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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".
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24 luglio 2012

La virtù del valore

Barak Obama – che un nome se lo è conquistato, eccome – non ha voluto pronunciare il nome del miserabile assassino di Denver. La condanna all’anonimato come punizione massima per chi è disposto a qualunque nefandezza pur di uscirne. Giusto. Così giusto che fa riflettere, per esteso, sull’equivoco esiziale che guasta i sogni della società massificata: la totale confusione tra fama e valore. Si ritiene che se non si è famosi non si esiste, non si vale, ma è un falso spaventoso, è il padre di tutti i falsi. Ci sono evidenti casi di famosi farabutti e di famosi imbecilli; e di persone il cui valore, anche grande, è conosciuto da pochi, e tra quei pochi loro stessi. Ho sentito Benigni, in Santa Croce a Firenze, a commento del canto Undicesimo, dire che il lavoro umano prosegue il lavoro di Dio. Ho pensato al “lavoro ben fatto” di Primo Levi, ai tanti (e sempre più rari) esempi di persone felici del loro fabbricare, creare, mettere ordine, disporre in giustezza le cose. Il loro valore è inestimabile, e non importa quanti lo sanno (lo sa Dio, direbbe il poeta). Se si riuscisse a fare capire questo – che il valore è più della fama – ai miliardi di anonimi e ai milioni di frustrati, ci sarebbe qualche pazzo infelice di meno, e qualche traccia in più della potenza umana.
Michele Serra
*L'Amaca del 24 luglio 2012 ("la Repubblica")

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23 aprile 2011

Aspettando una Pasqua


Folon

"Chiunque preferisca gli umili agli infallibili sarà rimasto colpito dal dialogo televisivo fra il Papa e la bimba giapponese che gli chiedeva conto del terremoto. «Perché i bambini devono avere tanta tristezza?», domandava la piccola, dando fiato a un tarlo che non trova risposte nella ragione, ma solo in quella che le Chiese chiamano fede e gli psicanalisti junghiani intuizione. Il Papa avrebbe potuto rispondere come quel cattolico saputello e fanatico del Cnr, che a proposito dello tsunami aveva tirato in ballo il castigo di Dio. Invece se n’è uscito con un’ammissione di impotenza dotata di straordinaria potenza: «Non abbiamo le risposte. Però un giorno potremo capire tutto». Per il niente che vale, la penso (anzi, la sento) come lui. Mi sono sempre immaginato la vita come un film di Woody Allen, dove gli attori recitano le scene senza che il regista mostri loro l’intero copione. Solo al termine delle riprese vengono ammessi in sala montaggio e finalmente comprendono il motivo per cui si erano baciati o presi a schiaffi. Per tutta la vita ci sentiamo sballottare da eventi che non afferriamo e siamo pervasi da un senso di inadeguatezza, come se ogni cosa sfuggisse al nostro controllo e il cinismo rappresentasse l’unico antidoto allo smarrimento. Ma appena diamo tregua al cervello e inneschiamo il cuore, sentiamo che tutto ciò che d’incomprensibile ci succede contiene un significato. E il fatto di trovarci al buio non significa che la stanza sia vuota, ma solo che bisogna aspettare che si accenda la luce."

Massimo Gramellini

*M. Gramellini, Senza copione, "La Stampa", 23 aprile 2011.

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24 settembre 2008

Elzeviro

Massimo Gramellini
Quel che è Stato
"La Stampa", 23 settembre 2008
Nauseato dal surreale omaggio di Roma ai soldati papalini di Porta Pia, ieri pomeriggio sono uscito a fare due passi e in una piazza di Torino ho incontrato lo Stato. Almeno, credo fosse lui: ormai sono anni che non si fa troppo vedere in giro. Sullo sfondo dei palazzi barocchi si stagliavano centinaia di alpini di ritorno dall'Afghanistan. Un sottosegretario parlava al microfono senza sbrodolarsi eccessivamente in retorica. Dietro le transenne i parenti dei soldati osservavano la scena mescolati agli alpini anziani. È partito l'inno di Mameli e non è che lo cantassero tutti a squarciagola come calciatori: lo mormoravano, per non sporcare la compostezza del quadro. Poi i ragazzi in divisa hanno reso omaggio a una bandiera, gli alpini anziani si sono portati la mano alla fronte, un genitore dietro le transenne ha gridato: «Viva l'Italia» e nessuno lo ha trovato strano né comico. Sembrava di essere precipitati dentro una pagina di De Amicis o sul set di una fiction risorgimentale, ma l'atmosfera era troppo sincera per assomigliare alla tv.
Anche uno come me, che militarista non è mai stato e certo non potrebbe cominciare a esserlo ora con un principio di pancetta, ha percepito per un attimo la presenza di una comunità. Bella o brutta, non so. Ma era la sua. La nostra. Persino in un Paese che non è una nazione, dove il cittadino non ha senso dello Stato e semmai è lo Stato che gli fa senso, può ancora succedere di inciampare in avventure come questa, che ti fanno tornare a casa con la sensazione di essere un po' meno solo.

