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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

06 giugno 2008

Clandestini

Marco Belpoliti
Come ti addomestico il clandestino. Un fenomeno globale dalle radici antiche
“La Stampa”, 6 giugno 2008.

Noi siamo gli stranieri, i clandestini, noi uomini e donne soltanto vivi e noi ti chiediamo asilo asilo», così cantano i Clopin, gli zoppicanti, entrando in scena in Notre Dame de Paris, il musical di Riccardo Cocciante, traducendo con la parola «clandestino» il termine francese Sans papier. Nella lingua italiana clandestino è «colui che viaggia di nascosto», ma anche «chi agisce in segreto contro precisi decreti», dal francese clandestin, termine diffuso nel XIV secolo. In un altro significato, la clandestinità è poi legata all'azione politica: le società segrete dei «carbonari» nel Risorgimento, i partigiani nella Resistenza. E persino i clandestini della lotta armata negli anni Settanta del XX secolo a cui Antonio Moresco ha dedicato in Clandestinità (Bollati Boringhieri) una vera e propria fenomenologia del vivere nascosti (clam, dal latino: «di nascosto»). Oggi i clandestini sono coloro che sono entrati di nascosto in Italia, che vivono privi di documenti o di permesso di soggiorno (i francesi Sans papier), occultati, eppure ben presenti in mezzo a noi. La parola clandestino si è sostituita a un'altra che sino a qualche tempo fa indicava la presenza di persone «diverse»: straniero. In un capitolo della sua Sociologia, pubblicata nel 1908, Georg Simmel il maggior sociologo del XX secolo, spiega chi sia lo straniero. Per lui l'elemento spaziale è essenziale. Vicinanza e distanza sono i due parametri decisivi. Se la distanza nel rapporto, scrive Simmel, significa che «il soggetto vicino è lontano», lo straniero, il cui etimo rimanda a «estraneo», è propriamente «il lontano che è vicino». Lo straniero è tale solo se si trova in mezzo a noi. Simmel pensava agli Ebrei che vivevano nella società tedesca dell'Ottocento. Attualmente al vocabolario delle vicinanze e delle lontananze si aggiunta una parola, differenza, declinata di solito al plurale, che tende a definire in termini culturali la figura dello straniero. Michel Wieviorka, sociologo francese, in L'inquietudine delle differenze (Bruno Mondadori) racconta la storia di un gruppo di giapponesi, i nikkeijin. Si tratta di giapponesi emigrati negli anni Venti del XX secolo in Brasile. Istruiti e colti, dotati di laurea, essi s'impiegano come professionisti e ingegneri, ma negli anni Settanta e Ottanta, a seguito di una crisi economica, decidono di fare ritorno in patria. Del tutto simili fisicamente ai compatrioti, divengono immediatamente oggetto di discriminazione, forma atipica di razzismo. I nikkeijin si sentivano mentalmente diversi dai loro compatrioti: avevano nostalgia per il Brasile, guardavano la televisione brasiliana, leggevano i giornali brasiliani, tuttavia non avevano assolutamente voglia di fare ritorno là. Estranei sia in Giappone sia in Brasile. Chi sono i nikkeijin, stranieri o differenti? Wieviorka ci ricorda che l'identità degli stranieri presenti in Francia, come in Italia, si costruisce con modalità diverse dal passato. Alla memoria della propria origine, del paese da cui provengono, si affianca l'identità alimentata da simboli, immagini, suoni, parole che circolano attraverso internet, telefono e cinema, ovvero i mezzi di comunicazione di massa su cui l'antropologo Arjun Appadurai ha attirato la nostra attenzione. Wieviorka aggiunge un ulteriore elemento su cui riflettere: quando chiediamo, scrive, in una ricerca ai giovani musulmani delle periferie francesi qualcosa circa la loro religione, questi rispondono che non sono musulmani per via della loro famiglia o dell'educazione, bensì «per scelta personale». La decisione è il frutto della loro soggettività. Accanto al crescente peso delle reti - umane, culturali, politiche, religiose, economiche - nella globalizzazione s'afferma il valore del soggetto, una forma di individualismo che pare sfuggire alla logica dei vecchi sistemi, o che resiste tenacemente ad essi. Il soggetto non è l'attore, precisa il sociologo francese, ma «il carattere creatore dell'agire umano». Nei ragazzi delle banlieue, il soggetto autoafferma se stesso, il proprio corpo, la propria capacità creativa, ma anche distruttiva, cosa che accade anche in altri contesti e gruppi come le bande giovanili e gli ultras, o altre tribù metropolitane descritte da elementi sempre più ibridi e indefinibili, al di là delle vecchie ideologie identitarie dell'occidente come si è visto di recente. Il filosofo Pier Aldo Rovatti in un piccolo libro, Possiamo addomesticare l'altro? La condizione globale (Forum), cerca di mettere a fuoco ulteriormente il problema; vi sostiene che noi viviamo sempre più in comunità autocoercitive, in cui i luoghi si stringono e riducono in modo vertiginoso, mentre al tempo stesso lo spazio sembra dilatarsi in «un continuum senza intervalli né pieghe, sconfinato, ma in effetti assai ristretto», che paradossalmente percorriamo con facilità e a grande velocità. Usando un'espressione del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, «esonero» (o sgravio), Rovatti sostiene che gli abitanti dei paesi occidentali si sentono esonerati, sgravati del senso e della finalità del loro agire. Forse è proprio per questo che in occidente «l'individuo è diventato un se stesso senza luogo», un nomade sedentario, condizione che rende difficile l'accettazione delle differenze e insieme angoscioso il confronto con i migranti che invece lo percorrono (parola su cui si è soffermata di recente Federica Sossi in Migrare, il Saggiatore). Da un lato, dice Wieviorka, questi individui e gruppi vogliono spostarsi, non vogliono più essere confinati nel contesto di uno Stato-nazione, dall'altro ci sono interi quartieri di Londra o Parigi, o piccole cittadine, dove vivono stranieri che non si muovono mai da lì, e che una volta all'anno prendono l'aereo per andare in Sri Lanka, ma grazie alle antenne paraboliche e internet riescono a mantenere un legame fortissimo con i paesi d'origine. Identità che s'irrigidiscono, differenze che non si accettano. Un cumulo di problemi da cui non è facile estrarre una strategia unica e convincente per uscire dall'attuale impasse in cui si trova l'Europa.

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