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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

29 gennaio 2010

La vocazione dell'Università

Discorso del Rettore Ivano Dionigi 
per l'inaugurazione dell'.a.a. 2009-2010
dell'Università degli studi di Bologna

"[.....] Ma la deontologia universitaria ci richiede un secondo livello di responsabilità formativa.Se è vero che l’Università è l’antidoto al videoanalfabetismo imperante, il contraltare di certa modernità frettolosa e affannata, il luogo naturale che forma la classe dirigente di un Paese – e questo noi dobbiamo e vogliamo essere per storia e vocazione, perché comunità di studiosi e persone autonome e libere – allora siamo sollecitati da stili e percorsi vincolanti: che chiamerei i fondamentali.
Ne segnalo tre:
1. la parola. Intendo il rigore non solo nei contenuti disciplinari ma nel metodo e nella stessa espressione linguistica. Noi dobbiamo recuperare una vera e propria ecologia linguistica. Parlare bene – come diceva Platone - oltre a essere una cosa bella in sé, fa bene anche all’anima. Questo riguarda sia i più lineari e univoci scienziati che i più metamorfici e polisemici umanisti. In aula, in sede di tesi e di esami, negli Organi Accademici parliamo bene. All’Università bisogna parlare bene. Torna attuale il grido di Sallustio: “abbiamo perduto il valore reale delle parole”. Siamo a rischio di una Babele linguistica. Perché? Perché usiamo vocaboli vuoti, astratti, cadaverici; e non parole che aderiscono alla realtà, alla conoscenza, al sapere, alla competenza, alla loro anima (sì, perché le parole hanno anch’esse un’anima!);
2. la memoria. La dimensione temporale (Agostino direbbe il “palazzo della memoria”). Ossessionati dal provincialismo di spazio e illusi che a renderci contemporanei basti navigare in crociera o in internet, noi non ci curiamo di un provincialismo ben più affliggente: “il provincialismo di tempo”, per cui crediamo solo a ciò che vediamo e subiamo la dittatura del presente: credendo che il mondo sia proprietà esclusiva dei vivi, una proprietà di cui i morti “non detengono azioni” (Eliot). Siamo legati gli uni agli altri. Non siamo isole: “siamo invece tutti penisole, per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano” (Amos Oz). Con lo sguardo rivolto contemporaneamente avanti e indietro.
3. il ritorno al reale. Noi tutti oggi soffriamo per deficit di consapevolezza, per mancanza di pensiero, per orgia di apparenza. Il reale non ci è né vicino né familiare né amico.
Noi professori – mediatori del sapere e dei saperi, gelosi della libertà e autonomia del pensiero, estranei all’intrattenimento e allo spettacolo – dobbiamo spiegare ai più giovani la bellezza e la durezza della realtà, dello studio, del lavoro, della vita: il discrimine tra la vacanza e il lavoro, tra la ricreazione e l’impegno, tra “stare al mondo e vivere” (Seneca). Oltre la doxa (il “così fan tutti”, il “così pensano tutti”), c’è “il sapere scientificamente fondato” (l’episteme). Noi - per dirla con Nietzsche - vogliamo formare cittadini e non semplicemente “utili impiegati”. Questo significa essere Maestri. Siamo tutti consapevoli che un nostro atteggiamento errato o corretto può essere decisivo per la vita di uno studente: per una sua scelta o fortunata o fallimentare. Nei nostri rapporti, al di là dei ruoli, delle differenze, della usurante quotidianità, della fatica di vivere, in gioco c’è sempre un individuo, una persona, un miracolo vivente (lo sanno bene i Colleghi della Facoltà Medica, sempre divisi tra l’anonimato della malattia e l’identità del malato; ma questo riguarda tutti noi).
A noi Professori si chiede di essere autorità non solo formativa e scientifica ma anche morale.
La crisi è economica, perché politica; politica, perché culturale; culturale, perché morale. Abbiamo infiniti indicatori e tecnicismi, ma non sappiamo chi siamo; come i grammatici di Agostino i quali si accanivano nel disquisire se si dovesse pronunciare omo oppure homo, ma intanto ignoravano chi fosse l’uomo.
Questo è compito dei Maestri i quali, come i grandi attori, calato il sipario, sanno uscire di scena; e, come il sole, dopo aver illuminato e riscaldato, sanno tramontare.
Sulla voce studenti siamo tutti inadempienti.
Si può cominciare col dire che questo Paese ha disatteso quell’art. 34 della Costituzione; e finire col dire che c’è emergente un “problema scuola". [....]".
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Indifferenti, rassegnati ... (e complici)

