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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

07 novembre 2008

Le città invisibili

Marco Belpoliti
La città come autoritratto

"La Stampa", 28 agosto 08



L'estate è la stagione in cui si è più disposti a leggere o a rileggere i grandi libri. La Stampa ha chiesto alle sue firme di raccontare ai lettori i capolavori della letteratura mondiale. Le città invisibili, il capolavoro di Italo Calvino, sono un rebus: un'immagine figurata composta di parole di ardua decifrazione. Opera imprendibile, misteriosa, dalla struttura complessa e articolata, viene pubblicata dal suo autore quando sta per varcare la soglia dei cinquant'anni. Nel 1972 Calvino vive a Parigi con moglie e figlia; s'è allontanato dall'Italia, e sembra passare di colpo da una giovinezza a lungo protratta ad una vecchiaia incipiente, saltando a piè pari l'ardua maturità, scoglio su cui si è infranto il suo primo maestro, Cesare Pavese. Pasolini, sciamano e poeta, l'ha capito: questa è l'opera di un giovane, paziente artigiano dall'umore cristallino, e insieme di un vecchio, uno «che ha visto passare la vita». Questa duplicità è la chiave più appropriata per leggere il libro: romanzo, piccolo poema in prosa, serie di racconti a tema, riflessioni filosofiche, storie fantastiche, e altro ancora. L'autore si scinde in due: Marco Polo, il narratore delle città, e Kublai Kan, il suo ascoltatore, il giovane e il vecchio. Si tratta di 55 brevi descrizioni di città, suddivise in 9 capitoli, cui s'aggiungono i dialoghi tra Marco Polo e Kublai, in corsivo, micro-cornici che servono a dare alle singole descrizioni un senso d'insieme: aprono e chiudono il libro e ne scandiscono le parti: le città e la memoria, e il desiderio, e i segni, e gli scambi, e gli occhi, e il nome, e i morti, e il cielo, ecc. Sono città da leggere, non da guardare, poiché la loro descrizione non si lascia mai scorgere per intero (Gianni Celati). Il titolo è parte stessa del fascino del libro, proviene da uno dei capitoli finali del libro di Lewis Mumford, La città nella storia, uscito in America nel 1961 e tradotto in italiano da Comunità. Certo, dietro tutto c'è Marco Polo e il suo Milione, il trattamento per un film proposto da Mario Monicelli; e anche le sculture sottili di Fausto Melotti, mostrate allo scrittore da Paolo Fossati; e poi le idee travasate da Celati, Carlo Ginzburg, Guido Neri e Enzo Melandri in una rivista mai nata, Alì Babà, pensata insieme a Calvino in quegli stessi anni; e ancora la lettura dell'utopia pulviscolare di Fourier e un altro libro: Françoise Choay, La città. Utopie e realtà; e poi molta altra roba ancora, conosciuta e sconosciuta. Ma soprattutto dietro al capolavoro di Calvino c'è il Sessantotto visto per le strade di Parigi, la fantasia al potere, l'utopia degli studenti del Maggio, quando i boulevard si sono riempiti di ragazzi e gli studi degli psicoanalisti svuotati, come Calvino stesso racconta a Celati, suo mentore della nuova stagione. All'inizio degli anni Settanta la letteratura sembra aver perso importanza come descrizione del mondo e sua spiegazione, come iniziazione alla vita stessa e insieme suo compendio e viatico. È stata sostituita, o almeno affiancata, dal cinema, dalle arti visive, dall'estetica, e poi dalla politica stessa ora al primo posto. Le città invisibili sono la risposta che il senex-puer Calvino fornisce al cambiamento in atto, il suo personale contributo poetico. Come afferma lo scrittore in una conferenza americana dello stesso periodo, la letteratura deve cercare di dare un nome a ciò che ancora non lo ha, deve scoprire nuovi modelli d'immaginazione e svolgere un lavoro mentale necessario ad ogni progetto d'azione politica, ma anche comunicare attraverso l'autore qualcosa che è collettivo. Detto altrimenti: questo meraviglioso poema in prosa è prima di tutto un libro politico. Sulla copertina della prima edizione c'è una pietra, un gigantesco masso granitico che galleggia nel cielo sopra il mare; in cima, un castello della medesima pietra verde-azzurra del masso volante. Si tratta di un quadro di Magritte, Il castello dei Pirenei, scelto da Calvino stesso per illustrare il libro, ovvero per fornire ai propri lettori la prima e unica immagine visibile delle città contenute nel volume. Tutto il resto è, come dice il titolo, assolutamente invisibile: non si può vedere, lo si può solo raccontare. La parola chiave del libro è leggerezza, diventata solo tredici anni dopo, con le Lezioni americane, l'emblema araldico dello scrittore, sua croce e delizia postuma. Lalange, la città sognata da Kublai Kan, ha il privilegio di crescere in leggerezza. È la leggerezza dello scrivere, la leggerezza del vivere, la leggerezza dell'immaginare: la leggerezza come tema politico e persino autobiografico. Uscire da un'età segnata dalla pesantezza degli «anni di ferro» del comunismo staliniano, cui Calvino ha aderito, e dal fallimento dei «socialismi reali», per pensare qualcosa di diverso da quel mondo coeso e compatto. E allo stesso tempo tentare di superare la propria pesantezza del vivere, proiettarsi in un universo di possibilità, spazio virtuale che la letteratura sa comporre con abilità e libertà di fronte al labirinto implacabile del vivere. Il tema della morte, del disfacimento, sono ben presenti in ciascuna delle città raccontate da Marco a Kublai. Il libro, costruito su uno schema geometrico ben strutturato e cadenzato, è il tentativo di opporre al disordine del mondo non un altro ordine, bensì un disordine possibile. Del resto, Le città invisibili sono esse stesse un labirinto: il lettore non sa mai bene dove si trova. Per Calvino queste città sono un catalogo di luoghi e vite virtuali, desiderate, temute, rifiutate, irraggiungibili, «che ruotano intorno all'unico spazio vuoto dell'unica vita che ci tocca per davvero di vivere e da cui ci sentiamo - ha scritto Domenico Scarpa - separati e lontani», «che non conosciamo e che spiamo dall'alto di una palafitta come fanno gli abitanti di Bauci». Ogni città è Calvino stesso, l'uomo e lo scrittore, un suo breve ritratto: come è stato nel passato o come immagina di essere stato, o come aspira ad essere in un futuro non troppo remoto. Alla fine, chiudendo il libro, di tutto questo enigmatico poemetto restano in mente solo poche parole, una frase, un rigo, qualcosa da rammentare, qualcosa di diverso per ciascuno, e per ciascuno unico.




*estratto dal sito del quotidiano "La Stampa".



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