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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

24 novembre 2010

"Insegnare è stato il mio mestiere..."

"[...] Insegnare è stato il mio mestiere, o meglio un aspetto del mio mestiere, accanto al lavoro di ricerca. Mi è capitato spesso di dire che insegnare mi piace ma imparare mi piace ancora di più. Considero l'imparare una delle grandi gioie della vita. Ho avuto la fortuna di imparare da persone diversissime, piene di qualità straordinarie; se mi volto indietro, la loro generosità e la loro diversità umana e intellettuale mi riempiono di commozione. E penso al meraviglioso disegno in cui Goya ha raffigurato un vecchione con la barba bianca che avanza faticosamente appoggiandosi a due bastoni, sovrastato da due parole: Aun aprendo, imparo ancora, sto ancora imparando. Goya pensava a se stesso, e io guardando quel vecchio mi riconosco in lui. Non si finisce mai di imparare. Ho imparato fuori dalla scuola, in maniera imprevedibile e in circostanze imprevedibili; e ho imparato dentro la scuola, dalle elementari in su, fino a ieri, quando ho lasciato formalmente l'insegnamento: perché, come si sa, gli insegnanti imparano dagli studenti, e viceversa. Quello che dico è banale, perché tutti imparano (l'homo sapiens non è l'animale che sa, è l'animale che sa imparare). Ma non è banale ricordare tutto questo oggi, in un'occasione così solenne, quando in tanti paesi, a cominciare da quello di cui sono cittadino, la scuola è diventata un'istituzione fragile e minacciata - dalla miopia della classe politica, in primo luogo, ma anche dall'attenzione assolutamente inadeguata dell'opinione pubblica. Ho detto miopia: ma mi rendo conto di aver usato un termine improprio. Certo, tagliare gli investimenti destinati all'istruzione, in un mondo in cui l'istruzione è (e sempre più sarà) il bene più prezioso per lo sviluppo di una società, è un gesto miope, che va contro gli interessi del paese: un gesto, diciamolo senza infingimenti, che lo condanna fin d'ora a una sicura decadenza. E tuttavia quest'argomentazione è insufficiente e va respinta, perché di fatto scende sul terreno che vuole combattere, accettando l'idea, così spesso data per scontata, che l'istruzione e la trasmissione del sapere siano beni soggetti alla legge di mercato, al meccanismo della domanda e dell'offerta. Allora mi correggo: non si tratta di miopia, o comunque non solo di miopia. Che cosa ispira l'attacco (perché di attacco si tratta) all'istruzione pubblica: malizia o matta bestialitate? si chiederanno i lettori di Dante. Forse entrambe, chissà.
La mia generazione ha fatto in tempo ad essere coinvolta nella straordinaria tecnologia che ha trasformato la trasmissione e l'apprendimento del sapere: Internet. Qualcuno ha detto che Internet è uno strumento di democrazia. Presa alla lettera, quest'affermazione è falsa. Bisogna aggiungere: è uno strumento di democrazia potenziale. Il motto di Internet è riassumibile nelle parole, paradossali e politicamente scorrette, pronunciate da Gesù: «a chi ha sarà dato» (Matteo, XIII, 12). Per navigare in Internet, per distinguere le perle dalla spazzatura, bisogna avere già avuto accesso alla cultura - un accesso che di norma (parlo per esperienza personale) è associato al privilegio sociale. Internet, che potenzialmente potrebbe essere uno strumento in grado di attenuare le disparità culturali, nell'immediato le esaspera. La scuola ha bisogno di Internet, certo; ma Internet, per essere usato secondo le sue potenzialità (diciamo realisticamente: secondo un milionesimo delle sue capacità) ha bisogno di una scuola pubblica che insegni davvero.". -
 Carlo Ginzburg

*discorso pronunciato in occasione dell'assegnazione del Premio Eugenio Balzan 2010 (estratto da "Liberazione", 21 novembre 2010).

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21 novembre 2010

Necessità di ricostruire

[...] Il destino del Paese per i prossimi dieci o quindici anni sarà infatti determinato dalla transizione che è iniziata ormai da qualche mese e che continuerà per uno o due anni: così fu nel 1943-46, così nel 1992-94. Ma lo è anche negli effetti. Se avverrà, la «distruzione» potrà essere efficace e duratura a una sola condizione: che essa costituisca il primo passo per dare alla Repubblica la correttezza di funzionamento da tempo scomparsa. Ricostruire non significa dunque cambiare il primo ministro né mutare la composizione della maggioranza. Significa, a mio giudizio, intervenire sulle quattro più gravi patologie dell'Italia di oggi: rapporto tra gli elettori e la politica (legge elettorale in primo luogo), rapporto tra questa e l'informazione (televisioni in primo luogo), funzionamento della giustizia (indipendenza e tempi dei giudizi), rapporto tra Nord e Sud (federalismo). Sono patologie divenute talmente gravi da mettere a rischio la democrazia, lo Stato di diritto e la stessa unità nazionale. Ne sono largamente responsabili anche le forze che hanno governato prima di Berlusconi, il quale deve parte della sua fortuna politica proprio alla promessa (ahimè mancata) di curarne alcune. I rimedi devono perciò agire molto in profondità e non sono né di destra né di sinistra. [...].
Tommaso Padoa-Schioppa

*T. Padoa-Schioppa, La necessità di ricostruire, "Corriere della sera", 21 novembre 2010.

