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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".
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02 giugno 2022

II politico di valore

"Per la tradizione umanistica italiana, il politico di valore, quello che meglio di tutti è atto a governare, deve possedere alcune qualità che gli derivano dalla conoscenza delle cose del mondo. Evitando le pedanterie limitiamoci a dire che diversi politici, e anche certi commentatori, dovrebbero procurarsi, con una certa urgenza, ciò dì cui oggi sembrano sprovvisti: un po' dï senso della storia."
Angelo Pianebianco

*A.Pianebianco, "Il parlar chiaro che manca", Corriere della sera, 30.5.2022, pp. 1-2

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12 dicembre 2011

Sacrifici

[...] E oggi, incapaci come siamo stati di comunicare la valenza umanizzante dello sforzo e della rinuncia, ci ritroviamo tutti in una cultura impossibilitata a intravedere un orizzonte di bene comune e di speranza, abbiamo assistito al rarefarsi di persone pronte a dedicare tempo, mezzi, energie, beni per una maggiore umanizzazione, per la crescita di una convivenza pacifica, per l’affermazione di valori e principi degni dell’uomo o, ancor più semplicemente, per preparare un futuro migliore per i propri figli. Mancanza davvero grave, perché il sacrificio è una cosa seria: significa privarsi di un bene, astenersi da una possibilità in vista di un bene più grande che, se è tale, riguarda tutti, concerne la communitas e non il mio interesse personale. Spendere le proprie energie, fino al gesto estremo di sacrificare la vita stessa è possibile e doveroso se con quel sacrificio si ottiene giustizia, pace, libertà: quanti uomini e donne nella storia hanno sacrificato tempo, risorse, affetti per la realizzazione di ideali e per sconfiggere l’ingiustizia a beneficio di tutti.
Ma riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita «normale». Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate. Noi abbiamo smarrito il senso della communitas tra contemporanei come di quella che ci lega con responsabilità alle generazioni future: vogliamo leggere, definire, vivere e consumare il nostro orizzonte limitandolo a un «io» narcisistico e prepotente o a un «noi» ristretto e fissato dal nostro vantaggio e non dalla realtà della polis.
Credo che questo smarrimento culturale ed etico abbia profondamente a che fare con l’affievolirsi del «senso» attribuibile ai «sacrifici»: se non ci sono principi condivisi, se non c’è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere.
Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Perché il risultato del sacrificio non è il poterne fare finalmente a meno, bensì l’affermare con la propria vita quotidiana che un altro mondo è possibile, che l’uomo non è nemico dell’uomo e che vi sono principi di equità, di giustizia, di pace, di solidarietà che vale la pena vivere a qualunque prezzo: in fondo, il valore di ogni nostro desiderio è il prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo.[...].
Enzo Bianchi
*E. Bainchi, Sacrifici, segnali d'amore, "La Stampa", 11 dicembre 2011.

09 novembre 2011

La città disciplinata


 
 "[...] La città reale moderna esige non solo la manutenzione dei letti dei fiumi, sacrosanta, ma anche la manutenzione di una sana democrazia. Che non può non essere che una democrazia responsabile, ossia - per dirlo chiaro - disciplinata. Dove la disciplina discende da un rapporto leale tra i cittadini e i loro delegati. Invece un formidabile patto sottinteso tra governanti e governati in Italia fa si che si crei una sorta di città virtuale dove si finge che ci sia una situazione sotto controllo, legale o al massimo invia di legalizzazione. Addirittura per eclissare la realtà dei fatti si sogna una city ideale, magari tutta digitalizzata e ipermonitorata, dove il rapporto tra gli uomini e trai singoli e i governanti sia reso per magia perfetto dal solo ricorso alla tecnologia più avanzata, alla progettistica futuribile. Si dimentica così che la prima "sostenibilità" concreta, materiale della città, risiede nella sostenibilità dei suoi muri, pareti, argini, edifici, scarichi idraulici. E nella concorrenza di tutti a questo fine. Insomma, nella sopravvivenza dei corpi e della anime, raggiunta attraverso l'alleanza consapevole di tutti in ogni gesto quotidiano. Se no finisce che la città reale si vendica della città virtuale." Giorgio Bertone
*G. Bertone, La città reale e quella virtuale, "Il Secolo XIX", 9 novembre 2011.
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28 luglio 2011

