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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

28 gennaio 2011

Così la mia nazione ...

[...]
Così la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell'empietà.
E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,

 e la governa. Non ha certo rimorso,
chi non crede in nulla, ed è cattolico,
a saper d'essere spietatamente in torto.
Usando nei ricatti e i disonori
quotidiani sicari provinciali,
volgari fin nel più profondo del cuore,
vuole uccidere ogni forma di religione,
nell'irreligioso pretesto di difenderla:
vuole, in nome d'un Dio morto, essere padrone.
Qui, tra le case, le piazze, le strade piene
di bassezza, della città in cui domina
ormai questo nuovo spirito che offende
l'anima ad ogni istante, - con i duomi,
le chiese, i monumenti muti nel disuso
angoscioso che è l'uso d'uomini
che non credono - io mi ricuso
ormai a vivere. Non c'è più niente
oltre la natura - in cui del resto è diffuso
solo il fascino della morte - niente
di questo mondo umano che io ami.
Tutto mi dà dolore: questa gente
che segue supina ogni richiamo
da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,
adottando, sbadata, le più infami
abitudini di vittima predestinata;
il grigio dei suoi vestiti per le grigie strade;
i suoi grigi gesti in cui sembra stampata
l'omertà del male che l'invade;
il suo brulicare intorno a un benessere
illusorio, come un gregge intorno a poche biade;
la sua regolarità di marea, per cui resse
e deserti si alternano per le vie,
ordinati da flussi e da riflussi ossessi
e anonimi di necessità stantie;
i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema,
il cuore tetramente arreso al quia...
E intorno a questo interno dominio
della volgarità, la città che si sgretola
ammucchiandosi, brasiliana o levantina,
come l'espressione di una lebbra
che si bea ebbra di morte sugli strati
dell'epoche umane, cristiane o greche,
e allinea tempeste di caseggiati,
gore di lotti color bile o vomito,
senza senso, né di affanno né di pace;
sradica i riposanti muri, i gomiti
poetici dei vicoli sui giardini interni,
i superstiti casolari dalla tinta di pomice
o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano
beati, i selciati striati di una grama
erbetta, i rioni che parevano eterni
nei loro lineamenti quasi umani
di grigio mattone o smunto cotto:
tutto distrugge la volgare fiumana
dei pii possessori di lotti:
questi cuori di cani, questi occhi profanatori,
questi turpi alunni di un Gesù corrotto
nei salotti vaticani, negli oratori,
nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti:
forti di un popolo di servitori.
[...]
Pier Paolo Pasolini
 
 
*P.P. Pasolini, La religione del mio tempo (1957-59) [leggi tutto]
 
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27 gennaio 2011

Bellezza è dignità

"[...] Per lungo tempo nella mia vita ho trovato riparo nella bellezza, e ora mi è fatica enorme trovarne. Io sono nato nella bellezza, anche se sono dovuto andare a scuola un bel po' prima di sentirne pronunciare il nome. Di certo in casa mia non ne ho mai sentito parlare: lì la bellezza non la sapeva dire nessuno, la bellezza la facevano, ognuno la sua parte. E sono cresciuto educato a riconoscerla, ovunque, e a provarci a farla io stesso. Quella che conosco io, quella che ripara me, come riparava gli uomini e le donne che mi hanno cresciuto dalla miseria delle loro vite, dalle sconfitte e dalle mortificazioni del quotidiano dei miserabili, è la bellezza inevitabile, evidente, plasticamente materiale, di una cosa ben fatta. Una cosa ben fatta è una cosa bella. Mi è stato insegnato a potare una vigna che ero un ragazzino, e una buona potatura è bellezza; la vedevo, e so vedere ancora in un filare ben potato un'armonia, un nitore, un'eleganza che è pura, gratuita bellezza. Allo stesso modo un buon pane è bellezza, una casa, un orto, una bicicletta ben fatti. Ho imparato per tempo che la bellezza è opera della dignità, e c'è dignità principesca in ogni uomo che sappia far bene una cosa, così come c'è infinita dignità in ogni cosa bella, veramente bella, fosse un'automobile che non potrai mai avere o la giacca che stai portando addosso. E come mi conforta la vista di un filare di vigna ben lavorato, così mi conforta ogni altra cosa che sia colma della bellezza della sua splendente utilità. Per questa ragione me la sono cavata in ogni epoca e in ogni luogo, anche nei peggiori, più oscuri e infami. Perché ho trovato ovunque da mettermi al riparo di un fatto di bellezza; c'è sempre un uomo, o un'impresa di uomini, ovunque e in ogni tempo ripeto, che non rinuncia al suo gesto di bella dignità. Sì, la bellezza ripara dalla rassegnazione, dal cinismo, dalla sconfitta definitiva. Questo in una bidonville di Rio, figuriamoci a casa mia, nel mio paese."
Maurizio Maggiani