"[...] Noi italiani non vediamo queste illegalità, perché non sono rare, sono normali. Ognuno di noi ha una quindicina di amici, va al cinema con loro, con loro in pizzeria. Sa benissimo quanti e quanto evadono. Se una famiglia ha quattro case, son quattro prime case, intestate a padre, madre, figlio, figlia. Applicano una morale condivisa da gran parte degli italiani: lo Stato non mi riguarda, io ho soltanto la mia famiglia, sono onesto se faccio l'interesse della mia famiglia. Se un padre ha dei problemi con le tasse, la famiglia lo ama di più. Tutti son convinti che mafia, camorra e 'ndrangheta non verranno mai distrutte, perché chi dovrebbe distruggerle spartisce i loro interessi. Se cambi governo, il nuovo governo subentra al precedente anche negli interessi. Siamo rassegnati. Ad Haiti son cadute le case dei poveri, perché eran fatte male, le case dei ricchi sono ancora in piedi. Noi italiani lo abbiamo capito in due giorni. Qui in Italia abbiamo lo stesso problema da mezzo secolo, ma la rassegnazione ci rende ciechi.".
Ferdinando Camon.  L'Italia rassegnata, "La Stampa", 29 gennaio 2010.

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"[...] Noi dovremmo smetterla di fare i rigoristi quando gli oneri (ad esempio una demolizione) toccano agli altri, salvo diventare anarchici quando toccano a noi.[...]"
Luca Ricolfi, I cittadini complici, "La Stampa", 29 gennaio 2010.


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27 gennaio 2010

Giornata della memoria



"[...] Negli anni io ho letto ogni libro su quell’epoca, in ogni lingua che conosco, cercando di capire gli assassini. In che modo il male ha potuto raggiungere una tale profondità e una tale portata ? Non sono in grado di spiegare neanche la passività di chi è rimasto a guardare a tutti i livelli. Non era così difficile salvare una vita umana.  [...]"
Elie Wiesel
Discorso  al Parlamento italiano nella Giornata della Memoria, 27 gennaio 2010 [..leggi tutto].

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[...] Se la memoria non è uno strumento di costruzione del futuro, se non viene sottratta alle forme retoriche della routine, rischia di diventare un boomerang. Per evitare una simile pericolosa eventualità, è urgente vivificare il senso ultimo della Shoà nella battaglia contro ogni forma di razzismo, di sopraffazione, di offesa alla dignità e al diritto degli uomini, di ogni uomo. Solo il legame con le grandi battaglie per l’uguaglianza, per la pace, per la giustizia sociale, per la sacralità universale di ogni esistenza umana tiene viva quella memoria e la rilancia eticamente contro l’inaridimento celebrativo e l’isterilirsi nelle forme museali che ne fanno una comoda copertura delle false coscienze. [...]
Moni Ovadia

*estratto da Moni Ovadia, Vivificare il senso della Shoà nella battaglia contro ogni forma di razzismo, Peacereporter, 24 gennaio 2010 [leggi tutto]
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Giornata della memoria

Ero per una strada, chiedevo solo di camminare.