La Legge

"[...] Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene. [...]"
Barbara Spinelli

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24 luglio 2011

La verità che non vediamo

"[...] La reazione psico-mediatica all’attentato di Oslo ci dice che, purtroppo, non siamo ancora usciti da quel decennio. E allora torna l’interrogativo di prima: che effetti sta producendo sulla nostra comunità il perdurare di questa forma di paura? L’effetto principale va ricercato nella rimozione di una verità inconfessabile che il paradigma proiezione-esclusione porta sempre con sé. A volte questa rimozione si spinge fino alla denegazione: la verità è lì, davanti agli occhi di tutti, eppure ci si ostina a non vederla. In questo caso, la verità denegata è che buona parte del sentimento e del pensiero reazionario della destra europea - soprattutto quella nordica ma non solo - è fortemente tentato da una deriva violenta, xenofoba e razzista. E’ questo il nemico interno occultato e alimentato dal fantasma del nemico esterno. Diciamolo chiaramente: la guerra tra le razze, che afflisse la parte centrale della storia europea del XX secolo, si affaccia di nuovo all’orizzonte del XXI. Lo spettro del neonazismo si aggira ancora per l’Europa."
Antonio Scurati

*A. Scurati, La verità che non vediamo, "La Stampa", 24 luglio 2011. [leggi tutto]

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16 marzo 2011

1861 - 17 marzo - 2011


"[...] So che tutti quanti passiamo mille volte da via Ugo Bassi, via Fratelli Bandiera, via Saffi, piazza Garibaldi, via Pisacane, piazza Cinque Giornate e largo Aspromonte, ma so che sono nomi che non hanno più voce e non raccontano più nulla. Salvo quello che c’è scritto sotto: patriota. Che poi, per molti di quelli la patria per cui hanno combattuto e sono morti non assomiglia nemmeno un po’ a quella che per loro conto hanno chiamato così. E so che questo obnubilamento, smemoratezza, estraneità, è l’insoluta tragedia, la sconfitta irrimediabile del mio Paese e del popolo di cui sono parte. Un popolo, ogni popolo, ha bisogno di una storia per sé; un racconto per specchiarsi e condividerne il riflesso attraverso le generazioni e le epoche. La storia di un popolo non può che essere ai suoi occhi una storia grande, anzi, grandiosa; ed unica, allo stesso modo che ogni essere umano sente in cuor suodi essere unico, e sa che la sua vita ha diritto ad essere grande. In qualunque condizione di vita si trovi, in qualunque paesaggio si collochi. La storia di un popolo si forma nella materia di racconti straordinari, perché abbisogna per la sua grandiosità non di nude cronache, ma di un costante romanzare. I racconti diventano leggende, le leggende si fanno epopee, e le epopee costruiscono un romanzo epico in continuo movimento. Quel romanzo, nato orale e collettivo, cresce con la scrittura, con le immagini, con la musica, con ogni strumento adatto a perpetuarne il racconto, rendendolo sempre più grande, diffuso, coinvolgente. Un popolo ha nel romanzo di sé il suo motivo fondante, il suo più potente strumento di duratura affermazione, e partecipa del suo racconto come di una realtà irrinunciabile, l’unica adatta a costruire altre realtà molto più pratiche e materiali. Molto prima di farsi nazione, ed accettare e partecipare di vincoli che lo terranno soggetto ad astratti e vincolanti istituti, un popolo ha già elaborato il racconto della sua storia, e quel racconto gli è necessario proprio per arrivare fin lì. E il suo ultimo e più fiero e tragico capitolo è proprio quello che racconta la sua nascita come nazione. Ed è sempre una rivoluzione o una guerra, una guerra sempre civile. Nessuna nazione potrebbe sopravvivere e prosperare sopra il peso dell’infinità sequela di miserie e tragedie, sconfitte e turpitudini, generate dal suo formarsi, se quegli avvenimenti non fossero elaborati e sublimati, resi persino ultra umani in un corale canto epico. Una storia che tutti sanno cantare, e rinnovare, tutte le volte che il popolo è richiamato a farsi nazione. [... leggi tutto]"
Maurizio Maggiani

