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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

28 ottobre 2008

Anni di piombo


Nando dalla Chiesa
Il giardino di Ombre rosse
"l'Unità", 24 ottobre 2008


Si chiama «Ombre rosse» e sta in una stradina del centro storico di Genova. Una trattoria piccola, con qualche coperto supplementare sul giardinetto di fronte, dall’altra parte del vicolo. Ci sono arrivato per caso, chiedendo se c’era posto e domandandomi che rapporto potessero mai avere i proprietari con lo storico filmone di John Wayne.
Mi ha accolto una signora all’incirca della mia età. Che mi ha riconosciuto e mi ha sorriso con dolcezza misteriosa. Per poi accompagnarmi con premura a un tavolino nel giardinetto, dandomi del tu. Torno subito, ha detto.Il tempo, per me, di leggere su un muro un avviso di questo tenore, scritto con ogni evidenza da lei o da un suo collaboratore: «Questi giardini sono pubblici, quindi la consumazione non è obbligatoria». Un miracolo, ho pensato, nell’Italia delle appropriazioni abusive di suolo pubblico, nella Liguria dove ogni metro di spiaggia è recintato. Mi sono incuriosito ancora di più.Finché la signora si è riavvicinata e durante le ordinazioni mi ha detto: «Ho conosciuto tuo padre». Me lo dicono in tanti, e dunque quasi automaticamente ho chiesto come mai e dove. «Mi ha arrestato», mi ha risposto lei. Mi hanno arrestato i suoi carabinieri, con l’accusa di stare con i terroristi, di essere una di loro. Poi sono stata scagionata. Ne ho un ricordo bello, ha aggiunto.Devo avere avuto uno o più moti di stupore, mentre andavo realizzando che quell’insegna «Ombre rosse» non aveva probabilmente nulla a che fare con i western. Sì, ha aggiunto. Lo ricordo così, tuo padre, perché si capiva che ci credeva davvero nel suo Stato. Perché ci accorgemmo che era un personaggio di qualità, di un altro livello. E perché ci rispettò. Ci rispettò... mi sono ridetto mentalmente, quasi stordito. Ma perché, quando l’avete visto?, ho chiesto. Ci volle vedere lui. Ma in quale occasione fu, all’epoca di via Fracchia?, ho insistito rendendomi subito conto della banalità, visto che via Fracchia fu solo un’irruzione con sparatoria. No, fu in una retata di universitari, mi ha risposto lei. Quella con Fenzi?, ho azzardato, ricordando bene il ruolo del professore genovese nelle bierre cittadine e le polemiche su una sua assoluzione, che avevano tirato fuori a mio padre l’accusa contro «l’ingiustizia che li assolve». Sì, mi ha risposto lei, proprio quella. Aggiungendo con un sorriso: io sono la moglie di Fenzi. Ho finto indifferenza, mentre gli occhi mi cadevano su un altro piccolo cartello che dall’alto sembrava ammonire e confortare con delicatezza gli avventori: «Questo è un luogo di conversazione e di buone maniere».Ci trattava con rispetto, ha ripreso lei, Isabella si chiama. Sembrava che lui capisse che eravamo dei nemici, ma dotati di ideali.È vero, ho pensato, lo diceva sempre di loro. Ma non ho potuto fare a meno di chiedermi anche che cosa sia successo in questo Paese se tanti anni fa un generale dei carabinieri trattava con rispetto quelli che volevano ucciderlo e oggi gente innocente, colpevole di nulla, può essere picchiata e umiliata se finisce nel posto o tra le divise sbagliate...Mi sono trovato in imbarazzo, perché nasconderlo? La signora che mi accoglieva era gentile, colta, amichevole. E anche la figlia più giovane che aiutava ai tavoli era di rara educazione.