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14 novembre 2010

Occorre una rivolta lessicale

"Non c’è soltanto lo smog. Esiste anche l’inquinamento delle parole. “Chi parla male, pensa male”, diceva Nanni Moretti. Vero, quanto è vero. Una frase che mi è tornata in mente tante volte negli ultimi mesi ogni volta che sentivo ripetere quelle due parole: buonismo e giustizialismo. Non le sopporto.
Non so che cosa ne pensiate voi (ditemelo), a me sembra che questa alluvione di “ismi” rifletta uno stato d’animo profondo. Un tentativo lucido, violento perfino, di distorcere due modi di sentire preziosi fino a immiserirli. Rendendoli innoffensivi. Depotenziandoli, insomma, della loro forza dirompente.
Quasi una strategia politico-lessicale che tenta di anestetizzare la nostra sensibilità.
Così l’eccezione e gli eccessi (il giustizialismo) vengono contrabbandati per la regola, e la norma (il desiderio di giustizia) è violentata, cancellata. La “bontà” assume un valore “ideologico”, un profumo di incenso e catechismo. Meglio aggiungere quel suffisso “–ismo” e svuotare la sostanza, puntare il dito sull’apparenza che può essere additata come forma di esaltazione o ipocrisia. Una tecnica quasi “mafiosa”: bollare così una persona, un’azione, così nelle orecchie di chi ascolta rimane l’eco dell’-ismo, il venticello leggero della calunnia.
No, gli uomini e le donne “giusti” esistono. Ci sono i “buoni”.
Rosario Livatino e Giorgio Ambrosoli con la loro sete di giustizia non erano giustizialisti, ma uomini giusti. Sarebbe troppo comodo, però, ricorrere soltanto ai morti. Pensiamo all’Italia di oggi. Alle persone che conosciamo. Una delle fortune di noi giornalisti è proprio questa: incontriamo centinaia di persone. Quanti uomini giusti ho avuto la sorte di incontrare… Leggevo ancora ieri sera la sofferta e appassionata biografia del magistrato Armando Spataro. Il racconto di quando, poco più che trentenne, si trovò a sostenere l’accusa nei processi di terrorismo, rischiando – lui giovane marito e padre – la propria vita. Spataro è il magistrato che si è battuto per il rispetto della legge anche da parte di governi e agenti segreti nel processo per il sequesto di Abu Omar. Un giustizialista? No, secondo me una persona giusta.
Non uomini perfetti. Non santi. Persone con le loro debolezze, capaci anche di errori, che però vedono nella giustizia – una parola che poi ne comprende tante altre, come uguaglianza – uno dei pochi criteri che possano guidarci nella vita individuale e sociale.
Oppure don Gino Rigoldi, il sacerdote milanese protagonista di tante battaglie per gli ultimi, anche quando vestono i panni scomodi di clandestini e rom. Non liquidiamo le sue scelte scomode, assolute (magari per qualcuno discutibili) riportandole nel mare del relativismo in cui ci siamo abituati a nuotare. Don Gino non è buonista, è buono.
Volti e nomi noti. Ma quante persone sconosciute e a noi vicine potremmo definire giuste e buone. Ancora tante.
Eppure queste due parole sono state distorte fino a designare delle caricature. Troppo scomode per chi guida questo Paese, nella politica, nell’economia o nel giornalismo. Uomini che temono forse di trovare un’alternativa al proprio modo di vedere il mondo. Che sperano di poter applicare lo stesso relativismo alla definizione del bene e del male. Ma se individuiamo la giustizia, potremo indicare con la stessa chiarezza la disonestà e la spregiudicatezza. L’ingiustizia, insomma.
Parole scomode, però, anche per noi persone comuni. Giustizia, bontà: concetti impegnativi che ci costringono a un esame di coscienza, a un confronto in fondo con noi stessi.
Difficile cambiare, ma forse si può cominciare dalle parole, poi verranno i pensieri: aboliamo il giustizialismo e il buonismo. Tutti insieme."
Ferruccio Sansa


