 settembre 2008
Sul tema toccato dal ministro La Russa (i fascisti che mantennero fedeltà all’idea, anche quando l’idea veniva sconfitta dalla storia, meritano ricordo e onore) c’è una letteratura che conosciamo poco, perché è sepolta sotto l’accusa di filofascismo, ma dentro di essa vi sono testi memorabili, di scrittori che è doveroso definire grandi. Due su tutti: Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini. Ambedue trattano in pieno i due problemi che stanno a monte e a valle del discorso di La Russa: l’entrata nel fascismo repubblichino e la non-uscita, fino alla consumazione della tragedia militare.
È chiaro che la coerenza e la fedeltà sono un valore se ciò a cui si resta fedeli è un valore. I tedeschi maturati nell’epoca del nazismo hanno inventato una formula, per definire coloro che sono nati dopo: costoro, dicono, hanno avuto «la grazia della nascita tardiva». Perché, se fossero nati prima, sarebbero stati come loro. Noi, dice Mazzantini, eravamo nati «dentro» il fascismo, e ragionavano da fascisti: «Noi non abbiamo conosciuto altro che quello». La scelta fra partigiani e fascisti non si poneva, perché non si sapeva nulla dei partigiani: quando ne catturano alcuni, i fascisti-nazisti di cui fa parte Mazzantini li guardano come marziani.
Ma Mazzantini è anche lo scrittore che sbatte più duramente contro la vera natura del fascismo: lui entra nel reparto, e molto presto, già a pagina 78 e seguenti (il libro è A cercar la bella morte, Marsilio), diventa una rotella vorticosa del vasto ingranaggio delle stragi di massa. Partecipa alla fucilazione di circa quattrocento nemici. Il massacro è un test. Ci sono state civiltà, come quella spartana, che imponevano ai ragazzi il test dell’omicidio: dovevano uccidere qualcuno per mostrarsi uomini. Qui la carneficina, raccontata con la precisione di chi l’ha vista, è il collaudo attraverso il quale chi vi partecipa diventa fascista: la strage non finisce mai, c’è qualcuno che sopravvive alle raffiche, bisogna sparargli ancora, è una gara, poi ci sono i colpi di grazia, si uccide a più non posso, e quando tutto finisce cala un silenzio assurdo. In quel silenzio ognuno sente reagire le forze morali che ha in sé.
La reazione del perfetto fascista è quella di colui che è squassato nei nervi e nella mente, ma camminando tra i moribondi si sforza di controllarsi ripetendo a se stesso: «Io sono granitico, granitico io sono». È il battesimo. Dopo, si è al servizio della nuova idea. E di chi la incarna: il duce. Primo Levi diceva che i grandi leader erano Hitler e Stalin, non Mussolini, perché non aveva forza trascinante. Visto dai fascisti repubblichini, in queste testimonianze interne, la forza l’aveva, loro la sentivano. A disfatta ormai chiara, l’autore della Bella morte si trova in uno sparuto gruppo di tenaci fascisti che non vogliono arrendersi, e ricevono la visita del Duce, che li passa in rassegna: «Io vi porterò alla vittoria», promette. E lui a piangere di tristezza: non doveva ingannarci così, doveva dire: «Morite per me!», e saremmo morti con gioia.
Dopo il duce verrà un altro duce, è la speranza dei fascisti ormai intrappolati alla fine del libro di Rimanelli (Tiro al piccione, Einaudi). Sono su un cocuzzolo, assediati tutt’intorno dai partigiani, non hanno cibo né munizioni, saranno ammazzati uno a uno («Tirate al piccione» è il grido dei partigiani, il piccione è l’aquila d’argento sul berretto dei sottufficiali repubblichini), ma ecco venire un prete con una bandiera bianca: tutto è finito, Mussolini è morto, non ha senso sprecare altre vite, pace. Qualcuno tra gli ufficiali trae la pistola e si spara in testa.
Sì, è fedeltà. Fino alla morte. Ma a monte ci stanno distruzioni, fucilazioni, perquisizioni, cacce all’uomo: la fedeltà è fedeltà a tutto questo, non c’è, neanche soggettivamente, un valore, un bene. «Noi amavamo la morte», dice onestamente Mazzantini, «la bella morte». Volevano morire e amavano uccidere. Tutto quello che han continuato a fare lo han fatto perché continuavano gli ordini, ma gli ordini continuavano perché c’eran loro pronti a obbedire. Questa fedeltà non è un merito, ma un’aggravante.
fercamon@alice.it