Ma come dimenticare quanto terribile sia stata la striscia di lutti lasciata dal terrorismo? Ne ho conosciute di vittime. Sicché ho cercato di non dimenticare nulla man mano che il nostro colloquio andava avanti. Sai, le ho detto, io ho qualche imbarazzo a parlare con chi ha sostenuto il terrorismo.Non perché non capisca le persone che ho davanti, i loro diritti, i loro cambiamenti; ma per quelle mogli, quei figli, quei genitori. Io credo che non li dobbiamo mai dimenticare. Le ho raccontato così della mia amicizia con Mario Calabresi, di Galvaligi. Di mia madre morta di cuore sotto il terrorismo, di mia sorella Simona minacciata e in fuga da Torino.
Vedi, le ho spiegato, non trovo giusto che la storia di quegli anni l’abbiano scritta e raccontata soprattutto i terroristi. Be’, ha osservato lei, ma avranno bene il diritto di parola. Certo, ho continuato, ma lo esercitano molto meglio delle vittime.La vedova di un appuntato sa raccontare a stento che cosa è successo a lei, che storia d’Italia può mai raccontare... C’è stato un dislivello di possibilità, o no?
Lei ha ascoltato con rispetto. «Sì, è giusto pensarci, soprattutto dopo che mi hai ricordato queste cose», ha ammesso. Però, ha continuato, bisogna chiedersi perché migliaia di giovani hanno fatto questa scelta dopo tutte quelle stragi, dopo avere visto che il potere faceva uccidere gente inerme senza che nessuno pagasse mai.Lì, esattamente lì, ho incominciato a capire di essere davanti a una persona diversa. Primo, si era commossa nel sentirsi ricordare i dolori altrui. Secondo, non aveva detto che la scelta della lotta armata l’aveva fatta, come sogliono dire i brigatisti e i loro cantori, «un’intera generazione». No, aveva detto onestamente «migliaia di giovani». Certo, ha proseguito, poi abbiamo capito che era una scelta sbagliata, che tuo padre era dalla parte giusta.Ecco, e qui per me è cambiato tutto. Non per il riferimento diretto a mio padre. Ma perché era spuntato il discrimine. Quante «notti della Repubblica», quante interviste, quanti libri, ci siamo visti e letti in questi decenni, in cui ex terroristi spiegavano che il loro errore era di non avere capito bene la fase politica, di avere erroneamente immaginato di avere dietro la classe operaia, senza che mai venissero pronunciate chiare parole di dolore per le vittime o sulle ragioni alte e insuperabili della democrazia? Tuo padre era dalla parte giusta, aveva ragione lui. Detto proprio da chi un minuto prima mi aveva ricordato le stragi di Stato impunite. In quell’attimo ho pensato che questo è l’unico modo di chiudere gli anni di piombo. Sul serio, in profondità. Il dolore per chi è caduto, il riconoscimento delle ragioni dello Stato, senza per questo dimenticarne le brutture più ignobili. Ho scoperto in questa scelta di campo una dignità superiore. Senza chiasso.Quella di un lavoro silenzioso e orgoglioso, nessuna predica, la voglia di partecipare alla costruzione del bene collettivo. Quel giardinetto pubblico realizzato da lei, tirandolo fuori - come un coniglio dal cilindro - dai detriti e dai rifiuti.
Verso la fine della serata è venuto a salutarmi il marito, Enrico Fenzi, il docente di lettere poi condannato a non ricordo quanti anni di carcere. Passato lì inusualmente a dare una mano, con il grembiule blu del locale addosso. Bianco di capelli, sorridente anche lui, con un ritegno assai marcato, un pudore gentile, dandomi del lei. Pochi minuti soltanto. Me ne sono andato pensando a quegli anni feroci, alla forza micidiale delle ideologie. A come potevano sposare la lotta armata anche persone così, che mettono al mondo figli dolci e impegnati nel volontariato. A com’era l’Italia quando degli arrestati per terrorismo sentivano il rispetto del loro nemico numero uno.