*M. Maggiani,  Bellezza , "Io Donna", dicembre 2010.
http://www.mauriziomaggiani.it/

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Quando l’Italia ritornò in Europa

"[...] Se fossi professore di storia e letteratura in una scuola della Repubblica, non avrei bisogno delle circolari ministeriali per cogliere al volo l’occasione offerta del 150˚ anniversario. Potrei cercare di raccontare le tappe di un processo che entusiasmò le classi liberali di tutta l’Europa. Potrei parlare di uomini e donne che ebbero in quegli anni una straordinaria notorietà internazionale ed esercitarono una grande influenza su tutti i movimenti risorgimentali. Potrei parlare dell’entusiasmo con cui Garibaldi fu accolto a Londra nel 1864, della venerazione suscitata dalla personalità e dagli scritti di Mazzini, dell’interesse con cui venivano lette le opere di Silvio Pellico, Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti, Massimo D’Azeglio, dell’attenzione con cui tutti i governi seguivano le magistrali mosse di Cavour. Non nasconderei naturalmente l’opposizione di Pio IX, la diffidenza degli Stati conservatori, l’ostilità dei gesuiti, l’incredulità di intellettuali come Pierre-Joseph Proudhon, autore di articoli contro l’unità italiana che sono stati recentemente pubblicati nella traduzione di Paola Giglio per l’editore Miraggi di Torino. Ma che cosa erano quelle opposizione e ostilità se non la dimostrazione dell’importanza di ciò che stava accadendo allora in Italia? Non occorre essere piemontesi o ammiratori dei Savoia per constatare che l’Unità d’Italia fu, come quella della Germania, un evento europeo destinato a modificare tutti gli equilibri politici del continente. Non occorre essere laici o, peggio, anticlericali, per ricordare che il compimento dell’Unità a Roma nel 1870 segnò la fine del potere temporale: un evento che persino la Chiesa, oggi, considera provvidenziale. Non è necessario essere nazionalista per osservare che nel 1861, dopo tre secoli di umiliazioni e declino, l’Italia ritornò finalmente in Europa."
Sergio Romano

estratto dal "Corriere della sera", 26 gennaio 2011.

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23 gennaio 2011

La parola ascoltata

Lectio Magistralis di Roberto Saviano
Università degli studi di Genova, 22 gennaio 2011

(estratto da "Repubblica", 23 gennaio 2011)