*estratto dal sito de "La Stampa"

14 settembre 2008

Sguardi di futuro



Non amo


Non mi piace vedere

Il bambino tendere la mano,

Non mi piace vedere

L'avvenire mendicare

Dadié Bernard, poeta della Costa d'Avorio

11 settembre 2008

Promemoria

"L'Unità", 11 settembre 2008
Caro Direttore,
il 26 aprile 1945 alcuni ebrei di origine francese, austriaca e non so che altro, fra cui i Futterman, padre e figlio diciottenne, furono fucilati sotto un ponte del fiume Stresa, a Cuneo. Furono i repubblichini di Salò a farlo, non gli spregevoli nazisti. Si può immaginare la vita da braccati, terrorizzati, aggrappati giorno per giorno solo alla speranza di arrivare a vedere il tramonto, poi la notte, poi di nuovo l’alba che devono avere fatto quei poveri disgraziati - per anni ! - colpevoli solo di essere etnicamente ’sbagliati’.
Forse è opportuno ricordare di nuovo la data, il 26 aprile 1945, guerra finita, perchè si capisca bene l’ardore e la passione che i bravi ragazzi di Salò mettevano nella difesa della Patria dai banditi, anche se a me viene ancora da pensare che in loro e nelle loro scelte non c’è niente, ma proprio niente, cui rendere omaggio.
L’Italia ’nata dalla Resistenza’ non è uno slogan un po’ abusato; è la definizione di un’identità nazionale, profonda, definita, precisa che ha un significato altrettanto preciso: si può dire di No a scelte infami e inumane. Si può rifiutare l’orrore. Ci si può opporre. Per questo penso che non si possa davvero ritenere rispettabile l’ opinione di ministri e sindaci così nostalgicamente farneticanti.