*dal sito di Nando Dalla Chiesa

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24 ottobre 2008

"Ogni tempo ha il suo fascismo"

"Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col timore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti."

Primo Levi , "Corriere della sera", 8 maggio 1974
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20 ottobre 2008

Costituzione italiana - art. 4

"La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."

La scuola pubblica


Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola pubblica, a Roma l’11 febbraio 1950.
"Scuola democratica", 20 marzo 1950.

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere.
Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

*estratto da Internazionale. 19/25 settembre 2008
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Vittorio Foa (1910-2008)

Vittorio Foa,
l'uomo che aveva in testa il futuro
è morto oggi a 98 anni.

"Questo Novecento. No, il secolo non è stato solo violenza, dominio dell’idea della forza. È stato anche altro. In Europa c’è stata una lunga pace. La pace non è un contenitore temporale, un pezzo di tempo storico che raccoglie vicende tranquille, la pace è una protagonista che cambia la testa della gente, è un serbatoio di possibilità.Vi sono anche altre tentazioni di lettura “d’insieme” di questo Novecento. Lo si rappresenta come il conflitto ideale fra grandi principi, fra democrazia e totalitarismo, fra capitalismo e socialismo, fra sviluppo e sottosviluppo. In un modo o nell’altro un conflitto fra il Bene e il Male. Come non esservi coinvolto se vi si è stati in mezzo? È una tentazione facile perché esonera dall’analisi dei fatti, si galleggia tranquilli in nozioni generiche delle quali non c’è nulla da dimostrare: tutti sanno cos’è la democrazia, cos’è il capitalismo e via dicendo. Nella lettura ideologica del secolo vi è la pigrizia, rinuncia a pensare. Ma vi è anche la nostalgia, il rimpianto della giovinezza, dei tempi dell’azione, quando ideologie e miti davano sicurezza all’agire umano, prima di entrare in questo oceano magari calmo e persino lattiginoso ma carico di insicurezze. È la nostalgia delle grandi passioni, a sinistra la nostalgia antifascista e (su una dimensione temporale più lunga che copre tutto il secolo) la nostalgia comunista. Io rispetto quelli che si sentono orfani, molti di essi li stimo. Ma perché non sentono con altrettanta forza le passioni e le tensioni di oggi coi loro conflitti che ci chiedono scelte di valore?perché farsi prigionieri della memoria, come se i nodi da sciogliere oggi fossero gli stessi di ieri? Perché non capire che la memoria non è prigione ma è libertà solo se rielabora i valori del passato nel presente, in vista del futuro?

Vittorio Foa, Questo Novecento,
Torino, 1996, pp. 377-378
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19 ottobre 2008

Pio XII e la Shoa

Mentre siamo di fronte ad un assalto alle regole dell'accoglienza e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo esplode una polemica tra il Vaticano e la comunità ebraica. Per smentire una volta per tutte la tesi secondo cui Pio XII sarebbe stato piuttosto inerte di fronte alle politiche di sterminio del nazismo (e del fascismo) basterebbe pubblicare finalmente il testo di tutti gli tutti gli interventi pubblici di quel papa sull'argomento, lettere ufficiali, dichiarazioni, tutti gli interventi radiofonici, manifestazioni di indignazione, appelli ecc. All'epoca il sistema mediatico era già ben organizzato e la consuetudine a conservare ogni tipo di documento era ben consolidata. Se dal 1945 ad oggi al Vaticano c'è imbarazzo è probabile che forse Pio XII si sia limitato a sussurrare con pochi intimi che forse Hilter esagerava, senza mai "gridare in modo forte e chiaro" contro quella empietà che si stava compiendo. Allora la didascalia nel museo dell'Olocausto a commento di una fotografia di Pio XII è corretta e doverosa e non deve essere modificata. E la comunità umana fa bene ad elevare una voce forte e chiara contro ogni ipotesi di santità per il papa che fu "spettatore silenzioso" (citando il protagonista vero de "La città della fortuna "di Elie Wiesel).
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Didascalia del ritratto papa di Pio XII nel museo dell'Olocausto di Gerusalemme

«La reazione di Pio XII all'uccisione degli ebrei durante la Shoah è una questione controversa. Nel 1933, quando era Segretario di Stato vaticano, si attivò per ottenere un Concordato con il regime tedesco per preservare i diritti della Chiesa in Germania, anche se ciò significò riconoscere il regime razzista nazista. Quando fu eletto Papa nel 1939, accantonò una lettera contro il razzismo e l'antisemitismo preparata dal suo predecessore. Anche quando notizie sull'uccisione degli ebrei raggiunsero il Vaticano, il Papa non protestò né verbalmente né per iscritto. Nel dicembre 1942, si astenne dal firmare la dichiarazione degli Alleati che condannava lo sterminio degli ebrei. Quando ebrei furono deportati da Roma ad Auschwitz, il Papa non intervenne. Il Papa mantenne una posizione neutrale per tutta la guerra, con l'eccezione degli appelli ai governanti di Ungheria e Slovacchia verso la fine. Il suo silenzio e la mancanza di linee guida costrinsero il clero d'Europa a decidere per proprio conto come reagire».
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18 ottobre 2008

Telegiornale - 1961

Stando nel cerchio d'ombra
come selvaggi intorno al fuoco
bonariamente entra in famiglia
qualche immagine di sterminio.
Così ogni sera si teorizza
la violenza della storia.
Nelo Risi, 1961
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15 ottobre 2008

Poesia

Creatura di creature
Se l’occhio non si esercita, non vede
pelle che non tocca, non sa
se il sangue non immagina, si spegne.
Pure provato da fatiche e lotte,
meravigliato dei capelli bianchi
di persistere vivo, la tua voce
pudore ha di poetare:
a irreprimibile esigenza,
già terra
acqua
creature
orizzonte,
ti sono adolescenti parole.
Danilo Dolci
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14 ottobre 2008

Fotografi "veri"