*estratto da M. Maggiani, Risorgimento, chi ci ha rubato gli eroi? , "La Stampa", 17 gennaio 2010. [leggi tutto]

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21 novembre 2010

Necessità di ricostruire

[...] Il destino del Paese per i prossimi dieci o quindici anni sarà infatti determinato dalla transizione che è iniziata ormai da qualche mese e che continuerà per uno o due anni: così fu nel 1943-46, così nel 1992-94. Ma lo è anche negli effetti. Se avverrà, la «distruzione» potrà essere efficace e duratura a una sola condizione: che essa costituisca il primo passo per dare alla Repubblica la correttezza di funzionamento da tempo scomparsa. Ricostruire non significa dunque cambiare il primo ministro né mutare la composizione della maggioranza. Significa, a mio giudizio, intervenire sulle quattro più gravi patologie dell'Italia di oggi: rapporto tra gli elettori e la politica (legge elettorale in primo luogo), rapporto tra questa e l'informazione (televisioni in primo luogo), funzionamento della giustizia (indipendenza e tempi dei giudizi), rapporto tra Nord e Sud (federalismo). Sono patologie divenute talmente gravi da mettere a rischio la democrazia, lo Stato di diritto e la stessa unità nazionale. Ne sono largamente responsabili anche le forze che hanno governato prima di Berlusconi, il quale deve parte della sua fortuna politica proprio alla promessa (ahimè mancata) di curarne alcune. I rimedi devono perciò agire molto in profondità e non sono né di destra né di sinistra. [...].
Tommaso Padoa-Schioppa

*T. Padoa-Schioppa, La necessità di ricostruire, "Corriere della sera", 21 novembre 2010.

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13 giugno 2010

Tra privilegi e favoritismi

"[....] Antica società di ceti, dominata da una forte rigidità gerarchica, la società italiana si è abituata a considerare il privilegio l’unico contenuto effettivo del rango. Essere qualcuno significa, in Italia, innanzitutto stare al di sopra della massa. E nella Penisola tutti — giornalisti, tassisti, parlamentari, membri di tutti gli ordini professionali, magistrati—tutti vogliono essere al di sopra degli altri, titolari di qualche privilegio: essere esentati da qualche obbligo; avere delle riduzioni; degli sconti o come minimo dei biglietti omaggio; rientrare in un «numero chiuso»; fruire di un’ope legis; godere di un trattamento speciale; magari di una cassa mutua riservata. Ma il massimo del privilegio, la consacrazione del vero privilegiato, sta altrove. Sta nella possibilità di chiedere «favori», e naturalmente di ottenerli. Ed egualmente lì sta la dimostrazione indiscutibile del rango. Infatti si possono chiedere favori solo se si «conosce » (fornitori, nomi importanti, persone in posti chiave), e naturalmente si «conosce» solo se a propria volta si è «conosciuti », cioè se si è qualcuno. [...]
Grazie all’intercettazione telefonica si rompe finalmente l’opacità del grande privilegio sociale, quello dei politici e dei ricchi innanzitutto, e l’aura di riservatezza di cui esso si nutre. Finalmente i discorsi dei potenti sono squadernati nella loro volgare quotidianità, nei loro desiderata, perlopiù inconfessabili, nei loro intrighi, ed esposti una buona volta al giudizio dei più. Nella sua versione italiana l’intercettazione telefonica diventa così la vendetta della plebe sull’oligarchia, la rivalsa della demagogia sulla democrazia. È lo sputtanamento, come è stato esattissimamente detto: lo sputtanamento demagogico, appunto, opposto alla pubblicità democratica. Una forma di giustizia violenta ed elementare, senza appello e senza garanzia alcuna. Una specie di linciaggio incruento. Ciò che è terribile è che la maggior parte di coloro che vivono in questo Paese pensi che sia questa, oggi, la sola forma di giustizia possibile. Ed ancora più terribile è che, probabilmente, hanno pure ragione."
Ernesto Galli della Loggia


