"Aprire gli occhi alle sette meno un quarto del mattino. I figli stanno per andare a scuola. Tendi l’orecchio: mentre si lava la faccia, uno di loro canta. Canta l’inno di Mameli, con quella voce appena arrochita che viene ai maschi, a quindici anni. Resti a ascoltare stupita. Come mai Mameli?, gli domandi, quando s’affaccia in cucina. Mamma, risponde, vai su Youtube a vederti Benigni sul Risorgimento, è stato bellissimo. Bello, davvero. Bello e inusuale, oggi, sentire parlare d’Italia a quel modo: con memoria e gratitudine. Ci voleva un poeta per osare, in tempi avviliti e rabbiosi, parlare così dell’Italia. Perché i poeti, come ha detto Benigni, sono spinti dal desiderio. E il desiderio è il motore grande che muove la storia e i popoli: il desiderio di un bene comune, di continuare, e tramandare passioni e memoria nei figli. Ci voleva anche un po’ di coraggio, in questo febbraio 2011, per esortarci all’«allegro orgoglio» di appartenere al luogo in cui viviamo, al popolo da cui veniamo; per dirci che «occorre volere bene al Paese in cui si è nati». Benigni ha avuto questo coraggio, in tempi in cui da tv e giornali ci si rovesciano addosso ogni giorno cronache di miserie e insulti. Ci ha raccontato da quanto lontano viene la nostra storia, e quanta bellezza ha creato, e in quanti sono morti per raggiungere quell’unità d’Italia che oggi è scontata o contestata. Da Balilla ai Carbonari, da Mazzini a Garibaldi a Pisacane, Benigni ha raccontato il Risorgimento come un’opera "visionaria e carnale": la resurrezione del corpo dell’Italia dilaniato dai dominatori stranieri. Retorica? Forse, anche, perché quegli anni come tutte le epoche hanno avuto le loro ombre e vittime, e i padri della patria non erano santi, e i garibaldini men che meno. Ma in un tempo di avvilimento e veleni è controcorrente la splendente retorica di Benigni: a ricordare a noi ex studenti distratti la nostra storia piena di eroi e passioni e peccatori. A dirci anzi che se apriamo gli occhi, questo nostro è un Paese grande e «memorabile». [....]". Marina Corradi, C'è da cantare e da far festa, "Avvenire", 19 febbraio 2011.
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"[...] Roberto Benigni a Sanremo, come Roberto Saviano a Vieni via con me, non ha fatto calcoli. Si sono lanciati entrambi in un´impresa teoricamente senza speranze nel paese berlusconizzato da vent´anni. E proprio a partire dal luogo più berlusconizzato: la televisione. Non la satira, che può ancora starci, ma un linguaggio, un modo di comunicare «a prescindere» dal berlusconismo. Un tono alto, serio, appassionato. Un appello al popolo senza populismo: l´esatto opposto del berlusconismo. Quello di cui ha bisogno il Paese più profondo. Quello che non sa bene chi siano stati Mameli e Novaro, ma neppure Cavour e Mazzini e Garibaldi, ma oggi ha bisogno di sentirseli raccontare. Di sentirsi raccontare la bellezza infinita dell´Italia, nonostante tutto. Questo modo di agire si chiama inseguire il bene comune. Una volta lo faceva la politica. Da tempo la politica non lo fa, e allora arrivano gli artisti, gli scrittori, gli attori, i comici. Non è la prima volta che accade in Italia. Anzi, come ha spiegato lo stesso Benigni nella sua lezione, nella nostra storia è stato quasi sempre così. L´Italia è l´unica nazione nella storia del mondo dove la cultura unitaria sia venuta molto prima dell´unità politica. Perché per nessun altro popolo, per nessun´altra storia è stata tanto importante la bellezza. La bellezza vera, che coincide con la verità, non l´estetica o l´immagine, minimi surrogati nei tempi corrotti. In un paese paradossale, stavolta è accaduto che per una volta il giullare abbia impiccato il re. Quella di Benigni è stata una lezione di politica.[...]". Curzio Maltese, Il giullare rabdomante del sentimento popolare, "la Repubblica", 19 febbraio 2011.
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"[...] Il monologo di Roberto Benigni è stato uno degli spettacoli più belli mai visti in tv. Pensavo, ascoltandolo cantare l’Inno con un filo di voce e senza musica, che non ci vuole solo un coraggio da leoni, una convinzione e una passione formidabili. Ci vuole la certezza che da casa, comunque vada, capiranno. Che ci sono milioni di persone capaci di ascoltare e di sentire risuonare dentro di sè il valore di quel gesto. È vero, ci sono. La lettura di Antonio Gramsci, «odio gli indifferenti», ha detto il resto in quel silenzio. Una mano che ti prende da una spalla e ti solleva. Avanti ora, tutti: è questo il tempo." Concita de Gregorio, Voler vedere, "l'Unità", 18 febbraio 2011.
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