"E’ stato detto – ed è vero – che non c’è fotografia che nel giro di pochi anni non diventi “bella” per quel che vi si cristallizza di nostalgia, di rimpianto, di sentimento personale o collettivo. E insomma: perché è un “ricordo”. Ma ci sono delle fotografie che nascono “belle”, che sono in sé “belle” (e ancora più “belle” si fanno quando la memoria individuale o collettiva in esse riconosce e si riconosce): e sono le fotografie cui si può conferire, a modo di definizione, quel che Paul Valery diceva della danza: “L’istante genera la forma e la forma fa vedere l’istante”. L’irripetibile, unico istante; l’unica e irripetibile forza. Le fotografie, per dirla semplicemente, dei “veri” fotografi."
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11 ottobre 2008

Radici



Giovanni Bazoli
La vigna e la Costituzione
"La Repubblica", 28 novembre 2001.
Attualità di una parabola evangelica
Uguaglianza tema principe del secolo ventesimo La delusione degli operai sulle strade di Tripoli Nel racconto di Matteo gli operai svolgono un lavoro di diversa durata ma ricevono la stessa paga Come giudicare questa disparità? La giustizia suprema è appannaggio solo di Dio ma spetta allo Stato il compito di realizzare l'eguale dignità di tutti gli uomini .
Il Vangelo è il racconto dei modi in cui la bontà divina si manifesta e opera; e noi abbiamo il dovere di interrogarci sulle parole evangeliche che sono il tramite per accedere al mistero. Solo procedendo nella ricerca e trovando una risposta al quesito riguardante il nesso tra la bontà e la giustizia divina, in rapporto alle opere degli uomini, si potrà pervenire — come cercherò di dimostrare — a cogliere il pieno significato della parabola, nonché le sue possibili implicazioni, che non riguardano solo l'ambito teologico, ma anche quello etico e politico.
La risposta che andiamo cercando ci è fornita dalla parabola stessa: e precisamente da quel passaggio del racconto in cui si dice che il padrone della vigna si rivolge agli ultimi operai, per chiamarli al lavoro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?” Ed essi rispondono: “Quia nemo nos conduxit”, perché nessuno ci ha chiamati. Questo passaggio è la chiave per una corretta interpretazione della parabola. Molti esegeti hanno ritenuto di poter trascurare o addirittura hanno voluto forzare questo passo per far coincidere — io dico: per confondere — il tema di questa parabola con quello della conversione. Gli ultimi operai non avrebbero risposto per loro colpa alla precedente chiamata del Padrone (che sarebbe stata rivolta a tutti e quindi anche a loro) e solo all'ultima ora avrebbero accettato di andare a lavorare nella vigna. (…) Due anni fa, mentre tornavo da Tripoli, percorrevo una strada periferica verso l'aeroporto. Ricordo una lunga fila di operai in attesa di essere presi a giornata. (…) Quei lavoratori attendevano sotto il sole cocente di essere raccolti dai camion dei padroni; e quando uno veniva scelto e caricato, la delusione si leggeva sul volto degli altri che rimanevano a terra. Non stavano oziando: erano lungo la strada come gli ultimi operai evangelici erano nella piazza. Nella nostra parabola, dunque, “Quia nemo nos conduxit” non descrive pigrizia o ignoranza, bensì una differenza di opportunità, non dipendente dalla volontà dei lavoratori.
Con questa parabola il Signore ha voluto sottolineare l'esistenza di una disparità di risorse, di occasioni, ammonendoci che occorre tenere conto delle disuguaglianze iniziali, ossia, più in generale, delle ragioni di una diversa “resa” degli uomini. Il significato è dunque questo: nell'attribuzione della mercede, cioè della felicità eterna, si seguirà un ordine inatteso, diverso da quello osservato in terra. I giudizi e le valutazioni di questo mondo saranno ribaltati perché si terrà conto della diversità di condizioni in cui gli uomini sono stati chiamati a prestare la loro opera. Se ci domandiamo che cosa significhi “lavorare nella vigna” la risposta è chiara: significa dare un senso alla vita, perché ogni uomo si realizza nel lavoro. Lavorare comporta che si debba sopportare il peso di una giornata intera di fatica e di caldo, come fanno presente i primi operai; ma è un privilegio, è impiegare al meglio la propria vita.