*E. Galli della Loggia, L'opacità del potere, "Il Corriere della sera", 12 giugno 2010. [leggi tutto]

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30 maggio 2010

Fine dello show

"[...] Per questo non è appropriato parlare, a proposito della manovra, di sacrifici. Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione, unita a non meno urgenti operazioni verità sulla democrazia minacciata. Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate: il vivere alla giornata, il non guardare lontano, il non voler sapere la verità sullo Stato e su se stessi. Il compito affidatoci è una gigantesca disillusione, più che una rinuncia ai beni che avevamo. Il disilluso possedeva vizi, oltre che beni: volontariamente scelse d’illudersi. Anche Manovra è parola sciapa, che implica un guidatore e masse di guidati. Meglio parlare di un comune, benefico risvegliarsi. [...]".
Barbara Spinelli

*B. Spinelli, La grande disillusione, "La Stampa", 30 maggio 2010 [leggi tutto].
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23 maggio 2010

Neutralizzare i custodi della democrazia

"[...] Ci sono eventi storici che solo la letteratura spiega fino in fondo e anche in Italia è così. Proviamo a leggere Il Rinoceronte di Eugène Ionesco e vedremo descritto, limpido, lo strano mondo in cui dai primi Anni 90 anni viviamo: un mondo che tutela il crimine, allontanandolo dalla scena e rendendolo sia invisibile, sia impunibile. Un mondo dove i custodi della democrazia sono neutralizzati e il popolo, bendato perché disinformato, vive e vota dopo esser mutato interiormente. Un regime simile ci trasforma ineluttabilmente nelle bestie a quattro zampe descritte dal drammaturgo. In principio passa un rinoceronte: è bizzarro, ma passa. Poi piano piano tutti si trasformano. Perfino il filosofo diventa prima un po’ verde, poi le mani raggrinziscono, poi sulla fronte gli cresce il corno. [...] Chi ha desiderio di cedere, nel dramma di Ionesco, lo fa perché il rinoceronte gli appare più naturale dell’uomo, perché «possiede una specie di candore», perché emette un barrito incomprensibile ma sonoro, trascinante. Cedere è attraente [...]. 
Barbara Spinelli

*B. Spinelli, Chi azzoppa i custodi della democrazia, "La Stampa", 23 maggio 2010. [leggi tutto]

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19 febbraio 2010

Il coraggio dei piccoli gesti

[...] Non è necessario identificare il coraggio solo con gesti eroici o rivoluzionari. Penso piuttosto ad un modo di vita che come primo passo rinneghi l'illegalità, il fascino comodo dell'illegalità, a partire dalle piccole cose quotidiane: il non occupare un parcheggio riservato ai portatori di handicap, il dichiarare correttamente i propri guadagni, l'acquistare i programmi per il computer invece che scaricarli illegalmente, ecc... Si tratta, cioè, di rappresentare attraverso il rispetto delle regole, il fatto che «l'altro» ci sta a cuore. Nulla di eroico. Rispettare le norme, aderire alle stesse, rappresenta che ci sta a cuore la collettività: che, quindi, la riconosciamo nella sua supremazia; anche rispetto a ciascuno di noi. Messaggio, questo, che in certi contesti è certamente rivoluzionario e che deve essere fatto proprio da chi ambisce a rappresentare la collettività. Se in certe zone d'Italia lo Stato è ora pressoché assente, chi guarda da lontano non può sentirsi solo legittimato a criticare o predicare: deve dare l'esempio, poiché se il senso del valore Stato non parte da dove le istituzioni funzionano meglio è impossibile pensare che si sviluppi dove esse sono prive di autorità. Tanto più se non c'è neppure l'alibi della paura a condizionare i comportamenti, ma c'è solo la ricerca dell'affermazione personale.[...]
Umberto Ambrosoli*

