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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

23 luglio 2010

La paura e le speranze

"[...] Slogan dopo slogan, per vent'anni il nostro mondo è stato semplificato, e popolato di opposizioni paranoiche, di scontri mortali fra il Medesimo e l'Altro, tra il Bene e il Male. Le nostre intellìgenze temono di non avere più parole capaci di rompere il silenzio in cui sono cadute le nostre coscienze. Tutte le parole che non dicono odio, e che non ne producono, ci paiono svuotate, divorate dalla macchina della paura. Occorre tornare a parlare, a dire. Prima di tutto, occorre tornare a dire no: no all' ovvio tragico che ci sta attorno, no alla pi­grizia di slogan che passano per pensiero, no alla riduzione di esseri umani a mostri, no alle misere ideologie della comunità etnica e del plaudente "pubblico dei cittadini". Poche cose sono laiche come questa piccola parola, che più d'una volta sa rimettere in cammino il mondo. C'è la forza della disobbedienza, del no. Certo non tutti i disobbedienti sono laici, ma non si è laici se non si è in grado di disobbedire. Nella capacità di dire no - e non temer di perdere padroni e appartenenze - in questa capacità, dunque sta il segreto di ogni libertà, di quella intellettuale e morale prima fra tutte. [...].
A noi tocca ora la responsabilità di scegliere tra la resa a una politica che si regge sulla paura - e di cui si ha motivo di aver paura - e la pratica rinnovata e coraggiosa di una politica che si apra alle speranze. La paura e le speranze, appunto: la prima è unica, compatta; le seconde sono plurali, come plurali sono gli esseri umani e le loro differenze. Se della paura sono padroni i semplificatori assolutisti, delle nostre speranze siamo noi i costruttori."
Roberto Escobar

*R. Escobar, La paura del laico, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 103-105.
*link alla puntata di Fahrenheit di Radio3 del 1° luglio 2010 dedicata alla presentazione del libro La paura del laico [ascolta].
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18 luglio 2010

Etty

«Devi restare testimone di te stessa, prendere nota di tutto ciò che accade in questo mondo, non chiudere mai gli occhi alla realtà, devi venire alle prese con questi tempi terribili, cercare una risposta alle molte domande che essi ti pongono. Forse le risposte aiuteranno non te soltanto ma anche gli altri».
Etty Hillesum





*link agli Atti del Convegno Raccogliere l'eredità di Etty Hillesum ,Torino, 12 maggio 2000