(…) Il tema della diseguaglianza nella distribuzione delle risorse tra gli uomini — la disparità nella chiamata, nell'offerta di occasioni di lavoro, è la chiave per comprendere la straordinaria portata della parabola. Orbene, se la giustizia divina provvederà a rimediare in modo perfetto a tali disparità, è evidente che gli uomini si devono adoperare per ridurle qui, nell'ordine terreno, dove le diseguaglianze e le disparità di opportunità e di risorse, sia tra individuo e individuo, sia tra popolo e popolo, continuano a sussistere, anzi ad aggravarsi. Ma fino a che punto può spingersi il tentativo dell'uomo di perseguire il superamento delle condizioni di diseguaglianza tra i singoli e tra le nazioni? E' chiaro che l'uomo può agire solo sui fattori economici e sociali che sono cause di disuguaglianze, non sui fattori, per così dire, “naturali”. La giustizia suprema è appannaggio solo di Dio, che in virtù della sua onniscienza potrà realizzare nel Regno l'uguaglianza perfetta tra le creature. Proporsi di perseguire nel mondo tale obiettivo tramite l'azione politica significherebbe correre il rischio di cadere nella teocrazia e nelle derive del fondamentalismo.
Di fronte ai traguardi indicati dall'insegnamento evangelico il politico deve evitare due rischi opposti: quello di pretendere di realizzarlo in modo integralistico e quello speculare di giudicarlo utopistico e quindi irrealizzabile. Il cristiano non può sottrarsi al compito di mirare ad obiettivi coerenti con quegli insegnamenti ma sa di non avere nelle mani nessuna verità assoluta sui modi per realizzarli. (…) Con questo limite della laicità, quale può essere il progetto terreno più aderente all'indicazione evangelica di porre rimedio alle disuguaglianze? E' ben noto che proprio il tema dell'uguaglianza — o meglio delle disuguaglianze tra individui, classi e nazioni — è stato centrale nel dibattito e nello scontro, che ha segnato il secolo XX, tra liberismo e marxismo. La pretesa estrema e utopica, che ha motivato l'ideologia comunista, di realizzare attraverso lo Stato una piena uguaglianza tra gli uomini e tra le classi di lavoratori, non ha raggiunto l'obiettivo dichiarato.(…) Il pensiero liberale, che nelle sue versioni più radicali si era opposto alla previsione di qualsiasi intervento statale nel campo economico, negli sviluppi più maturi e aperti alle istanze sociali riconosce la perfetta compatibilità con gli obiettivi della maggiore efficienza economica di interventi statali volti ad attenuare le disparità iniziali dei cittadini (la teoria einaudiana del livellamento delle “posizioni di partenza). Confrontando i temi di questo dibattito con il messaggio che abbiamo attribuito alla nostra parabola, appare coerente con tale messaggio evangelico una previsione che assegni allo Stato il compito di “realizzare in fatto, il più possibile, l'eguale dignità di tutti gli uomini”, rimuovendo le cause di ordine economico e sociale che ostacolano il raggiungimento di tale obiettivo.
A questo punto posso far notare che con queste parole io ho anticipato quasi alla lettera ciò che dice l'articolo 3, comma 2 della nostra Costituzione. “E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Non credo di dover aggiungere altro per sottolineare come in questa norma sia riconoscibile una diretta ispirazione “cristiana”, anzi evangelica. E di conseguenza credo anche di poter qui fondatamente sostenere che qualunque iniziativa di revisione costituzionale che toccasse questo articolo, così come gli altri che fanno parte del Preambolo della nostra Costituzione, sarebbe un atto grave e irresponsabile.
Nella discussione su questa norma all'Assemblea costituente, la consapevolezza da parte di ogni settore politico delle sue radici culturali, è testimoniata dalle parole pronunciate il 6 marzo 1947 da Lelio Basso, un politico non certo di parte cattolica: “Noi avremo realizzato una grande opera se riusciremo a tradurre nella nostra Carta costituzionale questa grande aspirazione di libertà e di giustizia sociale (...), se riusciremo a tradurre quei principi in cui si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana”. Oggi un'ulteriore prospettiva appare sempre più incalzante e ineludibile: quella di trasferire nell'ambito dei rapporti internazionali un principio giuridico come questo che abbiamo considerato, assegnando ad un ordinamento sopranazionale il compito di promuovere il superamento delle condizioni di disparità esistenti non solo tra i cittadini di uno Stato, ma tra tutti i popoli della terra.
*estratto dal sito http://www.repubblica.it/
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07 ottobre 2008

La civiltà dei barbari


C'è un cambiamento in atto che non è solo culturale, ma antropologico e genetico e che può produrre un'umanità radicalmente nuova, diversa dalla nostra conversazione tra Claudio Magris e Alessandro Baricco