 Umberto Ambrosoli, Serve il coraggio dei piccoli gesti, "Corriere della Sera", 1 nov. 2009 [..leggi tutto]


* Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio Ambrosoli   (v. Corrado Stajano, Un eroe borghese, Torino, Einaudi, 1991 e 2005.
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18 febbraio 2010

Servitori dello Stato

[....] La riservatezza, il senso d’opportunità, l’estraneità ad amicizie potenzialmente in conflitto rispetto agli obblighi della funzione, per un dipendente statale, di qualsiasi livello e a qualsiasi ordine appartenga, non sono manifestazioni di ipocrisia o di moralismo bigotto e passatista. Sono sacrifici, magari anche limiti a quella manifestazione del pensiero che è costituzionalmente garantita a tutti i cittadini, ma che si esercita nelle forme e nei modi consentiti a chi riveste un ruolo così delicato. Possono essere anche «discriminazioni», come le chiama il pm Nicastro, a cui si dovrebbero assoggettare volentieri coloro che, senza alcuna costrizione, scelgono una carriera nell’amministrazione pubblica.
Il prossimo anno si festeggeranno i 150 anni dello Stato italiano. Invece dei soliti riti celebrativi e delle solite polemiche retrospettive sulle virtù degli Stati borbonici e le crudeltà repressive dei piemontesi, ecco un bel tema di riflessione e di discussione pubblica. Anche perché la corruzione va colpita in sede giudiziaria, ma va combattuta prima di tutto nella testa dei cittadini. Specie se sono «servitori dello Stato».
Luigi La Spina

Luigi La Spina, Chi serve lo stato non ha amici, "La Stampa", 18 febbraio 2010 [.. leggi tutto].

Per capire chi é un "servitore dello Stato" v. Nando dalla Chiesa, Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione, Torino, Einaudi 1992.

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29 gennaio 2010

Indifferenti, rassegnati ... (e complici)

"[...] Noi italiani non vediamo queste illegalità, perché non sono rare, sono normali. Ognuno di noi ha una quindicina di amici, va al cinema con loro, con loro in pizzeria. Sa benissimo quanti e quanto evadono. Se una famiglia ha quattro case, son quattro prime case, intestate a padre, madre, figlio, figlia. Applicano una morale condivisa da gran parte degli italiani: lo Stato non mi riguarda, io ho soltanto la mia famiglia, sono onesto se faccio l'interesse della mia famiglia. Se un padre ha dei problemi con le tasse, la famiglia lo ama di più. Tutti son convinti che mafia, camorra e 'ndrangheta non verranno mai distrutte, perché chi dovrebbe distruggerle spartisce i loro interessi. Se cambi governo, il nuovo governo subentra al precedente anche negli interessi. Siamo rassegnati. Ad Haiti son cadute le case dei poveri, perché eran fatte male, le case dei ricchi sono ancora in piedi. Noi italiani lo abbiamo capito in due giorni. Qui in Italia abbiamo lo stesso problema da mezzo secolo, ma la rassegnazione ci rende ciechi.".
Ferdinando Camon.  L'Italia rassegnata, "La Stampa", 29 gennaio 2010.

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"[...] Noi dovremmo smetterla di fare i rigoristi quando gli oneri (ad esempio una demolizione) toccano agli altri, salvo diventare anarchici quando toccano a noi.[...]"
Luca Ricolfi, I cittadini complici, "La Stampa", 29 gennaio 2010.