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13 luglio 2010

La mancanza di stupore

"[....] Un dato psicologico fondamentale dell'uomo contemporaneo è, dunque, la mancanza di stupore: non tanto il progresso gli è dovuto, quanto il successo. Il progresso è sempre un cammino faticoso, fatto di molte cadute, di larghi smarrimenti, di tentativi incompiuti e di pochi momenti di gloria: sono i momenti del successo. Ma ogni successo è la conclusione di un calvario. Non ci sarebbe progresso se non ci fosse una serie di successi, ma ogni successo è inconcepibile fuori del quadro di una lunga pazienza e di una intensa sofferenza. L'uomo spettatore non guarda all'interno del processo, si ferma alla superficie, si limita alla conclusione, e ritiene che il resto non lo riguardi e che egli si debba soltanto e semplicemente attendere la conclusione positiva. Il ruolo che l'imprevisto gioca nel progresso lo lascia indifferente, e quando l'imprevisto si avvera, il giudizio è netto e tagliente: non ci sanno fare. (Forse è per aver preso coscienza di questo dato psicologico dell'uomo contemporaneo che taluni paesi avvolgono nel più rigoroso segreto non soltanto i preparativi di grandi imprese tecniche, ma anche l'andamento di studi scientifici: ritengono che l'insuccesso - ove si verifichi - provochi un giudizio negativo su un sistema, che l'opinione pubblica non possa avere la consapevolezza del ruolo sempre immanente dell'imprevisto). La mancanza di stupore finirà per rendere scettico, non più razionale o scientifico, l'uomo contemporaneo. L'alternativa non è tra lo stupore e la scienza. Lo stupore è il dono di meravigliarci delle possibilità dell'uomo, è la capacità di ammirare l'immaginabile, è il senso di ritornare bambini - secondo il modo evangelico, perché neanche i bambini, oggi, si meravigliano più di nulla - è credere che il mondo non va avanti per una sua forza di fatalità, ma perché l'uomo pensa, opera, inventa, soffre, cade, balbetta, trionfa. È l'abitudine che impedisce lo stupore, e l'abitudine è la più nociva delle consuetudini. Forse il progresso scientifico-tecnico ha abituato male l'uomo contemporaneo: l'ha abituato a vedere una inarrestabile marcia in avanti fatta di successi in serie, e non si sa più immaginare che l'imprevisto è sempre in agguato. Poiché il sole sorge ogni giorno lo riteniamo una cosa ovvia; se non sorgesse una cosa strana; e non si riesce più a comprendere che invece la cosa strana è quella legge di gravitazione universale che consente al sole di sorgere ogni giorno sulla terra. Sono le leggi scoperte dagli uomini, gli strumenti e le macchine da essi forgiate, che costituiscono un patrimonio di cose meravigliose ed imprevedibili; e il fatto che leggi e macchine si ripetano non riesce a modificare la loro assoluta originalità. È ormai facile constatare che uomini dotati di fantasia ed immaginazione sono quasi soltanto gli scienziati ed i tecnici, proprio coloro che più sono immersi nella rigorosità delle inflessibili leggi naturali. Gli altri - gli spettatori, i consumatori - hanno esaurito ogni loro capacità di fantasia e di immaginazione nutrendosi, apparentemente, di fantasia e di scienza. Ma la fantascienza - tranne qualche eccezione - non è né l'una né l'altra cosa: è un parossismo, è una evasione. Ha finito per rendere impossibile ogni entusiasmo, ogni intuizione, ogni estro; ha finito per far credere che tutto è possibile, anche la mostruosità pseudoscientifica, che tutto è dovuto, anche l'avventura più sorprendente. Se non vogliamo che questo mondo - in cui il progresso della scienza e della tecnica avviene proprio all'insegna della meraviglia - divenga un mondo di scettici e di indifferenti, bisogna ridare spazio allo stupore e all'ammirazione. E occorre riconsiderare l'ineluttabilità dell'imprevisto. Ciò che non si può razionalmente prevedere ha costituito, quasi sempre, i gradini che hanno consentito di raggiungere l'attuale fase di sviluppo scientifico-tecnico. La storia del progresso è la storia dell'imprevisto che ha avuto successo: è anche la storia del rischio che ha dovuto pagare il suo scotto. Dobbiamo sapere che anche oggi ogni tentativo, ogni esperimento, ogni prova, soggiacciono a questa legge inesorabile del rischio che può dare il buon esito ma anche il fallimento. Occorre avvicinarsi alla scienza e alla tecnica - pur come spettatori e consumatori - con l'atteggiamento umile di chi sa che deve attendersi sempre il miracolo, anche quando il miracolo è il sole che quotidianamente appare all'orizzonte, l'aeroplano che ogni volta si stacca dal suolo, o il cuore che ad ogni istante batte. Non v'è miracolo più miracoloso di quello che continua a ripetersi con esasperante monotonia. Se, in tutti i tempi, non vi fossero stati uomini che hanno conservato e ravvivato questi sentimenti, il mondo non sarebbe arrivato alla fase attuale. E se noi, uomini contemporanei, non li sapremo ritrovare, questi sentimenti, c'è pericolo che nel momento più avventuroso della sua storia il mondo abbia un attimo di sosta paurosa: e l'eccezione al miracolo sarebbe la sua fine. C'è, dunque, tutta una angolatura psicologica da ristabilire: insegnare ai bambini a stupirsi di ciò che avviene dinnanzi ai loro occhi; convincere i grandi "mass-media" che debbono insegnare agli uomini a stupirsi; far comprendere agli uomini che essere adulti non vuol dire essere costituzionalmente incapaci di meravigliarsi. C'è, ancora, un atteggiamento di passiva attenzione da superare. Non tutti, ovviamente, possono essere artefici del progresso scientifico-tecnico - o di qualsiasi altra realizzazione del progresso - ma tutti debbono, almeno, saper partecipare nello spirito, nell'attesa, nella speranza, nella trepidazione, nell'ammirazione, alla vita spesso tumultuosa, sempre faticosa, di coloro che, nei diversi settori dell'operare umano, spianano la strada perché il percorso sia a tutti più agevole. La riconquista dello stupore è, forse, una delle cose più urgenti e necessarie".
Francesco D'Arcais

