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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

21 febbraio 2011

Promemoria

"[...] E’bene partire dalla scuola. Che è nata con l'Italia unita. Prima c'erano i precettori presso i ricchi. E le scuole strettamente confessionali. E' merito del regno sabaudo e della destra storica se la scuola fu subito resa pubblica e obbligatoria. E' stato il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso a tutta l'Italia che ha dato il via all'alfabetizzazione del paese. Un'opera titanica: l'analfabetismo maschile era al 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia meridionale. Un'opera che è continuata lungo i decenni nelle scuole la mattina e in quelle serali e poi via radio e con i primi anni della televisione pubblica. Un'opera che è stata compiuta all'inizio da maestri, che furono spesso promotori delle grandi culture politiche che hanno forgiato il paese: liberalismo, anarchismo, socialismo, cattolicesimo sociale; e da poche maestre, che diffusero per prime le ragioni del movimento delle donne. Questo esercito civile ha popolato la vita di città e campagne insegnando a milioni di bambini a leggere, scrivere, far di conto, conoscere la storia, le scienze, la geografia. Con i soldi dello Stato. E non più grazie alla pia carità dei fedeli né sotto l'imprimatur sui libri siglati dal Papa.
Dunque, va ricordato che l'unità è stata anche il poter leggere del bambino veneto come di quello calabrese. Che è avvenuto entro un modello di scuola pubblica che ha sempre saputo affiancare lo sviluppo della nostra meravigliosa lingua al rispetto per le lingue locali. E che questo ha prodotto, per oltre un secolo, una faticosa ma costante mobilità sociale.[...]"
Marco Rossi-Doria

*M. Rossi-Doria, Ripartiamo dalla voglia di educare, La Stampa, 21 feb. 2011.






19 febbraio 2011

C'è da cantare e da far festa

"Aprire gli occhi alle sette meno un quarto del mattino. I figli stanno per andare a scuola. Tendi l’orecchio: mentre si lava la faccia, uno di loro canta. Canta l’inno di Mameli, con quella voce appena arrochita che viene ai maschi, a quindici anni. Resti a ascoltare stupita. Come mai Mameli?, gli domandi, quando s’affaccia in cucina. Mamma, risponde, vai su Youtube a vederti Benigni sul Risorgimento, è stato bellissimo. Bello, davvero. Bello e inusuale, oggi, sentire parlare d’Italia a quel modo: con memoria e gratitudine. Ci voleva un poeta per osare, in tempi avviliti e rabbiosi, parlare così dell’Italia. Perché i poeti, come ha detto Benigni, sono spinti dal desiderio. E il desiderio è il motore grande che muove la storia e i popoli: il desiderio di un bene comune, di continuare, e tramandare passioni e memoria nei figli. Ci voleva anche un po’ di coraggio, in questo febbraio 2011, per esortarci all’«allegro orgoglio» di appartenere al luogo in cui viviamo, al popolo da cui veniamo; per dirci che «occorre volere bene al Paese in cui si è nati». Benigni ha avuto questo coraggio, in tempi in cui da tv e giornali ci si rovesciano addosso ogni giorno cronache di miserie e insulti. Ci ha raccontato da quanto lontano viene la nostra storia, e quanta bellezza ha creato, e in quanti sono morti per raggiungere quell’unità d’Italia che oggi è scontata o contestata. Da Balilla ai Carbonari, da Mazzini a Garibaldi a Pisacane, Benigni ha raccontato il Risorgimento come un’opera "visionaria e carnale": la resurrezione del corpo dell’Italia dilaniato dai dominatori stranieri. Retorica? Forse, anche, perché quegli anni come tutte le epoche hanno avuto le loro ombre e vittime, e i padri della patria non erano santi, e i garibaldini men che meno. Ma in un tempo di avvilimento e veleni è controcorrente la splendente retorica di Benigni: a ricordare a noi ex studenti distratti la nostra storia piena di eroi e passioni e peccatori. A dirci anzi che se apriamo gli occhi, questo nostro è un Paese grande e «memorabile». [....]".  Marina Corradi,  C'è da cantare e da far festa, "Avvenire", 19 febbraio 2011. 

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"[...] Roberto Benigni a Sanremo, come Roberto Saviano a Vieni via con me, non ha fatto calcoli. Si sono lanciati entrambi in un´impresa teoricamente senza speranze nel paese berlusconizzato da vent´anni. E proprio a partire dal luogo più berlusconizzato: la televisione. Non la satira, che può ancora starci, ma un linguaggio, un modo di comunicare «a prescindere» dal berlusconismo. Un tono alto, serio, appassionato. Un appello al popolo senza populismo: l´esatto opposto del berlusconismo. Quello di cui ha bisogno il Paese più profondo. Quello che non sa bene chi siano stati Mameli e Novaro, ma neppure Cavour e Mazzini e Garibaldi, ma oggi ha bisogno di sentirseli raccontare. Di sentirsi raccontare la bellezza infinita dell´Italia, nonostante tutto. Questo modo di agire si chiama inseguire il bene comune. Una volta lo faceva la politica. Da tempo la politica non lo fa, e allora arrivano gli artisti, gli scrittori, gli attori, i comici. Non è la prima volta che accade in Italia. Anzi, come ha spiegato lo stesso Benigni nella sua lezione, nella nostra storia è stato quasi sempre così. L´Italia è l´unica nazione nella storia del mondo dove la cultura unitaria sia venuta molto prima dell´unità politica. Perché per nessun altro popolo, per nessun´altra storia è stata tanto importante la bellezza. La bellezza vera, che coincide con la verità, non l´estetica o l´immagine, minimi surrogati nei tempi corrotti. In un paese paradossale, stavolta è accaduto che per una volta il giullare abbia impiccato il re. Quella di Benigni è stata una lezione di politica.[...]".   Curzio Maltese, Il giullare rabdomante del sentimento popolare, "la Repubblica", 19 febbraio 2011.

