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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

18 luglio 2009

Lo splendore delle verità

"L’obiezione democratica, pur affondando le proprie radici nella cultura della contrarietà, parte da una premessa autoassolutoria: da quando esistono regimi fondati sulla scelta popolare dei governanti e sulla possibilità concreta di confermarli nella loro carica o licenziarli, il male del dispotismo è superato e il potere prevaricatore di un’opinione più pesante di tutte le altre non costituisce più un’autentica minaccia. La sovranità del popolo non è considerata, da chi obietta richiamandosi alle virtù democratiche, come qualcosa che necessiti limitazioni di potere. Il popolo non può agire contro se stesso, visto che coincide con la raffigurazione idealizzata della società. Per natura esso limita la potenza prevaricatrice del sovrano o del parlamentare che elegge: il controllore non ha niente su cui vegliare, essendo al tempo stesso il controllato. Anche per una democrazia a tal punto compiaciuta la storia si compie e finisce. Ma il potere del popolo - e dell’opinione pubblica che esso presume di incarnare - non cambia affatto la questione del freno al dominio di un’opinione su tutte le altre: la ripropone intatta, e la rende semmai ancora più grave. È quello che la tradizione liberale va dicendo da più di due secoli, attraverso pensatori come Tocqueville o Humboldt o Mill. «La fede nell’opinione pubblica», scrive Tocqueville a proposito della democrazia americana, «diventa in quella contrada una specie di religione, e la maggioranza è il suo profeta». Il suo concetto di dittatura della maggioranza viene ripreso da Mill, e analizzato con minuzia talmente severa che l’idea stessa di sovranità popolare e di opinione pubblica ne esce frantumata. Il mito dell’innocenza democratica, soprattutto, è radicalmente confutato: la pretesa a un’incapacità congenita del popolo di divenire tiranno su se stesso, la finzione di un’opinione pubblica che si definisce civile quando i suoi sentimenti e convinzioni sono quelli gradevoli per la parte dominante della società. Il popolo può invece divenire tiranno, e in misura assai più invasiva di quanto avvenga quando si è alle prese con il dispotismo ordinario. È quello che suggerisce Mill: una volta creata la repubblica democratica, espressioni come «autogoverno» e «potere del popolo» cessano di significare quel che si sforzavano d’indicare quando erano propositi astratti se non utopici, e non esprimono più il vero stato delle cose: «Il "popolo" che esercita il potere non coincide sempre con coloro sui quali quest’ultimo viene esercitato.
La volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà della parte di popolo più numerosa e attiva - la maggioranza, o coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza, il popolo può desiderare di opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso di potere». È un memento che conviene tenere presente, oggi, quando ci si interroga attorno al torpore più o meno grande dell’opinione pubblica o ai benefici più o meno estesi del controllo sociale. In maniera sotterranea ma ancor più pervasiva, la tirannia della maggioranza si insinua in ogni interstizio dell’opinione pubblica e trasforma il controllo sociale in una gabbia, non appena si escludono dalle proprie valutazioni le voci dissidenti. La società stessa infatti, come il popolo, può tramutarsi in despota, e il controllo che esercita corre permanentemente il rischio di divenire, secondo Mill, più efficacemente tirannico di innumerevoli tipi di oppressione politica: «Poiché anche se generalmente non ottiene d’esser rispettata con pene altrettanto severe, lascia meno vie di scampo, penetrando molto più profondamente nei dettagli della vita e rendendo schiava l’anima stessa». In ambedue i casi s’impone dunque la difesa dal despota: nel caso del despota classico, e in quello della tirannide dell’opinione e dei sentimenti. Paradossalmente, bisogna farsi particolarmente vigilanti e astuti nel secondo caso: essendo più insidioso, esso richiede che all’arte attiva del resistere si associ l’arte contemplativa del distinguere incessante. Proteggersi dalla tirannide tradizionale non è sufficiente, dice ancora Mill: «È necessario anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre, come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo - e a prevenire, se possibile, la formazione - di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo da ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico». Se questa è la preoccupazione di Mill nel 1869, ancor più grande è la preoccupazione che si può avere oggi. L’opinione prevalente che si presenta come unica non solo è più subdola del dispotismo classico. In genere, quella porzione di società che si arroga il diritto d’essere un tutto è assai più organizzata dell’opinione discordante, ha dalla propria parte la formidabile forza d’urto che sono i mezzi di formazione e informazione: giornali e televisioni. Chi controlla questi mezzi può non solo esprimere la volontà della «parte del popolo più numerosa e attiva» ma, per dirla con Mill, può «riuscire a farsi accettare come tale» anche quando questa parte, in realtà, non è effettivamente maggioranza. Può fingere di rappresentare la volontà del popolo tout-court. Chi denuncia l’assenza in Italia di un controllo sociale - di un filtro che eviti al peggio di emergere - non viene screditato da queste argomentazioni. Ma occorre affinare la nozione di controllo sociale, mutarne la struttura. Suo scopo non deve essere quello di consolidare un’idea votata a divenire dottrina, muro di bronzo irremovibile e impenetrabile, ma di organizzarsi in maniera tale da evitare che il potere d’influenza di un ragionamento si costituisca sulla sua capacità di controllo su altri ragionamenti o sulla loro eliminazione. Il vigore del controllo sociale deve risiedere non solo nell’endurance, nella ferma vocazione a durare, ma anche nella resilience, che è l’elastica energia del materiale che si raddrizza quando lo si piega. Non puoi essere resilient - flessibile, duttile, dunque antidottrinale - se non hai neppure incontrato chi, disorientandoti, facendoti retrocedere, ti ha messo alla prova, così come il capitano MacWhirr nel racconto di Conrad sa di non poter menare vanto per il tifone audacemente scampato se non dimostra di averlo traversato, ignorando tante dotte dissertazioni sulla «strategia della tempesta». Occorre insomma che l’opinione salda, atta a durare, non diventi l’equivalente del conformismo, o - appunto - del comune sentire. Che non propaghi attorno a sé la narcosi, la non-resistenza degli individui a quella che si presenta come opinione prevalente. Altrimenti la forza d’urto di quest’ultima si trasforma in potenza dissuasiva più che persuasiva, simile per natura all’intimidazione atomica: se vuoi colpire l’opinione dominante ti guarderai dal farlo, sapendo che di certo, nello stesso momento in cui colpisci, sarai a tua volta distrutto. Il principio di dissuasione - in linguaggio militare si usa l’acronimo MAD, Mutual Assured Destruction, che non a caso significa folle - vale per una pluralità di cose: per l’atomica, per il pensiero unico, per i media, e infine per la Società vista come blocco monolitico. È un principio ottimo in strategia militare. Non è ottimo nell’arte della conversazione privata o cittadina."
Barbara Spinelli
*Dalla «lectio doctoralis» della Spinelli, intitolata Lo splendore della verità, in occasione della cerimonia di consegna della laurea honoris causa in Studi Europei all'Università di Alessandria, il 21 ottobre 2008 (testo pubblicato sul quotidiano "La Stampa", "Il dispotismo dell’opinione predominante un’insidia sotterranea ma tanto più invasiva ("La Stampa", 22 ottobre 2008
(dal sito del quotidiano "La Stampa" )
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