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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

24 agosto 2008

Moni Ovadia "reporter"a Gerusalemme" - 1999

Moni Ovadia è il "violista blu" che sa raccontare con tenerezza ed ironia il vasto mondo yiddish e proiettarlo nella nostra contemporaneità. Nel 1999, durante la direzione di Ferruccio de Bortoli, Moni Ovadia fu "eccezionale" inviato del "Corriere della Sera" in Israele.

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Moni Ovadia
Gerusalemme, promesse di pietra
"Il Corriere della sera", 11 gennaio 1999

"La citta' mi assale con mistica violenza: qui vibra la Torah, e affiora il canto del muezzin" ."Il cognome che ho significa Portatore di pace. In arabo si direbbe Abdallah" "Faccio un voto: imparero' anche l'arabo Chissa' che la mia vita non si allunghi" "Le shana' habaa Beyirushalaim!" (L' anno prossimo a Gerusalemme!) Anch' io, come quasi ogni ebreo (religioso, laico e perfino ateo) sparso nei quattro angoli del mondo, ho ripetuto - anno dopo anno - questa formula benedicente e beneaugurale, alla fine della celebrazione del Seder del Peshakh (Ordine della Pasqua). Ho sempre onorato questa ricorrenza in modo piu' o meno eterodosso, consapevole del suo alto significato. La Pasqua ebraica, e' opportuno ricordarlo, santifica un progetto di liberazione. Tuttavia, per trentadue anni, ho disatteso la solenne promessa. Non le pressanti ragioni dei miei avi sono state d' impedimento alla "salita" verso l' agognata citta' della pace e la sua terra, quanto piuttosto oscure ragioni del sentimento, travagli diasporici, contraddizioni tuttora non risolte, brama di esilio. La prima volta, sei lustri prima, vi ero stato per un progetto di studi all' universita'. Disguidi organizzativi, ma soprattutto persistenti malesseri dell' anima di una tarda adolescenza tormentata, sogni di rivoluzionare il mondo, rossissime passioni proletarie, avevano sottratto ossigeno a quel progetto. I ricordi di quell' epoca lontanissima sono nebulosi: Beit Alfa, un mitico kibbutz socialista, la casa di Haifa della mia coltissima zia Sarina, gloriosamente disordinata, i taxi collettivi, un mendicante con uno sguardo d' acciaio che parlava correntemente undici lingue: Gerusalemme mi appari' allora, piccola e "tranquilla" e la sua Santita' , discreta. La guerra spartiacque del ' 67 era di la' da venire. Molti anni sarebbero ancora passati se questo giornale non mi avesse dato l' occasione di un viaggio significativo. Avevo giurato a me stesso che Gerusalemme, come turista, non mi avrebbe mai avuto. La mia ostilita' a questa forma di degrado umano avro' modo di esporla in seguito in questi articoli. Scrivere non e' il mio mestiere e scrivere di un luogo cosi' carico di esplosive valenze simboliche, collocato in un' area cruciale per il destino del pianeta, e' una responsabilita' che non avrei cercato. Ma la mistica ci insegna: se una proposta inattesa, fuori dai sicuri confini della tua calda nicchia estetica, ti destabilizza, essa contiene di per se' la ragione per la quale devi accoglierla. Il mio Maestro non si stanca di ripetere che il divino si coglie nella dimensione dell' inavvertito. Le notti che precedono la partenza divengono vieppiu' inquiete. I sogni sono allarmanti, al risveglio mi lasciano spossato e smarrito. L' arrivo all' aeroporto David Ben Gurion spezza questa atmosfera di anticipazione ansiosa che mi ha letteralmente posseduto nei giorni precedenti la partenza. L'impatto e' attenuato dall'architettura sobria ed un po' sorpassata dell' edificio aeroportuale, e' meno minaccioso di quelle mega - strutture futuristiche di certi aeroporti orientali. La folla ha un aspetto familiare per me che ho frequentato comunita' ebraiche un po' dovunque ed ho incontrato in precedenza ebrei con una quarantina di origini diverse. In Israele le provenienze sono oltre 120. Non commettete la dabbenaggine di voler sfottere qualcuno, pensando di essere protetti da una lingua che la gente del luogo non capisce. La familiarita' e' resa piu' intensa dagli umori mediterranei che questo Paese, solo parzialmente medio - orientale, emana per chi ha i sensi ricettivi come corde di simpatia. Le scritte ebraiche mi provocano un acuto sentimento di vergogna. Riconosco le singole lettere, ma non sono in grado di pronunciare le parole. Mancano puntini, barrette e martelletti, che in ebraico rappresentano le vocali, in Israele sono rimaste solo nella stampa per principianti, i nuovi olim, emigranti dell' ultima ora. Blaterero' con me stesso e con le persone che avro' modo di incontrare, la goffa ed umiliante scusa che alla scuola ebraica di Milano non hanno saputo farmi amare la lingua viva. A parziale e miserabile risarcimento diro' - per sembrare meno colpevole - che pero' mi "destreggio" un po' con l' ebraico delle