*F. D'Arcais, La mancanza di stupore  in "La Civiltà delle macchine", 1966, 3 (mag./ giu) [leggi tutto]

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06 luglio 2010

Tre comandamenti

Non essere complici, non mentire, non restare ciechi.
Non importi, non sottoporti, non sovrapporti.
Simone Weil

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04 luglio 2010

"Una luminosa vita"

Vittorio Foa
Lettere della giovinezza. Una scelta dalle lettere dal carcere 1935-1943, Torino, Einaudi, 2010 (1998)


"[...] Leggo queste lettere scritte tanti anni fa con un grande, imperdonabile sentimento d'invidia. L'invidia si è riconosciuta subito, non serve combatterla. E si può provare invidia nei confronti di un recluso? Nei confronti di un perseguitato politico che ha scritto le sue lettere segregato dal mondo, chiuso in una cella per otto anni, nel fiore della gioventù? Forse invidio a Foa la serenità, la forza d'animo, l'humour con cui seppe andare incontro alla prova. Ma no, l'invidia non nasce da questo. La capacità di sopportare la solitudine è un tratto che riconosco anche alla mia natura. Un certo istinto monastico, la forza dell'idealismo sono due potenze dell'anima che mi hanno spesso accompagnato. Ricordo con quanto slancio mi attribuivo da ragazzo la capacità di emulare quanti avevano rinunciato alla libertà per non tradire le loro idee. Mi ritrovavo intero in quelle pagine dove Stendhal racconta la felicità di Fabrizio prigioniero. E' uno stato d'animo che capisco. Del resto, oggi siamo abituati a stare in galera anche fuori dalle mura fisiche di una prigione.
L'invidia nasce da tutt'altra radice. Prende forma intorno ai tre capisaldi intorno a cui si articola, con grande organicità, il pensiero di Foa: la famiglia, lo Stato, la politica. Queste tre realtà, che formano il tessuto di queste lettere, sono anche i cardini dell'esperienza intellettuale di Foa, i muri portanti di un edificio che non ha mai ceduto agli assalti della lunga e tenebrosa bufera di questo secolo. Le basi di questo edificio sono così forti, così ben piantate che non avrebbero ceduto nemmeno davanti a una sentenza d'ergastolo. Per un caso curioso, queste realtà sono le stesse che hanno invaso una cospicua parte - si parva licet - della mia modesta esperienza di cittadino della Repubblica nata nel 1946. Si direbbe che i grandi protagonisti di queste lettere, la famiglia, lo Stato, la politica, abbiano descritto nel piccolo buio della mia vita privata una traiettoria esattamente contraria a quella che si disegna nella luminosa vita di Foa. Nell'esperienza di Foa, queste realtà sono espressioni positive e trionfanti. Nella mediocrità e nel disordine della mia esperienza, sono state altrettante frustrazioni e delusioni. Tre realtà negative. Tre assi traballanti, tre legni in abbandono, trascinati da mezzo secolo alla deriva. Mi sbarazzo subito della famiglia. Regna nelle lettere di Foa una gioia di comunicare coi propri famigliari, simili a un dono che viene dal cielo, e fa tutt'uno con la capacità di amarsi. E' un privilegio che non mi è stato concesso.
[.....]
Quale uomo politico è stato più "virtuoso" di Foa? L'esercizio della politica ha coinciso in lui, come in tanti altri, con l'antifascismo. La gioia di avere "avuto ragione" è la gioia che gli invidio di più. Quella gioia è stata un punto d'arrivo, non di partenza, una realtà, non un fantasma dell'immaginazione. Essa offre ancora all'ottimismo una garanzia senza limiti di tempo. Offre a un antifascista l'opportunità di pensare se stesso come un politico, di chiudere il secolo in perfetta soddisfazione e letizia, d'illudersi che l'esercizio della politica sia ancora quella prova di coraggio e d'intelligenza che qualche giovane dava mezzo secolo fa, e non lo spettacolo così deprimente per il quale tutti abbiamo pagato, e che tutti abbiamo ormai sotto gli occhi."
Cesare Garboli

*Cesare Garboli, Trasformò il carcere in un privilegio, "La Repubblica", 9 dicembre 1998.


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