*dal blog di F. Sansa, "Il Fatto quotidiano", 27 settembre 2010 (Occorre una rivolta culturale)
 
 
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13 novembre 2010

Io urlo

Io lotto e mi ribello
Mi sono votato ad un suicidio
sociale.
Non nella
droga, come molti,
troverò il rimedio per un
mondo più giusto. Non parlo
per me, son cosi poca cosa.
Grido per coloro che non
Han più voce perché l’han
Persa urlando e piangendo
O per quelli che hanno
dimenticato di averla.
Urlo e mi strazio perché
Nemmeno l’eco io sento.
Chiedo forse l’impossibile e
La grandezza di questo ideale
Spegne a poco a poco
Tutto il mio vigore.
Nessuno lasci il suo posto
Per ascoltare il mio canto del
cigno:
a nessuno voglio sottrarre
tempo.
Fate solo un cenno con gli occhi:
mi sentirò più forte
e non soltanto illuso.
Mimmo Beneventano


*Poesia tratta dal libro Rabbia e Destino di Mimmo Beneventano (1948 - 1980), medico poeta e consigliere comunale del comune di Ottaviano, ucciso  a 30 anni per il suo impegno contro la corruzione e l'abusivismo edilizio.
*link al sito della
Fondazione Mimmo Beneventano.

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12 novembre 2010

Le parole per dirlo ...

"Alle donne succede spesso di crescere nella prospettiva non di un perché, ma di un per chi, cioè in modo funzionale a qualcosa o qualcuno. Per molto tempo anch’io ho pensato a me stessa in questi termini, poi, diciamo sui trent’anni, ho capito che la relazione numero uno dovevo stabilirla con me stessa, e ho spostato la vocazione dal fuori all’interno cercando una voce che dicesse il mio nome tutto intero".
Michela Murgia


*Sandra Petrignani, Murgia: «Vorrei un mondo pieno di dissenzienti», "L'Unità", 10 nov. 2010.

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02 novembre 2010

L’Italia sta marcendo



L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.”
Pier Paolo Pasolini, 1972
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01 novembre 2010

La pietruzza del mondo

"Perché si scrive? [...]  le risposte possibili sono tutte plausibili senza che nessuna davvero lo sia. Si scrive perché si ha paura della morte? E’ possibile. O non si scrive piuttosto perché si ha paura di vivere? Anche questo è possibile. Si scrive perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta? Perché il tempo sta passando troppo in fretta e vorremmo fermarlo? Si scrive per rimpianto, perché avremmo voluto fare una certa cosa e non l’abbiamo fatta? Si scrive per rimorso, perché non avremmo dovuto fare quella certa cosa e invece l’abbiamo fatta? Si scrive perché si è qui ma si vorrebbe essere là? Si scrive perché si è andati là ma dopotutto era meglio se restavamo qui? Si scrive perché sarebbe davvero bello poter essere qui dove siamo arrivati e allo stesso tempo essere anche là dove ci trovavamo prima? Si scrive perché “la vita è un ospedale dove ogni malato vorrebbe cambiare letto. L’uno preferirebbe soffrire accanto alla stufa, e l’altro è convinto che guarirebbe vicino alla finestra” (Baudelaire)?
O non si scriverà piuttosto per gioco? Ma non il puro gioco, come pretendeva l’avanguardia dell’avantieri in Italia e anche altrove, cioè la letteratura intesa come parole crociate che è tanto utile per ammazzare il tempo. Il gioco naturalmente c’entra, ma è un gioco che non ha niente a che vedere con gli scherzi in cui eccellono certi giocolieri, i prestidigitatori della domenica che sanno come dilettare lo spettabile pubblico. E’ semmai un gioco che somiglia a quello dei bambini. Di una terribile serietà. Perché quando un bambino gioca mette tutto in gioco. Prende una pietruzza e seduto sul gradino di casa, mentre scende la sera, reggendo la pietruzza sul palmo della mano dice che quella pietruzza è il mondo.
Sottolineo: non lo pensa soltanto, ma lo dice, perché è solo quando lo dice che il sortilegio si avvera e la pietruzza diventa il mondo: è il patto assoluto. Il bambino sa che se quella pietruzza cadesse il mondo precipiterebbe, l’universo in cui il mondo gira sarebbe perturbato, gli astri impazzirebbero e avanzerebbe il caos. Egli sa che finché durerà il suo gioco avrà nelle mani le sorti del mondo. Fino al momento in cui il padre appare nel riquadro della porta sorridendo, la cena è in tavola, si sta facendo freddo, domani è giorno di scuola, e ora bisogna rientrare. [...]
Antonio Tabucchi 
 
*A.Tabucchi, Il padrone della tabaccheria , “la Repubblica”, 31 gennaio 2007.

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