Ero un contadino, andavo i verdi campi a lavorare.
Ero un ragazzo ebreo, chiedevo una vita agli altri uguale.
Ero un partigiano, volevo la mia terra liberare.
Erano tredici milioni di uomini ed i nazi fecero
Tredici milioni di grigia grigia cenere...
non lo dovete dimenticare:
scolpitelo nei cuori e in ogni casolare.
Per le terre d'Europa, correvano vagoni piombati.
Un popolo di uomini, spingevano tra fili spinati.
Di odio e di paura, vivevano tra volti spietati.
Di fame e di tortura, morivano tutti assassinati.
Erano tredici milioni di uomini ed i nazi fecero
Tredici milioni di grigia grigia cenere...
non lo dovete dimenticare:
scolpitelo nei cuori e in ogni casolare.
Emilio Jona

16 gennaio 2010

I nostri padri ...

"I nostri padri, nati schiavi, a forza
di contrasti, di sangue e di fatiche
comprâr la cara libertade; e noi,
posterità degenerata, tutto
per schiavi ritornar mettiamo in opra".

Mary Wortley Montagu
1689 1762


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10 gennaio 2010

Migranti invisibili: gennaio 2001 - gennaio 2010

[....] I nuovi schiavisti di Calabria (non solo: oggi parliamo di Rosarno, domani chissà) non hanno neppure questo minimo scrupolo: non gli interessa che i loro schiavi abbiano dove dormire, che mangino e che possano lavarsi, non importa se muoiono, se fuggono. Ce ne sono talmente tanti e sempre nuovi in arrivo, è talmente enorme l'offerta di mano d'opera in arrivo dalle lande disperate del mondo che il per così dire ricambio naturale è nel conto. Anzi, è incentivato. Se spariscono i senegalesi arriveranno i magrebini, o i cingalesi a seconda della convenienza del clan mafioso che li importa e che controlla il territorio. L'economia non ne risentirà, anzi. È molto probabile che i nuovi arrivati che non conoscono la lingua, figuriamoci i diritti, pretendano di meno. Mano a mano che si rendono conto difatti cominciano a ribellarsi alle condizioni in cui sono tenuti dai clan criminali: è bene che si tolgano di torno. Ci mancano solo gli africani sindacalizzati... Che poi siano loro gli unici, in quelle terre, capaci di ribellarsi è una triste verità che parla degli italiani". [ leggi tutto....]"
Concita De Gregorio, "L'Unità", 9 gennaio 2010.

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" [.......]  La «dissonanza cognitiva» alla quale ci riferiamo oggi è tutta diversa. Risiede e prospera soprattutto nelle regioni del Nord e del Nordest. Dove proliferano quegli imprenditori piccoli e grandi che hanno avuto il merito di creare una società ricca di tutto, molto «affluente». Non senza l'aiuto di quella mano d'opera immigrata, spesso di colore non proprio bianco, ma prontissima sempre a fare dei lavori meno gradevoli nelle fabbriche, nelle fabbricone e nelle fabbrichette. Questa manovalanza così comoda nella sua quieta efficienza, gli imprenditori del NordNordest la vogliono, ne vogliono sempre di nuova, di più. Ma c'è qualcuno, da quelle parti (siamo quasi certi che si tratti di uno soltanto, ma parla forte, ma si fa sentire) che questi immigrati così colorati non li sopporta quando li vede in giro per andare a comprare il latte, per fare una passeggiata, per andare al cinema. Affetto da continui attacchi di «dissonanza cognitiva» l'imprenditore piccolo o medio di cui sopra (al singolare, perché siamo sempre più certi che si tratti di uno soltanto) protesta a voce alta: «Cosa vogliono? Cosa fanno? perché non si rendono, non dico inesistenti, ma quanto meno invisibili?». E intanto li trattiene nella sua fabbrica. E guai a chi glieli porta via. Ne vuole anzi degli altri. Possibile che non ci sia un metodo per ridurre questa clamorosa «dissonanza cognitiva»? Certo che c'è. Basta ricorrere alla scienza che può tutto, se solo vuole. Come si è visto in una recentissimo film americano: L'uomo senza ombra di Paul Verhoeven, al quale hanno lavorato, duecentottanta esperti di effetti speciali per rendere un uomo del tutto invisibile. E ci riescono. Ma è troppo costoso, evidentemente. Molto meglio, se possibile, inventare un anello da infilare al dito, e da girare finché non rende invisibile chi lo porta. Un anello del genere è stato inventato e messo in opera (ne sono certo) più di una volta. Ma la prima, la meglio raccontata di tutte, la troviamo nella cultura greco antica: in Erodoto e in Platone (la Repubblica Libro II) dove si narra la storia del magico "Anello di Gige". Il quale Gige, sia detto tra noi, era un bel mascalzone. Non si è ancora infilato al dito l'anello del Re che già va - invisibilmente - a insidiare la Regina. L'invisibilità sarà bella, ma assicura anche l'impunità, ci dice Platone. E fa nascere voglie pericolose in tutti. Ma Platone scriveva in greco (antico). E il greco antico non è affatto di moda, nel nostro Nord, Nordest. Nessuno lo deve più studiare. Nessuno lo studia più: tanto a che serve? Già, a che serve? Serve a non ospitare in cuore sentimenti incoerenti e contraddittori. Desideri intimamente contraddittori. Dissonanze clamorosamente contraddittorie. A questo serve." 
Beniamino Placido,  "Repubblica", 21 gennaio 2001


