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Il titolo di questo blog è ancorato ad un editoriale di Amos Luzzatto pubblicato sulle pagine del quotidiano "La Repubblica" nel giorno di Pasqua del 2001 sotto il titolo "Il valore della Libertà il rispetto della Legge".

09 giugno 2008

I Centri di permanenza temporanea

Nella sporca storia dei campi di concentramento italiani, l’ultimo capitolo si sta aggiungendo nei nostri anni. Oggi siamo persecutori e carcerieri di emigranti.
Durante la dittatura fascista si poteva ignorare l’esistenza di lager da noi gestiti in Jugoslavia, in Libia, in Eritrea. Oggi lo vogliamo ignorare. Teniamo rinchiusi nel recinto del tempo perduto uomini venuti fino a noi da terre di malora e viaggi di fortuna. Non hanno commesso alcun torto penale, perché entrare nel nostro paese da una spiaggia anziché da un posto di frontiera non è reato. Li rinchiudiamo lo stesso senza diritto di nominare un avvocato, ricevere una visita, scambiare corrispondenza. Il termine è due mesi, ma spesso la detenzione si prolunga, spesso si ripete.
Siamo carcerieri di innocenti alla luce del sole e progettiamo nuovi campi di concentramento. Degradiamo le nostre forze di polizia a secondini di naufraghi, maltrattatori di indifesi.
Centri di permanenza temporanea: così chiamiamo questi recinti. Seguiamo così la losca tradizione di nascondere l’infamia sotto parole innocue. I nazisti chiamavano “wohnungbezirk”, distretto abitativo, i ghetti in cui ammassavano gli ebrei per lo sterminio. Chiamiamo missione di pace la spedizione, verso guerre lontane, dei più specializzati reparti militari. In Iraq siamo complici di occupanti che aizzano Furore. Missioni di pace, centri di permanenza temporanea: ci fosse almeno una dittatura a tapparci occhi, orecchie, naso, bocca, con la censura. Macchè, siamo nell’appetitosa democrazia dell’occidente dove tutto e documentabile e nessuna scusa protegge la nostra inerzia. Squillano dagli organi d’informazione i titoli gaglioffi della tolleranza zero per il fattaccio o il fatterello di cronaca. Alzano tolleranza mille sui campi di concentramento, sulla somministrazione di dosi enormi di sedativi ai prigionieri, sulla spesa di oltre settanta euro a testa per ogni rinchiuso, denaro che dovrebbe far risplendere i posti.
Il nostro paese all’estero fa un po’ sorridere per la sua bizzarria di eleggere a capo di governo il suo maggior possidente. A questo aggiunge il guasto di essere carceriere di innocenti senza processo. Soffiamo bene sullo specchio appannato e guardiamoci in faccia: siamo sfregiati dal marchio di persecutori di naufraghi, di traversatori di montagne a piedi. I calcinculo promessi agli immigrati da qualche ciarlatano li stiamo dando a noi stessi spingendo il nostro popolo al rango più basso della sua civiltà. E’ atto di pirateria imprigionare naviganti, è atto criminali espellerli verso un paese, la Libia, che non riconosce il diritto di asilo.
E poi tutto questo zelo carcerario a cosa ci serve? Sta sbarrando i flussi migratori? No. Perché non esistono misure per fermare gli spostamenti umani quando sono maree. L’umanità si è sempre travasata, da un paese all’altro, da un continente all’altro. Quella odierna è un’epopea grandiosa di donne e uomini, vecchi e neonati, che affrontano pericoli e deserti per raggiungere una sponda di salvezza. E’ l’epica antica della nostra specie invincibile che scavalca frontiere e arriva a dare fresca forza di lavoro a volontà alle economie di un nord lento e calante.
A chi si chiede onestamente come potremmo accogliere tanta umanità, la risposta è che l’accogliamo già. I milioni di nuovi regolari non sono passati dall’ingresso principale, non li abbiamo previsti eppure sono stati assorbiti dall’economia clandestina, quella sì clandestina, l’economia sommersa del nostro paese. C’era bisogno di quelle forze e ne accoglieremo finché il mercato lo vorrà. A che serve l’apparato dei campi di concentramento? Ha un solo effetto, quello di renderci peggiori come persone e come popolo in blocco, oppressori di umili.
I migratori hanno dalla loro il numero, mastino della storia che non cede la presa. E la storia costringe.
(Erri De Luca, Pianoterra, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 87-89.)


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