"È difficilissimo in questa fase storica italiana parlare al grande pubblico di come la parola possa contrastare un potere fatto di grandi capitali, di eversione, di forza militare, di grandi investimenti internazionali. Ogni volta che mi trovo a parlare nelle università piuttosto che in tv, c'è sempre dell'incredulità: come è possibile che lobby così potenti possano avere paura della parola?
In realtà forse la dinamica è un po' più complessa. Non è la parola in sé, scritta, pronunciata, dichiarata, ripresa, quella che fa paura. È la parola ascoltata, sono le persone che ascoltano e che fanno di quella parola le proprie parole. È questo che incute timore alle organizzazioni criminali. Paura che non riguarda semplicemente la repressione, loro la mettono in conto, come mettono in conto il carcere. Ma quasi mai mettono in conto l'attenzione nazionale e internazionale. Che poi significa semplicemente una cosa: significa dire che queste storie non riguardano solo gli addetti ai lavori, i politici locali, i magistrati, i cronisti, ma riguardano anche noi. Quelle storie sono le nostre storie, quel problema è il nostro problema, e va risolto perché è come risolvere la nostra stessa esistenza.
Raccontare è parte necessaria e fondamentale del diritto. Non raccontare è come mettere in discussione il diritto. Può sembrare un pensiero astratto ma quando si entra in conflitto con le organizzazioni, il loro potere, il loro modo di fare, allora si inizia a capire. E si capisce perché, non solo in Italia, c'è chi investe energie e interviene non sul racconto delle cose, ma su chi le racconta. Come se il narratore fosse responsabile dei fatti che sta narrando. Si invita per esempio a non raccontare l'emergenza rifiuti a Napoli per non delegittimare la città: quindi non sono i rifiuti che delegittimano la città ma chi li racconta. Se un problema non lo racconti, e soprattutto se non lo racconti in televisione, quel problema non esiste. È una sorta di teoria dell'immateriale, ma in realtà fa capire quanto sia fondamentale la necessità di raccontare.
Non è una particolarità italiana, dicevo. In Messico per esempio negli ultimi sei mesi sono stati ammazzati 59 giornalisti: ragazzi che avevano aperto dei blog, che avevano fondato delle radio, giornalisti delle testate più importanti. Caduti per mano del narcotraffico, che è oggi il più potente del mondo e che ha deciso di impedire la comunicazione di quello che sta succedendo in Messico con una scelta totalitaria, nell'eliminazione sistematica di chiunque tenti non solo di raccontare. Qualsiasi persona che inizi a raccontare diventa immediatamente un nemico, un pericolo perché accende la luce, anche piccola, ma che può interessare.
Ricordo una persona che ho molto stimato, e avevo conosciuto quando decise di esprimermi solidarietà nei momenti più difficili della mia vita: Christian Poveda. Aveva deciso di andare in Salvador a raccontare la Mara Salvatrucha, potentissime bande di strada che controllano lo spaccio della coca. Poveda li riprende con il loro consenso e ne fa un documentario dal titolo La vida loca, meravigliosamente tragico, forte perché anche lì c'è quel principio: queste storie diventano le storie di tutti. Ebbene Poveda con questo documentario comincia ad accendere luci ovunque, anche sui rapporti tra le Maras e la politica. Iniziano ad arrivare i giornalisti. E il 20 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che muore in totale silenzio, sia in Italia che in Europa, lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: hai scritto di queste cose, o meglio hai ripreso questo cose, non puoi che essere condannato.
Spesso la morte non è neanche la cosa peggiore. Chi prende questa posizione, chi usa la parola per raccontare, per trasformare, paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell'isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova vive il periodo della rivoluzione bolscevica, il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un'immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l'espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta il secondino la riconosce: "Ma lei è Anna Achmatova". Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: "Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo". Lì c'è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all'improvviso la speranza. I versi diventano la speranza: può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare.
Mi sono sempre chiesto come si fa a vivere così, come hanno fatto queste persone a sopportare decenni di delegittimazione, per aver scritto poesie o anche solo delle canzoni. Come è successo a Miriam Makeba, a cui il governo bianco sudafricano ha inflitto trent'anni di esilio per il disco "Pata pata", una canzone che racconta di una ragazza che vuole solo danzare, divertirsi, che vuole essere felice. Ma questo fa paura, voler vivere meglio fa paura, Miriam Makeba fa paura. E più canta nei teatri di tutto il mondo, più l'Africa intera si riconosce in quella canzone, che non parla di indipendenza, di lotta ai bianchi, ma di voglia di vivere e felicità. Fin quando non arriva il governo Mandela che la richiama in Sudafrica. È anche questa l'incredibile potenza della parola. Per questo sono convinto che il racconto sia parte del diritto, non può esistere il diritto senza racconto. Ma oggi, e non è solo la mia opinione, in Italia chi racconta ha paura. Certo, siamo in una democrazia, non abbiamo a che fare con un regime, con le carceri. Non siamo in Cina. Ma non si può negare che chiunque oggi decida di prendere in Italia una posizione critica contro il potere, contro il governo, rischia la delegittimazione, rischia di essere travolto dalla macchina del fango. Quando accende il computer per iniziare a scrivere sa già cosa gli può succedere. La formula è scientifica e collaudata: "Se tu racconti quello che dai magistrati è considerato un mio crimine, io racconto il tuo privato. Tutti hanno scheletri nell'armadio, quindi meglio che abbassiate lo sguardo e molliate la presa".
Ma per gli intellettuali raccontare è una necessità, comunque la si pensi. E in queste ore il loro compito è quello di dire che non siamo tutti uguali, non facciamo tutti le stesse cose. Certo, tutti abbiamo debolezze e contraddizioni, ma diverso è l'errore dal crimine, diversa è la corruzione dalla debolezza. Mentre si cerca di far passare il concetto che siamo tutti "storti" per coprire le storture di qualcuno. Oggi si parla molto di gossip e il gossip è rischioso, perché lo si usa per nascondere i fatti emersi dalle inchieste e per dimostrare che "fanno tutti schifo". E il compito, ancora una volta, delle persone che ascoltano, che scrivono e che poi parlano, è quello di discernere, di capire, ovunque esse siano, con i figli a tavola, nei bar, comunque la pensino.
C'è una bellissima preghiera di Tommaso Moro: Dio aiutami ad avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di sopportare le cose che non posso cambiare ma soprattutto dammi l'intelligenza per capire la differenza. Questo è il momento in cui in noi possiamo trovare la forza di cambiare e comprendere finalmente che non dobbiamo credere che tutto quello che accade sia inevitabile e quindi soltanto sopportare.
Infine, dedico questa laurea e questa giornata, che ovviamente non dimenticherò per tutta la vita, a tre magistrati: alla Boccassini, a Forno e a Sangermano, che stanno vivendo, credo, giornate complicate solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia.
 