*estratto dall'Archivio online di "Repubblica": B. Placido, L'immigrato perfetto è invisibile, "Repubblica", 21 gennaio 2001 [leggi tutto]

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La rivolta degli schiavi

"[...] Però non è più possibile sopportare tutto questo. Io lavoro, punto. Tutti, qui lavoriamo. E non vogliamo altro. Ci sta bene pure dormire in queste condizioni, non importa, l'importante è lavorare onestamente e spedire i soldi a casa. Ma non possiamo essere sparati, come è successo al mio amico Babou, e non reagire. Non abbiamo più niente da perdere. La gente deve capire un concetto semplice: io sono sbarcato a Lampedusa, ho rischiato di morire in mare, per venire qui. Credevo di trovare il paradiso e ho trovato l'inferno. Ho rischiato di morire già una volta, non mi fa paura rischiare di morire adesso, perché so di essere nel giusto. [...]". 
Ahmed, immigrato  di Rosarno, "Il Fatto", 9 gen. 2010
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"[...] Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. [...]  Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere. Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile [...]
Mimmo Calopresti, "Il Fatto", 9 gen.2010

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[...] Credere di fermare l’immigrazione clandestina combattendo gli immigrati è una pia illusione ed è un atto vile. Non è l’immigrato che sollecita la malavita, è la malavita che incrementa e orienta l’immigrazione clandestina ed è interessata a creare condizioni esasperate, anche attraverso la guerra fra poveri, per potere vendere a maggior prezzo e con più alto profitto la povera carne umana su cui riesce a mettere le mani. E che dire degli imprenditori schiavisti? [....]
Moni Ovadia, "L'Unità", 9 gennaio 2010

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[...] Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».
Barbara Spinelli, Se questi sono uomini, "La Stampa", 10 gennaio 2010 [leggi tutto ]
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06 gennaio 2010

Ricordando Beniamino Placido


Beniamino Placido
Come Dio si ritirò e creò l' uomo
"Repubblica ", 31 maggio 2007