scritture. Al termine del viaggio faro' a me stesso il solenne giuramento, mai piu' senza la lingua, mai piu' con questo infamante marchio del turista medio. Ho gia' acquistato il metodo di auto - apprendimento. All'aeroporto, le pratiche per la sicurezza sono comprensibilmente defatiganti, inganno il tempo compiendo un' attenta prospezione delle geografie facciali; in questo Paese i paesaggi somatici sono davvero di insolito fascino. Devo fare una spasmodica attenzione, pero' a mettere a fuoco solo i visi e le capigliature, perche' appena mi distraggo, l' occhio inquadra una disgustosa braghetta multicolore che spezza l'incantesimo e riprende sopravvento l'omologazione vacanziera. Arriva il mio turno per il controllo del passaporto. La guardia confinaria, una giovane donna probabilmente di discendenza magrebina, controlla che la mia faccia corrisponda alla foto, poi con un largo sorriso che scopre denti smaglianti mi domanda in perfetto inglese: "Lei ha anche un passaporto israeliano?". "No - rispondo sorridendo a mia volta -. Perche' , dovrei?". "Perche' no?" - prosegue lei -. "Con un nome come il suo". Scopro la normalita' del mio nome: Salomone Ovadia, in ebraico Shelomo' Ovadia' . Normale qui, ma non banale. Il nome e' il nome di un re, portatore di pace, il cognome, che significa Servo di Dio, e' quello di un profeta. In arabo suonerebbe Suleiman Abdallah. Mi torna alla mente in quel preciso istante che Roberto Benigni aveva trovato nel mio nome d' arte tre possibili anagrammi. Moni Ovadia alias Amavo in Dio, alias Ama o divino, alias Animavo Dio. Con queste premesse il cammino mi appare ancora piu' impegnativo. Mi guardo ancora intorno per vedere se la mia sensazione di inquietudine possa trovare qualche ulteriore indicatore di risonanza. Mi rendo conto che, contrariamente alle mie aspettative, sono pochissimi i caratteristici ebrei ortodossi ai quali ci siamo tutti abituati, che consideriamo con indifferenziata distrazione e classifichiamo sbrigativamente come fanatici o come eccentrici residuati di un' arcaicita' che si ostina a sopravvivere sulla soglia del terzo millennio. Getto un' occhiata alla testata dei giornali che ho in braccio e ricordo che e' venerdi' . Gli ebrei osservanti sono occupati altrove. Nelle loro case fervono i preparativi per accogliere la Radiosa Sposa di Israele: il Sabato. Strano mondo: alcuni consumano il divino in bombolette spray, altri vivono con Dio come nella Polonia dell' Ottocento. Una voce italiana mi risveglia dalla profondita' delle mie riflessioni con un saluto di una preoccupante normalita' : "Ciao, Moni". E' un conoscente della comunita' ebraica di Milano. Ne incontrero' molti altri di italiani, ebrei e non. Non tutti li conosco. Loro mi conoscono per via della "fama". Qualcuno mi chiede un autografo, e' un gesto di affetto, mi fa piacere ma fa implodere le distanze, ti obbliga a sentire sulla pelle il villaggio globale e, al tempo stesso, ti impone una domanda cattiva: ma se viviamo nello stesso piccolo ambiente, perche' molti dei suoi abitanti pensano a scannarsi vicendevolmente? Sara' perche' le peggio cose capitano in un' intimita' non cercata? Scaccio il malevolo pensiero, cosa c' entra con la mia amata casa - Italia. Ritrovero' gli italiani, ospite di una loro benefica serata comunitaria di raccolta fondi per la sinagoga di rito italiano. Mi offriranno un' accoglienza calorosa e una rispettosa attenzione dietro la quale si celano pero' sentimenti contrastanti per le mie posizioni etiche e politiche eterodosse. Saliamo su un taxi, saliamo, mia moglie Elisa ed io, l' avevo colpevolmente dimenticata nel vagabondaggio dei miei pensieri. Elisa sopportera' con infinita grazia e pazienza i tormenti dell' ebreo errante precipitato nella Terra Promessa. Avere una moglie bella e saggia e' una benedizione per un uomo. Lei sa godersi un viaggio stimolante. Lo fa al tempo stesso per piacere e per dovere. Lei sa che io posso accettare di martirizzare me stesso ma che mi sarebbe intollerabile martirizzare l' anima di qualcun altro, in particolare la sua che mi e' sommamente cara. L' aeroporto Ben Gurion si trova fra Tel Aviv e Gerusalemme, strategicamente piu' vicino alla laica Tel Aviv che e' il centro dell' impressionante sviluppo economico israeliano. Gerusalemme ha meno necessita' di essere vicino agli aeroplani. A Gerusalemme il cielo e' piu' vicino. Il nostro taxista scambia poche parole in ebraico con l' uomo che dirige il traffico delle auto pubbliche e parte. Scopriamo subito che e' un arabo israeliano, parla un inglese chiaro e scorrevole. E' un ingegnere informatico ma e' costretto a fare il taxista perche' non ha trovato un impiego congruo alle sue capacita' . Sostiene che i cittadini arabi in Israele non hanno le stesse opportunita' di quelli ebrei, che le societa' praticano una politica di