"[...] io e mia figlia potremmo concordare in questo: ch'ella possa, e anzi debba odiare, l'antiquato che ci fosse in me, il superato, il retrivo, ma non odiare l'antico. Ho paura di una sua rivoluzione inconsulta; mia figlia dovrebbe sfrondarmi a colpi di accetta dei miei rami morti o morenti, ma risparmiare le mie radici. Lei non lo sa, o non vuole accorgersene ma le miei radici si protendono fino a lei. È verissimo che solo i nuovi e i diversi sanno rivoluzionare il mondo e hanno ragione di farlo; è verissimo che non ci vuole troppa comprensione né troppa compassione da parte di chi vuoi rifare tutto e dare una scossa definitiva a ciò che è maturo e indugia troppo a cadere. Ma questo è un problema di mezzi, di forze strumentali, non di principi e non di fini. lo sono convinto che le rivoluzioni profonde le compie chi sa quel che perde e non certamente chi non lo sa; i grandi eversori della storia sono nati in famiglie che conoscevano i beni della vita, della potenza e non erano solo pieni di disprezzo per tutto; gustavano le tradizioni e perciò quanto meglio le conoscevano tanto più dirittamente sapevano rinunciare e colpire, abbattere. Il disprezzo che ha mia figlia (naturalmente mitigato dall'affetto) per le mie abitudini e i miei "passatismi" è quel che le servirà per allontanarsi definitivamente dalla pianta paterna, ma non quello che le basterà per creare a se stessa il nuovo nido: ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero."
Franco Antonicelli, 1968
* "La Repubblica", 3.11.2014.
___