"Che emozione l'altro giorno. Capita talvolta di avere per la testa un brano di cui si ha un vago, ma ossessivo ricordo. Ma non abbiamo il tempo, l'energia, la pazienza, per andarlo a cercare, per riprenderlo fra le mani e cercare di svelare il mistero del perché continuava a ronzarci per la testa. Che emozione, quindi, l'altro giorno, riuscire a rileggere niente di meno che il primo capitolo della Genesi, l'inizio («il comincio», come diceva mia figlia quand'era piccola): «E Dio creò il cielo e la terra». Si tratta della Creazione, momento ovviamente importante nella cosmogonia di tutti i popoli: quando siamo nati? Come è venuto fuori il mondo? Come avviene la Creazione? Anni fa ne ho letto una definizione bellissima di non so più quale teologo: «Dio crea l'uomo come il mare crea la terra: ritirandosi». Vale a dire: Dio crea l'uomo «abbandonandolo». Perché solo abbandonando, solo ritirandogli dal capo la sua potente - ma anche opprimente - protezione gli consente di esistere. A suo rischio e pericolo, s'intende.
Quale sorpresa rileggere la Genesi per scoprire che persino qui, proprio qui, la creazione è presentata come un'esperienza di divisione, di separazione: fra la luce e le tenebre, fra le acque superiori e quelle inferiori. E' dopo che le acque sono state raccolte tutte in un posto, ci racconta il testo biblico, che alla terra fu consentito di apparire. In ebraico questo viene evidenziato da un gioco di parole: il posto dove si devono raccogliere le acque si chiama «maqom», che è apparentato al verbo «qum», che vuole dire "sorgere". Il sorgere di un luogo è propiziato dal ritirarsi delle acque circostanti. Ogni creazione è una separazione, ma nella Bibbia abbiamo una divisione non solo tra gli elementi, ma anche tra Dio e il mondo. E' un punto, questo, estremamente importante. Che si riproduce, si ripresenta, quando Dio Padre abbandona, appunto, suo figlio sulla croce. «Signore, perché mi hai abbandonato?», dice Gesù. Il Padre avrebbe potuto, dovuto, rispondere: «Ti ho abbandonato per farti esistere. Ed operare nel mondo». Figuriamoci se Dio fosse intervenuto, all'ultimo momento, per salvare il figlio suo, «miracolosamente», strappandolo dalla croce!
Chi ha, chi ha avuto, dei bambini, lo sa: la vera sfida del creare è nell'abbandonare. Nel ritirarsi. A vantaggio della creatura. Per farla esistere. Ma ritirarsi - come? Forse era questa la questione che mi ronzava per la testa. C'è, mi sono chiesto, un modo di ritirarsi e di abbandonare, che sia al tempo stesso essere presente, ma in disparte, acquattato, sempre pronto a intervenire? E' stato allora che mi è venuto in mente Salinger. E mi sono ricordato de Il giovane Holden. Ovvero - titolo originale - The catcher in the rye. Già, the "catcher": colui che acchiappa chi sta cadendo." 

Beniamino Placido
1929-2010

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Bambini

"[...] Già, i bambini. Quella specie di specie protetta che il nostro comune «Welfare» ci impone continuamente di salvaguardare e sorvegliare, che ad ogni piè sospinto ci educa ad educare. Noi adulti, genitori resi sprovveduti dalle nostre incalzanti incertezze, dobbiamo imparare a nutrirli, vestirli, dialogare con loro, metterli in guardia dalle minacce del mondo. E la società si nomina garante, per loro. Censore, per noi. I messaggi che ci manda attraverso la scuola, i media, il nostro barcollante sistema di valori, sono una ininterrotta campagna promozionale per il progresso. Nostro di adulti. E loro, di figli. Viviamo, insomma, in un perenne stato di allerta educativo, confortati da un'unica certezza: quella di essere incapaci di fare da soli, come genitori.[...]".
Elena Loewenthal


E.Loewenthal, Il mistero della bambina, "La Stampa", 6 gen. 2010.


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03 gennaio 2010

C'era un paese che si reggeva sull'illecito...

"C'era un paese che si reggeva sull'illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati e questi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia chi poteva dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; perciò ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell'interesse del gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l'illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. A guardare bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale, alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Poiché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo, la finanza pubblica serviva ad integrare lecitamente in nome del bene comune chi si era distinto per via illecita.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche alle associazioni a delinquere di tipo tradizionale che s'inserivano come un elemento d'imprevedibilità nella giostra di miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita. Così tutte le forme di illecito, da quelle più sornioni a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza, nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto.
Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano, costoro, onesti non per qualche speciale ragione; erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d'altre persone.
In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Erano una "contro società" che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare "la" società. Un'immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos'è".
Italo Calvino


*Italo Calvino, Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti, "La Repubblica" , 15 marzo 1980.


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