selezione professionale sperequata. E' un uomo pacato, non c' e' risentimento in quello che dice ne' acrimonia, solo preoccupata apprensione per il suo futuro e per quello dei suoi figli. Sentiro' altre volte questo discorso. Anche fatto da ebrei, allo stesso riguardo. L' arrivo a Gerusalemme e' di quelli che ti si imprimono nella memoria. Non parlo della Gerusalemme, citta' vecchia, quella anzi, con l' eccezione di qualche luogo, risulta deludente. Lo sviluppo della citta' nuova colpisce, e' davvero impressionante. Le case sono accorpate fitte, fitte sulle colline che circondano la Citta' Santa. Il loro colore unico, ma non uniforme, e' di straordinario impatto. Una legge inglese, tuttora in vigore, impone che tutte le case siano edificate nella pietra del luogo o per lo meno che, di quella pietra, ne sia garantito il rivestimento esterno. La stessa regola vige per le abitazioni residenziali come per gli edifici commerciali o le grandi strutture istituzionali. Perfino i pochi grattacieli non si sottraggono alla regola, anche se questi sparuti giganti appaiono soli e sconfortati nel contesto di quella selva di piccole case popolate sempre piu' da uomini che vibrano per la Torah. La fibra calcarea, gessosa, conferisce alla morfologia della citta' una personalita' fortissima che si sposa ad altre ragioni di natura spirituale che rendono questo luogo davvero unico al mondo. Parlare di speculazione edilizia sarebbe assolutamente sensato, ma non e' questo, a mio parere, il merito della questione. Quelle case sembrano uscite dalla pietra stessa, vi sembrano iscritte. Stonano paradossalmente i boschi di alberi piantati saggiamente dal K.K.I. (il Fondo per lo sviluppo del territorio) nella parte bassa delle alture. Quel verde e' salubre ma non coerente. Le case sembrano invece scaturite da un deserto, seguendo la profezia: "Sarete numerosi come i granelli di sabbia nel deserto (di giorno) e come le stelle nei cieli (di notte)". Cosi' , come quella profezia era intrisa della sabbia del deserto, culla del progetto identitario ebraico, cosi' quelle case sembrano possedere il colore e il calore di quella parola divina. E come nel deserto, le rocce e la sabbia, di giorno la pietra di quelle case riflette la spietata volonta' del sole mentre la sera, al crepuscolo, si abbandona a una pieta' rosata ed accoglie la brezza collinare che conforta la giornata del residente e quella del commosso ed atterrito viandante che sono. Gerusalemme mi attrae con la mistica violenza di una donna santa e mi sgomenta, come una bella donna che abbia sposato la santita' come destino. Mi rifugio in albergo a smaltire la violenta sbornia di liquore millenario distillato nella contemporaneita' che ho tracannato tutto d' un fiato. L' American Colony Hotel, nella parte araba della citta' , e' un' oasi di pace: il suo giardino, insieme semplice e sontuoso, perfetto per un breve ristoro. Minima pausa. Poco dopo, sdraiato sul letto ancora vestito, ricevo la visita di Al - Quds, la Santa, la Gerusalemme araba, piu' giovane di quella ebraica, "solo" mille e trecento anni, ma non meno passionale. La sua voce quella del muezzin lacera la fresca brezza della sera, mi comunica memorie lontane delle generazioni da cui provengo. Sono un ebreo sefardita, i miei geni hanno ascoltato la musica della Spagna moresca, la mia anima antica ha navigato lungo le coste segnate dalla conquista araba, il mio cuore ha trovato accoglienza nelle terre dei sultani turchi. Domani vedro' un vecchio arabo con la galabia e la kefiah, il viso scolpito nel tronco di un ulivo centenario, il sorriso fiero, ma non bellicoso, l' incedere sorretto dal bastone naturalmente dignitoso. Chi mi convincera' che in lui si nasconde un nemico? Non e' il caso che nessuno si allarmi, non mette conto di prendere troppo sul serio un saltimbanco, le mie sono impressioni, solo impressioni. Non ho gli strumenti per cogliere l' anima araba, come potrei? L' intimita' piu' nascosta della sua identita' , la lingua, mi e' oscura, arrivo al massimo a percepirne ad istinto la rigogliosa musicalita' , sconfinato godimento per glottide, epiglottide e cavita' oro - nasali. Faccio un altro "voto": imparero' anche l' arabo. Chissa' che il tempo della mia vita non si allunghi. (1 - continua)




*Il reportage di Moni Ovadia da Israele è disponibile nell' Archivio storico del "Corriere della sera".



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3 commenti:

Simona ha detto...

Il mio PREFERITO! Sognante, permeato di sentimenti vitali e dolcissimi. Le sue rappresentazioni bibliche sono meravigliose.

Anonimo ha detto...

.... ma il post non era finito; per errore era finito in rete senza il "pezzo" (d'annata ma speciale)

Simona ha detto...

... ed è sempre un piacere leggere Ovadia!

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