Fabio Della Pergola

08 settembre 2008

8 settembre 1943

Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano
8 settembre 2008

La data dell'8 settembre, che celebriamo quest'anno con particolare impegno nel 65° anniversario di quella drammatica giornata del 1943, segnò insieme uno dei momenti più bui della nostra storia nazionale unitaria e una delle prove più luminose della forza vitale della patria italiana.L'8 settembre 1943 sancì il crollo - nella sconfitta e nella resa, nonostante il sacrificio e l'eroismo dei nostri combattenti - di quel disegno di guerra, in alleanza con la Germania nazista, che aveva rappresentato lo sbocco fatale e l'epilogo del fascismo. Ma quell'8 settembre annunciò nello stesso tempo la nascita della Resistenza, nel duplice segno che la caratterizzò fino all'insurrezione vittoriosa e alla Liberazione del 25 aprile del '45.
Nel clima di dissoluzione e pauroso sbandamento che seguì l'armistizio con le forze angloamericane, avrebbe davvero potuto essere travolta la patria : così non fu, così non sarebbe stato, perché nacque in quello stesso giorno un decisivo moto di riscossa e di rinascita, che chiamammo ben presto Resistenza.
Nacque con la coraggiosa, disperata difesa, qui a Porta San Paolo, dei Granatieri di Sardegna, dei Lanceri di Montebello, dei militari che erano a presidio della Capitale, e dei civili antifascisti, giovani ardimentosi, che si unirono a loro.
Nacque, la Resistenza, con gli straordinari episodi che videro in tutto quel mese di settembre, in Italia e all'estero, nostri reparti e mezzi militari, delle diverse Armi, seguire la via della dignità e dell'onore, tener vivo il senso della fedeltà al giuramento e della lealtà verso chi rappresentava la continuità della Nazione. Andrebbe forse ricordata nella sua interezza, nella molteplicità dei suoi straordinari esempi, la storia del settembre 1943 e l'epopea dei militari che la scrissero.
Perciò ho parlato, e l'ho sempre sottolineato anche nelle celebrazioni della Festa del 25 aprile - a Cefalonia come a Genova - di un duplice segno della Resistenza. Quello della ribellione, della volontà di riscatto, della speranza di libertà e di giustizia che condussero tanti giovani a combattere nelle formazioni partigiane e, non pochi, a sacrificare la loro vita. E quello del senso del dovere, della fedeltà e della dignità che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei seicentomila deportati nei campi tedeschi, rifiutando l'adesione alla Repubblica di Salò. Un partecipazione da valorizzare più di quanto pure si sta facendo, perché essenziale, e caratterizzante della Resistenza italiana, accanto alla decisiva componente partigiana. E il punto d'incontro e di sintesi fu in un ritrovato amore per la Patria, in una comune volontà di far rinascere l'Italia, al di là delle divisioni fratricide del 1943-45.
L'Italia rinacque nello sforzo di ricostruzione del paese devastato e avvilito, e di edificazione di una nuova democrazia, quale fu disegnata nella Costituzione repubblicana.
Si ritrovano oggi, e sempre più possono ritrovarsi, tutte le componenti ideali, sociali e politiche della società italiana nel sentire come propria la Costituzione di cui quest'anno abbiamo celebrato il 60°: nel rispettarla, nel trarne ispirazione, nell'animare un clima di condiviso patriottismo costituzionale.
E la ricostruzione e rinascita dell'Italia ha significato anche la ricostruzione e rinascita delle sue Forze Armate, quali hanno saputo via via rinnovarsi al servizio della Repubblica democratica fino a dare nuova prova di sé nel difficile cimento delle missioni all'estero per la pace e la sicurezza internazionale.
Vorrei in conclusione esprimere il più vivo compiacimento per l'impegno con cui anche oggi le istituzioni romane, il governo nazionale, le associazioni combattentistiche e partigiane si sono unite nel ricordo di quanti seppero resistere e combattere e nell'omaggio a quanti caddero per la Patria. Vorrei incoraggiarvi tutti a rafforzare il vostro comune impegno di memoria, di riflessione, di trasmissione alle nuove generazioni del prezioso retaggio della battaglia di Porta San Paolo, della difesa di Roma e della Resistenza.
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05 settembre 2008

Poesia al femminile


Donna
Nessuno può immaginare
Quel che dico quando me ne sto in silenzio
Chi vedo quando chiudo gli occhi
Come vengo sospinta quando vengo sospinta
Cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
Quando ho fame quando parto
Quando cammino e quando mi perdo,
nessuno sa che per me andare è ritornare, e ritornare è indietreggiare
che la mia debolezza è una maschera e la mia forza è una maschera
e quel che seguirà è una tempesta.

Credono di sapere
Ed io glielo lascio credere
E creo.

Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà fosse una loro concessione
E ringraziassi e obbedissi
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro
Sono libera nella vittoria e nella sconfitta
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
E al mio desiderio non impartiscono ordini.

Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
Ed io glielo lascio credere
E creo.

Joumana Haddad*
*poetessa libanese
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02 settembre 2008

Inutile vanità

"[...] ma mi secca, perché tutti i professori e tutti gli scrittori sono soliti esagerare. la materia di cui essi si occupano, a sentirli, è sempre la più importante di quante altre sono al mondo per una ragione o per l'altra [...]. La vera scienza è solidale, è un'opera collettiva." (Lorenzo Paolo Ferrari, Genova 1902)

* (cit. in Luciana Garibbo, Politica, amministrazione e interessi a Genova 1815-1940, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 242).

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