Claudio Magris: Nietzsche ha descritto con genialità l'avvento di una società nichilista dove tutto è interscambiabile come monetaDurante la campagna elettorale del 2001 mi sono accorto che non capivo più il mondo. Un manifesto di Forza Italia mostrava Berlusconi in maglione, con la scritta «Presidente operaio»; un'idea che sarebbe potuta venire in mente a me e ai miei amici per una goliardata che lo mettesse in ridicolo. Sarebbe stato altrettanto comico proclamare Veltroni o Prodi «Presidenti operai». Ma se qualcosa che per me era una caricatura satirica funzionava invece quale efficace propaganda, voleva dire che erano cambiate le regole del mondo, i metri di giudizio, i meccanismi della risata; mi trovavo a un tavolo di poker credendo che l'asso fosse la carta più alta e scoprivo che invece valeva meno del due di picche, come quando il protagonista dell'Uomo senza qualità di Musil, leggendo su un giornale di un «geniale» cavallo da corsa, capisce che le sue categorie mentali sono saltate, non afferrano e non valutano più le cose.Alessandro Baricco si addentra nel paesaggio di questa mutazione epocale con straordinaria acutezza; con quella profondità dissimulata in leggerezza che caratterizza il suo narrare. Forse Baricco è scrittore dell'Ottocento e del Duemila più che del Novecento, cui pure s'intitola un suo celebre libro. Si muove nel mondo saccheggiato dai barbari, come egli li chiama, con l'agilità di un'antilope in un territorio che non è proprio il suo, ma nel quale non si trova affatto a disagio. I barbari sono tali rispetto a quella che si considera — a noi che ci consideriamo — la civiltà, la quale si sente devastata nei suoi valori essenziali: la durata, l'autenticità, la profondità, la continuità, la ricerca del senso della vita e dell'arte, l'esigenza di assoluti, la verità, la grande forma epica, la logica consueta, ogni gerarchia d'importanza tra i fenomeni. In luogo di tutto questo trionfano la superficie, l'effimero, l'artificio, la spettacolarità, il successo quale unica misura del valore, l'uomo orizzontale che cerca l'esperienza in una girandola continuamente mutevole. Il vivere diventa un surfing, una navigazione veloce che salta da una cosa all'altra come da un tasto all'altro su Internet; l'esperienza è una traiettoria di sensazioni in cui Pulp Fiction e Disneyland valgono quanto Moby Dick e non lasciano il tempo di leggereMoby Dick.Nietzsche ha descritto con genialità unica l'avvento di questo nuovo uomo e della sua società nichilista, in cui tutto è interscambiabile con qualsiasi altra cosa, come la cartamoneta. Tutto ciò nasce già col romanticismo, che ha infranto ogni canone classico, anzi ogni canone; come ricorda Baricco, la prima esecuzione della Nona di Beethoven venne stroncata dai più seri critici musicali con termini analoghi a quelli con cui oggi si stroncano, accusandole di complicità con i gusti più bassi e volgari, tante performance artistiche o pseudoartistiche. Baricco cerca di descrivere — o, nei suoi romanzi, di raccontare — e soprattutto di capire il mondo, anziché deplorarlo, e sostiene giustamente, nel bellissimo finale de I barbari (Feltrinelli), che ogni identità e ogni valore si salvano non erigendo una muraglia contro la mutazione, bensì operando all'interno della mutazione che è comunque il prezzo, talora pesante, che si paga per un grande progresso, per la possibilità di accedere alla cultura data a masse prima iniquamente escluse e che non possono avere già acquisito una coerente signorilità «Se tutto va compreso — gli chiedo incontrandolo nella sua e un po' anche mia Revigliasco— non tutto va accettato. Tu stesso scrivi che occorre sapere cosa salvare del vecchio — che dunque non è tale — in questa totale trasformazione. Questo implica un giudizio, che non identifica dunque, come oggi si pretende, il valore col successo. Anche Il piccolo alpino vendeva un secolo fa tante più copie delle poesie di Saba, ma non per questo chi lo leggeva capiva meglio la vita. Se i giornali — come dici — non parlano di una tragedia in Africa finché non diventa gossip di veline o di sottosegretari, non è una buona ragione per non correggere questa informazione scalcagnata prima ancora che falsa. Del resto è quello che fanno tanti blog, in cui si trova spesso più «verità» che nei media tradizionali. I barbari ci aiutano quindi forse anche a combattere la barbarica identificazione del valore col successo».