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"[...] Il monologo di Roberto Benigni è stato uno degli spettacoli più belli mai visti in tv. Pensavo, ascoltandolo cantare l’Inno con un filo di voce e senza musica, che non ci vuole solo un coraggio da leoni, una convinzione e una passione formidabili. Ci vuole la certezza che da casa, comunque vada, capiranno. Che ci sono milioni di persone capaci di ascoltare e di sentire risuonare dentro di sè il valore di quel gesto. È vero, ci sono. La lettura di Antonio Gramsci, «odio gli indifferenti», ha detto il resto in quel silenzio. Una mano che ti prende da una spalla e ti solleva. Avanti ora, tutti: è questo il tempo."  Concita de Gregorio, Voler vedere, "l'Unità", 18 febbraio 2011.

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05 febbraio 2011

Vedere le cose

"Sospetto che il bambino colga il suo primo fiore con una percezione della sua bellezza e del suo significato che il futuro botanico non conserverà mai più. Così annotava nel suo diario, il 5 febbraio 1852, lo scrittore americano Henry David Thoreau. Devo confessare di essere sempre conquistato dal modo di giocare di un bambino: prima che sia pervertito dalla playstation e dai giochi elettronici, egli si accosta a un oggetto con una sorprendente girandola di gesti, di movimenti, di sguardi. Egli compie veramente l'atto primordiale dell'affacciarsi sul mondo con meraviglia per scoprirne le meraviglie («il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non di meraviglie», osservava acutamente lo scrittore inglese Chesterton). È ciò che noi, frettolosi consumatori di tecnologia, non proviamo più. Siamo forse capaci di «vedere un mondo in un granello di sabbia, e un cielo in un fiore selvaggio, l'infinito in un palmo di mano e l'eternità in un'ora?», come cantava il poeta inglese William Blake? Il botanico non ha più nulla dello stupore del bambino davanti al fiore, alla sua corolla, ai suoi colori. Egli classifica, cataloga, notomizza, disseziona, verifica, esamina, ma non riesce più a godere il fascino della bellezza. Il poeta irlandese contemporaneo - sono i veri poeti i grandi maestri della contemplazione - Seamus Heaney, Nobel 1995, ha intitolato una sua raccolta Seeing Things. Sì, abbiamo bisogno di ritornare a «vedere le cose», anzi - come sottintende la frase inglese - ad «avere la visione» profonda della realtà, dei volti, degli oggetti, dei segni, dei colori, della vita. E per far questo bisogna sapersi fermare, sostare, stare in silenzio, contemplare."
Gianfranco Ravasi


*G. Ravasi, Vedere le cose, "Avvenire", 5 feb. 2011 [rubrica "Mattutino"]
*Link alla rubrica di G. Ravasi "Mattutino"






03 febbraio 2011

Scegliere

"La vigliaccheria chiede: «È sicuro?». L'opportunità chiede: «È conveniente?». La vanagloria chiede: «È vantaggioso?». La vera misura di un uomo si vede non nei momenti di comodità o convenienza, ma tutte le volte in cui affronta il rischio o la sfida. Vigliaccheria, Opportunità, Vanagloria: sì, sono tre tristi sorelle che passeggiano per le strade della storia col loro corteo di adepti. Ce lo ricorda nelle righe sopra citate un personaggio che le ha sempre snobbate, Martin Luther King, imboccando invece le vie del coraggio, del rischio, della laboriosa umiltà. E a lui, assassinato a Memphis nel 1968 a 39 anni, s'adattavano pienamente le parole del Giulio Cesare di Shakespeare: «I vigliacchi muoiono molte volte prima di morire, mentre i coraggiosi provano il gusto della morte una sola volta». Egli non calcolava il vantaggio personale, l'interesse privato, come gli suggeriva l'Opportunità, né misurava tutto il suo impegno sul successo promesso dalla Vanagloria. Purtroppo, però, dobbiamo riconoscere che lo stile di vita celebrato dalla società contemporanea è tutto racchiuso in quella trilogia. Ciò che è sicuro, che conviene ed è vantaggioso è l'unità di misura costante adottata a partire dai politici, scendendo giù fino al popolo. Scegliere, invece, la giustizia, l'amore, l'impegno per gli altri è un rischio che si cerca di evitare. Ed è così che si diventa meschini, gretti, mediocri; si è incapaci di un atto libero e gratuito, al punto tale che, se qualcuno si rivela generoso, viene sospettato di inganno o bollato di ingenuità (forte ma vera è la frase di uno dei "cafoni" del Fontamara di Silone: «Se è gratis, c'è l'inganno!»). La lezione evangelica del perdere per trovare è aborrita dalle tre sorelle, per esse il dare non è più gioioso del ricevere; ma alla fine, una vita senza rischio o sfida, senza generosità e libertà è simile a un noioso pomeriggio invernale trascorso in casa, lasciando gocciolare le ore".
Gianfranco Ravasi

*G. Ravasi, Tre tristi sorelle, "Avvenire", 1 febbraio 2011 (rubrica "Mattutino").

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