Roberto Saviano
Genova, 22 gen. 2011
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22 gennaio 2011

Tullia Zevi

[...] Mussolini diceva che gli italiani erano un popolo di eroi, di navigatori e di poeti. Quasi tutti i popoli si scelgono degli eroi e li erigono a simbolo della nazione. Io non so se di eroi abbiano veramente bisogno i popoli, le nazioni, ma so che di uomini come Leo Valiani, come Carlo e Nello Rosselli è e sarà sempre molto difficile colmare il vuoto.
E a noi cosa rimane da fare? A noi spetta il compito di onorare la loro memoria e di continuarne l'opera. Per un'Italia che sia di cittadini consapevoli dei loro diritti, ma anche dei loro doveri e ben integrata in un'Europa che non sia solo dei mercati e delle borse, ma che sappia vivere attuando profondamente i principi di giustizia e di libertà".
Tullia Zevi
1919-2011
 
 
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13 gennaio 2011

Un figlio a tutti i costi

[...] Il desiderio appartiene alla sfera privata e nessuno può intervenire. Nel caso dei figli, però, il privato è anche necessariamente pubblico. O almeno sociale. Non solo perché il desiderio riguarda una terza persona, che ancora non esiste e che, in fondo, non ha chiesto nulla. Ma anche perché i figli, nel momento in cui nascono, non appartengono più solo ai genitori ma cominciano a far parte di una comunità più vasta. Certo, nessuno ha il diritto di giudicare i desideri degli altri. Non esistono dei "buoni desideri" e dei "cattivi desideri". Esattamente come non esistono delle persone che meritano o meno di diventare genitori. Il desiderio di avere un figlio è sempre complesso e ambivalente. Si può voler un figlio per colmare un vuoto, per avere un erede, per riparare qualcosa della propria storia familiare, per proiettarsi nel futuro, per lasciare una traccia in questo mondo… Esattamente come, nel passato, lo si poteva volere perché succedeva, per abitudine, per rispettare le tradizioni… In fondo poco importa. Se si vuole un figlio, è inutile cercare di capire le ragioni precise di questo desiderio. Non esiste un modello perfetto di genitore capace di garantire l´equilibrio e la serenità dei figli. Quando sono piccoli, fragili e sprovvisti di tutto, i bambini hanno bisogno che qualcuno si occupi di loro. Poco importa se esiste o meno un legame biologico tra figli e genitori. Poco importa se i genitori sono eterosessuali o omosessuali. La funzione paterna o materna può essere assunta anche dagli zii, dai nonni, dai cugini. Anche l´età dei genitori, in fondo, è relativa. Ciò che conta è che i genitori si occupino dei figli avendo la consapevolezza che non si tratta solo di "oggetti", di qualcosa che hanno desiderato tanto e che, quando arriva, appartiene loro per sempre. Essere genitori significa permettere ai figli di crescere, di imparare ad "arrangiarsi da soli", di rendersi progressivamente indipendenti. Essere genitori, più che un diritto, è un dovere. Primo fra tutti, il dovere di "adattarsi" a queste creature che sono nate senza averlo chiesto e che devono poter avere la possibilità, crescendo, di prendere le distanze dal modello materno o paterno che hanno conosciuto. Per diventare adulti, autonomi e liberi anche loro di avere dei desideri da soddisfare."
Michela Marzano