Baricco — Certo, non tutto va accettato, hai ragione. Ma capire la mutazione, accettarla, è l'unico modo di conservare una possibilità di giudizio, di scelta. Se si riconosce alla nuova civiltà barbara uno statuto, appunto, di civiltà, allora diventa possibile discuterne i tratti più deboli, che sono molti. D'altronde io credo che la stessa barbarie abbia una certa coscienza dei suoi limiti, dei suoi passaggi rischiosi e potenzialmente autodistruttivi: in un certo senso sente il bisogno di vecchi maestri, ne ha una fame spasmodica: il fatto è che i vecchi maestri spesso non accettano di sedersi a un tavolo comune, e questo complica le cose.
Magris — Credo che non esista una contrapposizione fra i barbari e gli altri (noi?). Anche chi combatte molti aspetti «barbarici» non è patetiout, ma contribuisce alla trasformazione della realtà. Come nel Kim di Kipling, in cui tutti spingono la Ruota e ne sono schiacciati. Senza pathos della Fine né di un miracoloso e fatale Inizio. La civiltà absburgica, così esperta di invasioni barbariche, non le demonizzava né le enfatizzava; si limitava a dire: «È capitato che...».
Baricco — «È capitato che...», bellissimo. Quando ho pensato di scrivere I barbari avevo proprio uno stato d'animo di quel tipo… Sta capitando che… Non avevo in mente di raccontare un'apocalisse e nemmeno di annunciare qualche salvezza… volevo solo dire che stava succedendo qualcosa di geniale, e mi sembrava assurdo non prenderne atto. Forse ho letto troppi mitteleuropei da giovane e mi son trasformato in un von Trotta. Colpa tua, in un certo senso…
Magris — Tu indaghi splendidamente lo stretto rapporto che c'era tra profondità, rifuggita dai barbari, e fatica, sublimata e cupa moralità del lavoro e del dovere, che spesso conduce a sacrificio e a violenza. Ma la profondità non è necessariamente legata alla falsa etica del sacrificio. Immergersi e reimmergersi in un testo — in un amore, in un'amicizia, anziché toccarli di sfuggita come oggi i barbari — non vuol dire sfiancarsi a scavare come un forzato nella miniera, ma è come scendere ripetutamente in mare, scoprendo ogni volta nuove luci e colori, che arricchiscono quelle precedenti, o come fare all'amore tante volte con una persona amata, ogni volta più intensamente grazie alla libertà dell'accresciuta confidenza.
Baricco — La profondità, quello è un bel tema. Sai, scrivendo I barbari, ho dedicato molto tempo a capire e a descrivere la formidabile reinvenzione della superficialità che questa mutazione sta realizzando. E trovo fantastico ciò che siamo riusciti a fare, riscattando una categoria che ufficialmente era l'identificazione stessa del male, e restituendola alla gente come uno dei luoghi riservati al Senso. Ma mi rendo anche conto che questo non significa affatto demonizzare, automaticamente, la profondità. Tu giustamente parli di amicizia, di amore, e se tu guardi i giovani di oggi, quasi tutti tipici barbari, tu troverai lo stesso desiderio di profondità che potevamo avere noi. O se pensi alla loro domanda religiosa, ci trovi un'ansia di verticalità che non riesci bene a coniugare con la loro cultura del surfing. Alla fine sai cosa penso? Che la mutazione abbia smontato la dicotomia di superficiale e profondo: non sono più due categorie antitetiche: sono le due mosse di un unico movimento. Sono i due nomi di una stessa cosa. Non so, non so spiegarlo meglio, è una cosa che intuisco ma devo ancora pensare: ma credimi, il punto è quello. Ti dirò di più: la superficialità, nelle opere d'arte barbare, non è già più distinguibile come tale, non più di quanto tu possa distinguere cosa è ornamento in un quadro di Klimt, o pura aritmetica in una suite di Bach.
Magris — Pur più allergico di te — anche per ragioni d'età — ai barbari, vorrei difenderli da una loro immagine totalitaria. In Google vedo anche una — pur immensa — reticella simile a quelle con cui i bambini pescano in mare granchi e conchiglie. Non ho bisogno di Google per sapere qualcosa su Goethe, «linkatissimo», perché lo trovo altrettanto facilmente altrove, come in passato. Invece è Google che mi ha dato qualche notizia su un personaggio minimo di cui mi sto interessando, una nera africana del Cinquecento fatta schiava, divenuta dama di corte in Spagna, rapita dai Caraibi e poi loro regina. I blog correggono l'unilateralità barbarica dei media, che parlano solo di ciò di cui si parla e si sa. Non credo che Faulkner possa sparire, meglio allora se sparisse Google; credo che Google possa semmai aiutare a far riscoprire la sua grandezza a molti ignoranti. I barbari che hanno invaso l'impero romano ne sono stati gli eredi, hanno letto e diffuso i Vangeli...