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03 giugno 2008

Etica politica

Maria Novella Oppo
Eroi e antieroi

”l’Unità” 1° giugno 2008

"Qualunque cosa pensiamo di Giulio Andreotti e dei misteri cui è intrecciata la sua lunghissima vita politica, non si può negare che siano troppi e inquietanti i legami con gli scandali italiani, a cominciare dai più sanguinosi. Ma almeno un momento di chiarezza c’è stato nella complessa puntata di AnnoZero dedicata al film «Il divo», di Paolo Sorrentino. Il momento della verità è stato quando ha preso la parola il figlio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, «eroe borghese», che fu lasciato solo dallo Stato davanti al suo assassino. Come noto, il senatore Andreotti, alla fine di un lungo processo, non è stato riconosciuto innocente ma colpevole di rapporti con la mafia fino al 1980 e quindi prescritto. Il figlio dell’avvocato Ambrosoli ha spiegato che la prescrizione si può rifiutare e un presidente del Consiglio dovrebbe sentire l’esigenza morale e politica di una totale chiarezza sul suo operato. Esigenza che dovrebbe valere anche per un altro presidente del Consiglio: quello attualmente in carica."
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Percorsi di lettura:
Corrado Stajano, Un eroe borghese. Il caso dell'avvocato Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Torino, Einaudi, 1995, 2005.

31 maggio 2008

Voglia di futuro

"Per una di quelle ironie in cui la storia è maestra, l'ingresso nel Duemila e l'allungamento della vita hanno estirpato, almeno in questa fetta di mappamondo, il desiderio di futuro. Gli individui, le famiglie, le aziende e gli Stati pattinano su un eterno presente, attraversato da torcicolli nostalgici per un passato ingigantito dai ricordi e un avvenire che si pone come orizzonte estremo la fine del mese. L'idea che un raccolto copioso abbia bisogno di semine lunghe e un progetto ambizioso di investimenti non immediatamente remunerativi sembra essere diventata il ghiribizzo di qualche sognatore, mentre per millenni è stato il propellente del progresso. Questa superficialità isterica ci ha ridotti allo stremo: depressi, infelici, colmi di rabbia senza orgoglio, in crisi di identità, poveri dentro e ormai pure fuori. Prima che un verdetto economico, il declino occidentale è anzitutto un'atrofia del cuore e della mente, incapaci di progettare il mondo che non abiteranno solo i nostri figli ma anche noi, la generazione più longeva dell'avventura umana. L'anno che verrà può rappresentare il punto di rottura, quindi di svolta. Ed è un'altra ironia della storia che esso coincida con il quarantennale dell'ultima utopia di massa: il Sessantotto. Quel desiderio di portare l'immaginazione al potere da parte di chi al potere ha poi finito per portarvi soprattutto l'immagine: la propria. L'immaginazione ci serve adesso. Per progettare nuove forme di convivenza, rilucidare valori etici, studiare strategie economiche che tengano conto del cambiamento vorticoso introdotto dall'irruzione di oltre un miliardo e mezzo di indiani e cinesi nel cortile del consumismo. C'è un bisogno gigantesco di futuro, da queste parti. E poiché ogni bisogno, prima o poi, genera una voglia, il miglior augurio che possiamo farci per il 2008, come singoli e come comunità, è che sia l'anno giusto per ricominciare a sfidare la vita con l'animo dei pionieri. Consapevoli che dietro ogni porta che si chiude ce n'è sempre un'altra che si apre. Basta volerla cercare".
Massimo Gramellini
"La Stampa", 31.12.07)

26 maggio 2008

Cercando il giornalismo riflessivo


L'amico di Falcone
di Massimo Gramellini
"La Stampa", 24 maggio 2008 (rubrica "Buongiorno" )

"Dov’eravate il 23 maggio 1992, un sabato pomeriggio, quando la mafia fece saltare in aria Giovanni Falcone con moglie e scorta, fissando per sempre quella data nella memoria degli italiani come il loro 11 settembre? Io mi trovavo a Roma nella redazione de La Stampa e avevo voglia di un gelato. La tv accesa ronzava boiate e mi alzai dal computer per proporre a Ciccio La Licata un raid alla gelateria siciliana sotto il giornale. Lo trovai curvo su un foglietto di carta: lo rigirava fra le mani come se cercasse il verso giusto per leggerlo. Era il dispaccio d’agenzia che annunciava l’Attentatuni. Palermitano e principe del giornalismo di mafia, Ciccio era amico personale di Falcone, uno dei pochi. Quando me lo aveva presentato al giornale (Falcone scriveva per noi), ero andato in cerca di una frase memorabile, ma dalla gola non mi era uscito che uno stupido «Pia-ce-re!». Ciccio posò il foglietto e rispose al telefono. Il direttore, da Torino, gli chiedeva un ritratto del magistrato ucciso. Lui non disse nulla. Accese il computer e cominciò a battere piano sulla tastiera. Lo osservavo come in un incantesimo: intorno a noi i televisori strepitavano la notizia, sui volti dei redattori e dei fattorini montava la rabbia, ma Ciccio niente, scriveva e perdeva acqua dagli occhi in silenzio. Le lacrime gli scendevano lungo la scanalatura del naso e andavano a inzuppare la barba senza che lui facesse un solo movimento per fermarle. Ancora oggi lo rivedo mentre scrive quelle parole asciutte con gli occhi bagnati. E penso che Falcone doveva essere davvero un grand’uomo per meritarsi un giornalista così. "

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