[....] Il rispetto, insegna Kant, è la premessa di ogni altra virtù, che non può esistere senza di esso, perché il senso della dignità propria e altrui è la base di ogni civiltà, di ogni corretto rapporto fra gli uomini e di ogni buona qualità di vita, propria e altrui. Il rispetto, nei confronti di chiunque, non può venire a mancare mai, nemmeno in circostanze drammatiche. Ci possono essere situazioni — in guerra, o per legittima difesa — in cui può essere tragicamente necessario colpire un uomo; non c’è alcuna situazione in cui sia lecita la mancanza di rispetto, nemmeno nei confronti di un colpevole cui giustamente venga comminata una grave pena.
Chi insulta l’avversario si delegittima; è come fosse politicamente interdetto e si includesse in quelle categorie di soggetti che secondo il vecchio codice cavalleresco non avevano i requisiti per poter essere sfidati a duello. Quegli improperi, pertanto, vanno considerati nulli, fuori gioco. È inutile e forse pure ingiusto prendersela con l’uno o con l’altra turpiloquente, perché ognuno fa quello che può, a seconda dei doni che ha o non ha avuto dal Dna, della famiglia in cui ha avuto la fortuna o la sfortuna di crescere, delle possibilità che ha o non ha avuto di sviluppare liberamente e con signorilità la propria persona o della malasorte che lo ha dotato di un animo gretto e servile. Chi nello scontro politico dice un’oscenità probabilmente non sa dire altro.
Non è uno scandalo che esistano queste volgarità; il grave è che esse non destino scandalo, che i loro autori non paghino dazio per il loro smercio di porcherie. È avvenuto qualcosa, nella nostra società, che ha mutato radicalmente quelle che ritenevamo regole pacificamente e definitivamente acquisite al vivere civile. Certe indecenze dovrebbero venire automaticamente sanzionate; se vengo invitato a casa di qualcuno e mi metto a sputare per terra, parrebbe logico che, quanto meno, non mi si inviti più e si cerchi di tenermi alla larga.
Anche l’ipocrisia, pur spregevole, è pur sempre, com’è stato detto, l’omaggio del vizio alla virtù e indica che una società possiede almeno il senso dei valori o, più semplicemente, di quelle forme che non sono vuota o rigida etichetta, ma espressione di reciproco rispetto. Se cadono queste regole, è come quando una violenta pioggia fa saltare i tombini e la melma delle fognature invade la strada.
Sembra invece che nessun comportamento, nessun insulto rivolto all’avversario politico, nessun gesto o termine disgustoso scandalizzi l’opinione pubblica. È avvenuta una radicale trasformazione che, distruggendo le vecchie classi — la classica borghesia, il classico proletariato — in un processo che per altri aspetti è stato liberatorio, ha distrutto sensibilità, valori, regole che ritenevamo componenti essenziali del patrimonio genetico della nostra società e del nostro Paese. [...]
Claudio Magris
*C.Magris,
La politica dell'insulto, "Correre della sera",