[...] Ecco cosa mi ha dato la scrittura: la sensazione di non essere una vittima passiva e impotente di ciò che è accaduto. Ovviamente non potrò cancellare il passato e non potrò riportare in vita il mio caro e neppure far muovere nulla in lui. Ma non sarò paralizzato e immobile contro l’arbitrio che mi ha colpito. E un’altra cosa ho imparato in questi anni: in certe situazioni l’unica libertà che ha un uomo è quella di formulare la propria storia con le proprie parole, non con quelle dettate da altri. So quanto sia piccolo l’atto creativo dinanzi alla morte. Quanto l’impulso di creare, inventare, immaginare, insistere a cercare la parola giusta, l’unica, sia senza speranza. E, in generale, so quanto sia fragile l’illusione umana che questo sforzo di precisione abbia un qualche significato “obiettivo” in un mondo indifferente, arbitrario e inspiegabile. Eppure, mentre scrivevo, avevo spesso la sensazione che se avessi trovato la parola giusta avrei in qualche modo compiuto una piccola riparazione; avrei creato un luogo – o addirittura una casa – per me e forse anche per chi leggerà il libro, in un mondo divenuto quasi interamente terra di esilio. Del risultato finale, del libro terminato come opera che va incontro al suo destino, testimonieranno gli altri. Io posso solo dire che mentre lavoravo a questo libro sentivo – in contrasto con le circostanze in cui è stato scritto – di essere fortunato perché potevo dare a tutto “questo” parole.
David Grossman
D.Grossman, Come trovare le parole per raccontare una tragedia, "la Repubblica", 29 ott. 2012
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