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10 gennaio 2010

Migranti invisibili: gennaio 2001 - gennaio 2010

[....] I nuovi schiavisti di Calabria (non solo: oggi parliamo di Rosarno, domani chissà) non hanno neppure questo minimo scrupolo: non gli interessa che i loro schiavi abbiano dove dormire, che mangino e che possano lavarsi, non importa se muoiono, se fuggono. Ce ne sono talmente tanti e sempre nuovi in arrivo, è talmente enorme l'offerta di mano d'opera in arrivo dalle lande disperate del mondo che il per così dire ricambio naturale è nel conto. Anzi, è incentivato. Se spariscono i senegalesi arriveranno i magrebini, o i cingalesi a seconda della convenienza del clan mafioso che li importa e che controlla il territorio. L'economia non ne risentirà, anzi. È molto probabile che i nuovi arrivati che non conoscono la lingua, figuriamoci i diritti, pretendano di meno. Mano a mano che si rendono conto difatti cominciano a ribellarsi alle condizioni in cui sono tenuti dai clan criminali: è bene che si tolgano di torno. Ci mancano solo gli africani sindacalizzati... Che poi siano loro gli unici, in quelle terre, capaci di ribellarsi è una triste verità che parla degli italiani". [ leggi tutto....]"
Concita De Gregorio, "L'Unità", 9 gennaio 2010.

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" [.......]  La «dissonanza cognitiva» alla quale ci riferiamo oggi è tutta diversa. Risiede e prospera soprattutto nelle regioni del Nord e del Nordest. Dove proliferano quegli imprenditori piccoli e grandi che hanno avuto il merito di creare una società ricca di tutto, molto «affluente». Non senza l'aiuto di quella mano d'opera immigrata, spesso di colore non proprio bianco, ma prontissima sempre a fare dei lavori meno gradevoli nelle fabbriche, nelle fabbricone e nelle fabbrichette. Questa manovalanza così comoda nella sua quieta efficienza, gli imprenditori del NordNordest la vogliono, ne vogliono sempre di nuova, di più. Ma c'è qualcuno, da quelle parti (siamo quasi certi che si tratti di uno soltanto, ma parla forte, ma si fa sentire) che questi immigrati così colorati non li sopporta quando li vede in giro per andare a comprare il latte, per fare una passeggiata, per andare al cinema. Affetto da continui attacchi di «dissonanza cognitiva» l'imprenditore piccolo o medio di cui sopra (al singolare, perché siamo sempre più certi che si tratti di uno soltanto) protesta a voce alta: «Cosa vogliono? Cosa fanno? perché non si rendono, non dico inesistenti, ma quanto meno invisibili?». E intanto li trattiene nella sua fabbrica. E guai a chi glieli porta via. Ne vuole anzi degli altri. Possibile che non ci sia un metodo per ridurre questa clamorosa «dissonanza cognitiva»? Certo che c'è. Basta ricorrere alla scienza che può tutto, se solo vuole. Come si è visto in una recentissimo film americano: L'uomo senza ombra di Paul Verhoeven, al quale hanno lavorato, duecentottanta esperti di effetti speciali per rendere un uomo del tutto invisibile. E ci riescono. Ma è troppo costoso, evidentemente. Molto meglio, se possibile, inventare un anello da infilare al dito, e da girare finché non rende invisibile chi lo porta. Un anello del genere è stato inventato e messo in opera (ne sono certo) più di una volta. Ma la prima, la meglio raccontata di tutte, la troviamo nella cultura greco antica: in Erodoto e in Platone (la Repubblica Libro II) dove si narra la storia del magico "Anello di Gige". Il quale Gige, sia detto tra noi, era un bel mascalzone. Non si è ancora infilato al dito l'anello del Re che già va - invisibilmente - a insidiare la Regina. L'invisibilità sarà bella, ma assicura anche l'impunità, ci dice Platone. E fa nascere voglie pericolose in tutti. Ma Platone scriveva in greco (antico). E il greco antico non è affatto di moda, nel nostro Nord, Nordest. Nessuno lo deve più studiare. Nessuno lo studia più: tanto a che serve? Già, a che serve? Serve a non ospitare in cuore sentimenti incoerenti e contraddittori. Desideri intimamente contraddittori. Dissonanze clamorosamente contraddittorie. A questo serve." 
Beniamino Placido,  "Repubblica", 21 gennaio 2001