Baricco — I barbari che hanno invaso l'impero romano erano spesso popolazioni già parzialmente romanizzate guidate da condottieri che venivano dalle file degli ufficiali dell'esercito imperiale...
Magris — La profondità, tu scrivi, è spesso fondamentalista, ha condotto, in nome di valori forti, a guerra e a distruzione. Non credo però che la folla barbarica, innocente, pacifista dei consumatori di videogame sia adatta a scongiurare la violenza; la vedo semmai disarmata e ingenua e dunque facile preda di persuasioni collettive che portano alla guerra. Nella tua straordinariaPostilla a Omero, Iliade tu dici — e concordo pienamente — che la guerra non si sconfigge con l'astratto pacifismo, ma con la creazione di un'altra bellezza, slegata da quella pur altissima ma sempre atroce del passato, come nell'Iliade. Non vedo però nei consumatori di Matrix questi costruttori di pace...
Baricco — Apparentemente è così. Ma ogni tanto mi chiedo, ad esempio, se una delle ragioni per cui, dopo le due Torri, non siamo precipitati in una vera e propria guerra di religione su vasta scala, non sia proprio la barbarie diffusa delle masse occidentali e cristiane: il loro nuovo sospetto per tutto ciò che si dà in forma mitica impedisce di aderire in modo viscerale ai possibili slogan guerrafondai che in passato, e per secoli, hanno fatto così larga breccia tra la gente.
Magris — I barbari di cui parliamo sono occidentali, anche se integrano elementi di altre culture. Oggi la cosiddetta globalizzazione mescola su scala planetaria altre culture, tradizioni, livelli sociali, quasi epoche diverse, e introduce pure valori di profondità e di fatica, Assoluti, fondamentalismi. Una nuova folla di esclusi si affaccia al mercato della civiltà; rispetto ad essi, i nostri barbari sembreranno presto aristocratici di un altro ancien régime. Certo, passerà del tempo prima che i clandestini d'ogni lingua e cultura levino veramente la voce, ma...
Baricco — È vero. Quando parliamo di Umanesimo o di Romanticismo parliamo di mutazioni che riguardavano un mondo piccolissimo (l'Europa, e nemmeno tutta), mentre oggi qualsiasi mutazione si deve confrontare con il mondo tutto, perché con il mondo tutto si trova a dialogare. Sarà un'avventura affascinante. Ci sono intere parti di mondo con cui facciamo affari che nemmeno sono mai passate dall'Illuminismo: non sarà che l'uomo che stiamo diventando riuscirà a dialogare meglio con loro che con i suoi vecchi sacerdoti del sapere?
Magris — C'è un'altra mutazione in atto — non solo culturale, bensì antropologica, genetica, biologica — che potrà generare un'umanità radicalmente diversa dalla nostra, padrona della propria corporeità, capace di orientare a piacere il proprio patrimonio genetico e di connettere i propri neuroni a circuiti elettronici artificiali, portatrice di una sessualità che non ha nulla a che fare con quella che, più o meno, è ancora la nostra. Certo, passerà comunque molto tempo prima che ciò possa avvenire. Ma se quest'uomo o il suo clone sarà veramente «altro» rispetto a noi, non avrà senso chiedersi se sarà orizzontale o profondo, come non avrebbe senso chiederselo per i nostri avi scimmieschi o magari roditori...
Baricco — Tu dici? Non so. A me pare una frontiera assai più vicina, un destino che appartiene all'uomo come lo conosciamo oggi, a quell'animale lì. Perché credo che una delle acquisizioni fondamentali dell'uomo moderno sia stata quella di immaginare e generare una continuità nel suo cammino, una continuità pressoché indistruttibile. Non importa quanto tempo ci vorrà ma quando connetteremo i nostri neuroni con circuiti elettronici artificiali ci sarà ancora, accanto a noi, un comodino e sul comodino un libro: magari sarà in titanio, ma sarà un libro. E quello che facciamo ogni giorno, oggi, magari senza neanche saperlo, è scegliere che libro sarà: riesci a immaginare un compito più alto, e divertente?
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05 ottobre 2008

Popoli

Non chiedete a un arabo ciò che chiedereste
a un pellirossa
Popoli hanno sete di giustizia
E altri di ingiustizia
Popoli credono che la vita debba essere vissuta,
altri che debba essere mortificata
popoli praticano l’eguaglianza
altri la ritengono offensiva per loro,
che vivono nella disuguaglianza.
Ennio Flaiano
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