*M. Marzano, Il nuovo desiderio di un figlio a tutti i costi, Repubblica 13 gennaio 2011.


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08 gennaio 2011

La scomparsa della memoria

"Il Presidente della Repubblica, nel suo messaggio di fine anno, ha fortemente sottolineato come, senza memoria del proprio passato, un Paese— l’Italia— non abbia futuro. Giusto richiamo al senso che devono avere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, soprattutto per capire «il decisivo avanzamento» e insieme i problemi aperti dal processo di unificazione. Il richiamo alla memoria, al suo valore non solo conoscitivo, ma etico e civile, è fondamentale. Purtroppo, nel panorama attuale, non è solo la memoria storica, diremmo collettiva, che rischia di venir meno: anche la memoria come facoltà individuale di ricordare, di costruire la propria cultura, la propria identità, si è venuta perdendo. Forse da quel ’ 68 di cui non abbiamo ancora finito di scontare le pulsioni irrazionali: cominciò allora la lotta contro la memoria, cancellandola anzitutto— grazie ai pedagogisti di quella generazione — dalla pratica scolastica. Imparare a memoria fu denunciato e abolito come prassi autoritaria e repressiva: oggi, il caso è esemplare, in tutto il percorso delle scuole elementari e medie, non si imparano più a memoria i grandi testi letterari, soprattutto poetici, creando nei processi formativi e nella costruzione del nostro sapere un vuoto che diviene più tardi incolmabile. La polemica contro l’imparare a memoria ha travolto anche tutto quel complesso di conoscenze (bollate come «nozionismo» ) che ci legano alla nostra storia. Dimenticando che sapere è ricordare, si è rinunciato non solo a tutto un patrimonio di riferimenti fondamentali (perché ricordare nomi, eventi, date appare repressivo), ma anche al piacere di recitare e ripercorrere fra sé e sé testi esemplari, quelli che hanno accompagnato la storia dell’umanità e la formazione stessa dell’identità italiana e che sono — o dovrebbero essere — una componente essenziale dell’esperienza culturale e civile di ognuno. Mentre qualcuno pensa di poter sostituire la memoria elettronica alla nostra esperienza interiore, si è perduto anche quello che può costituire non solo una ricchezza di cui nessuno ci può espropriare, ma il rifugio ultimo della nostra vita quotidiana, l’estrema via d’uscita dalle situazioni più disperate. Nessuno oggi sembra capire la forza della memoria, il suo potere liberatorio: quello che fu vissuto da Primo Levi quando— compiendo una pesante corvée nel campo di sterminio ove era prigioniero — trovò ancora la forza di continuare recitando a memoria, a voce alta perché lo ascoltasse e in parte lo capisse il suo compagno Pikolo, il dantesco canto di Ulisse: allora «per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono» , cogliendo, scrive, «nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui»."
Tullio Gregory


*T. Gregory, La scomparsa della memoria,  "Corriere della Sera", 5 gennaio 2011.

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