*estratto dall'Archivio online di "Repubblica": B. Placido, L'immigrato perfetto è invisibile, "Repubblica", 21 gennaio 2001 [leggi tutto]

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03 gennaio 2010

C'era un paese che si reggeva sull'illecito...

"C'era un paese che si reggeva sull'illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati e questi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia chi poteva dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; perciò ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell'interesse del gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l'illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. A guardare bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale, alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Poiché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo, la finanza pubblica serviva ad integrare lecitamente in nome del bene comune chi si era distinto per via illecita.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche alle associazioni a delinquere di tipo tradizionale che s'inserivano come un elemento d'imprevedibilità nella giostra di miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita. Così tutte le forme di illecito, da quelle più sornioni a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza, nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto.
Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano, costoro, onesti non per qualche speciale ragione; erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d'altre persone.
In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Erano una "contro società" che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare "la" società. Un'immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos'è".
Italo Calvino


*Italo Calvino, Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti, "La Repubblica" , 15 marzo 1980.


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08 dicembre 2009

Diagnosi

"[...] Non bisogna parlare a cuor leggero di declino italiano. Per quanto mi riguarda, è una parola che non ho mai usato. E bisogna rifuggire dal vezzo deprecabile del catastrofismo sul proprio Paese quando è governato da chi non vorremmo, salvo a rovesciare di colpo i termini dell´analisi, e veder tutto rosa quando si invertono i ruoli politici. Ma credo che oggi – lo dico con pena e con ansia – si ha l´impressione che qualcosa di profondo stia cedendo e si stia decomponendo, nel nostro tessuto intellettuale e sociale. E che la pulsione alla resa sia più forte di quella alla lotta. Voglia Iddio di star sbagliando."
Aldo Schiavone

*A. Schiavone, Il finale di partita del cavaliere, "Repubblica", 8 dic. 2009


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12 novembre 2009

L'autorità del male

"[...] La dittatura nessuno la auspica e la vuole, a parole, ma in molti la preparano, giorno per giorno, approvando, spalleggiando ogni giorno ciò che svuota la democrazia, aggiungendovi ogni giorno qualcosa che la limita. Il passaggio dall'autoritarismo al terrore si annuncia in modi disparati, apparentemente disparati. Oggi è il drogato ucciso a percosse, domani il barbone bruciato vivo, la donna con le mani tagliate, che sembrano non lasciare traccia. Ma la lasciano, lasciano l'ostilità alle leggi, l'avversione ai diritti umani, l'ignoranza dei doveri. [...]"

Giorgio Bocca


*estratto da G. Bocca, L'autorità del male, "La Repubblica", 12 nov. 2009 [leggi tutto].
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20 settembre 2009

Le Celebrazioni del 2011

Tomaso Padoa Schioppa
Si parli di Stato, non di nazione
"Corriere della sera", 20 settembre 2009



"Ricordo le celebrazioni di Italia 1961: in un Paese giovane e laborioso crescevano il benessere e la democrazia. Lo studio del farsi dell'unità d'Italia, ripetuto alle elementari, alle medie e al liceo aveva costituito in me, come in molti, la struttura stessa del pensarmi come cittadino. Fui inorridito, trent'anni dopo, quando constatai che in un illustre liceo di Roma il capitolo sul Risorgimento, uno solo dell'immenso manuale adottato, era tra quelli che non si chiedeva agli allievi di studiare.
Il terzo cinquantenario si celebra in un momento assai più buio non solo del secondo, ma anche del primo, segnato dalle riforme giolittiane. Oggi ministri che hanno giurato sulla Costituzione annunciano la secessione senza che alcuno strale li colpisca in modo immediato e diretto. Chi tace acconsente. Per il 2011 sono previste, oltre che opere pubbliche, iniziative storico-culturali. E poiché se ne cerca tuttora il filo conduttore, oso una proposta.
Bisogna chiarire bene l'anniversario che sarà celebrato; finora il dibattito pubblico ha del tutto mancato di farlo. Nel 2011 si celebrerà non la nascita della nazione italiana (un fatto di cultura), bensì la fondazione dello Stato italiano (un fatto politico e istituzionale). La nazione esiste dal Medioevo, precede addirittura il formarsi della tedesca, francese, spagnola, britannica. La lingua parlata oggi in Italia assomiglia a quella di Dante come nessuna lingua europea assomiglia al suo progenitore del XIII o XIV secolo. E ha secoli di storia non solo la nazione, ma anche la coscienza di essa da parte degli spiriti illuminati: basta rileggere Dante, Petrarca, poi Machiavelli.
Soltanto dopo secoli di divisione, asservimento, decadenza materiale e civile, crebbe e si realizzò l'idea di dare all'Italia uno Stato, istituzioni, leggi, poteri. La peculiarità della storia italiana non è la nascita recente della nazione, è la combinazione di una nazione precoce e di uno Stato tardivo. Finalmente, nell'Ottocento, lo Stato italiano nasce e nel 2011 è dunque di questo che si deve parlare. Tanto più che molta, molta materia ci impone di riflettere, di compiere un esame di coscienza, di correggere comportamenti e istituzioni. Nell'Italia di oggi ce n'è per ogni regione e per ogni ceto, per la parte pubblica e per la privata.
Tutte le celebrazioni del 150˚dovrebbero ruotare, a mio giudizio, intorno a un solo grande tema: lo stato dello Stato italiano . È questo — oggi, ma in realtà da tempo — l'organo malato dell'Italia, quello la cui patologia sta facendo deperire l'intero corpo sociale, l'economia, la terra e le acque, la cultura, la scienza, il rapporto con la sfera religiosa. Non è un'esagerazione affermare che dei 150 anni trascorsi dal 1861 forse la metà sono stati consacrati alla costruzione dello Stato italiano; altrettanti a una vera opera di distruzione che si è fatta più intensa negli ultimi decenni e ancor più negli anni recenti. È una dura affermazione che può (e dovrebbe) essere documentata in modo specifico proprio all'avvicinarsi dell'anniversario al fine di preparare un riscatto. Sono ormai gravemente minacciati la democrazia, principi fondamentali dello Stato di diritto, la preservazione del patrimonio artistico, l'ambiente naturale, il fatto stesso di essere uno Stato unitario. Lo Stato, non la nazione, è e deve essere il tema di Italia 2011."
*dal sito del Corriere della sera (20 settembre 2009)
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19 settembre 2009

Il ponte sullo stretto - 1985

"Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l'evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell' omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo "specifico" indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale... Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l'Alitalia e l' Autostrada del Sole.
Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. [...] La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d' Italia, dall' Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d' Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina... Con tutto ciò, come negare l'esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d' esportazione? E' un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l'aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.
Gesualdo Bufalino
*estratto da un articolo dello scrittore siciliano pubblicato nel 1985 nel vivo di un dibattito sulla costruzione di un ponte sullo stretto di Messina. (Gesualdo Bufalino, Libri sullo Stretto , "La Repubblica", 19 settembre 1985)
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16 giugno 2009

Svuotamento dell'etica civile

[....] Sappiamo che gli italiani erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione. In fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia: una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra il Capo e il suo popolo. [...]
Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento dell´etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle emozioni collettive e una sostituzione dell´evasione e del sogno alla durezza dell´irrreggimentazione. Ma l´esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l´enigma di un consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla".
Adriano Prosperi,
Il fantasma necessario del “disfattismo",
"La Repubblica", 15 giugno 2009.
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